LUDOVIC – Brano tratto dal romanzo Le Nozze Barbare –
Yann Queffélec
(…) Ludovic era un ragazzetto longilineo dal volto emaciato. Aveva le spalle cascanti, le braccia muscolose, i capelli castano chiaro che la signora Blanchard, per timore dei pidocchi , gli rapava a zero. Gli occhi erano verdissimi. Lo sguardo si muoveva cauto e timoroso come quello di un animale in gabbia.
Durante quei sette anni vissuti in riva al mare, Ludovic non l'aveva mai visto. Lo udiva; ma l'abbaino del solaio dava sul cortile, sul locale del forno, e laggiù, sui pini monotoni imbacuccati nelle nebbie mattutine.
Ruggito o mormorio, il rumore continuava giorno e notte, così potente col tempo cattivo da coprire persino il russare del fornaio. Il bimbo voleva correre a vederlo, ma la porta era chiusa a chiave.
Quando il signor Blanchard attraversava il cortile, trasportando le pagnotte ancora fumanti dal forno al negozio, il profumo del pane caldo si diffondeva fino a lui. Sotto l'abbaino, per terra, e tra i suoi stessi capelli, il bambino raccoglieva ogni mattina una sottile polvere bianca dal sapore indefinito.
Di sotto era uno scampanellio senza fine. Poi, la sera, tra due silenzi, il canto dei cucchiai nella minestra, e troppo spesso, le grida acute delle donne e l'esplodere furioso del fornaio.
Gli portavano su i pasti una volta al giorno, sul finire del pomeriggio. Delle zuppe di tapioca, dei topinambur, e qualche cefalo che il signor Blanchard pescava al porto, sotto un pontile da dove le comari vuotavano i loro secchi. Mai del pane, nemmeno raffermo. Nicole gli aveva rifiutato il suo latte; il fornaio gli rifiutava il suo pane.
Venivano a turno, la signora Blanchard o sua figlia; capelli grigi e capelli colore del pane. Non gli parlavano, lui non parlava. Ma le voci salivano su dall'impiantito; col tempo alcune parole si impressero nella sua memoria, alcuni segni confusi si accesero in lui, che finì per identificarli. Appena la porta si era richiusa, Ludovic si gettava sul cibo e mangiava con le dita.
Il signor Blanchard non saliva mai. Una mattina che usciva dal forno, il suo sguardo aveva incontrato quello del piccolo, intento a fiutare il pane caldo. L'uomo aveva scosso la testa rabbiosamente e aveva sputato.
Quella sera, al piano di sotto si scatenarono. Il padre e la madre insultavano la figlia, e la figlia insultava Dio. E all'improvviso la porta si aprì davanti alle due donne in furia, la madre trascinava la figlia per i capelli: “ Ora glielo metti, puttana! Lo devi conciare come si deve, il tuo moccioso americano!”. “ No, mai!”, singhiozzava Nicole. “ Allora crepa!”, strillò l'altra, spingendola fuori. E fu lei a spogliare selvaggiamente Ludo per imprigionarlo in un vestito con i volant sporco e stracciato, che gli ballava sui polpacci.
A ogni modo era sempre vestito da femmina – a parte i mutandoni da uomo in grezzo cotone azzurro, a cui avevano rimesso l'elastico – senza calze, coi piedi infilati dentro sandaletti di gomma che non si chiudevano più.
Per lavarsi disponeva di una brocca d'acqua quotidiana, di un mobile da toletta e di un catino basculante al quale aveva finito per rompere il meccanismo. Su uno dei pannelli della toletta restava un frammento di specchio. Vi faceva scorrere il volto e ne vedeva soltanto una parte. Gli occhi verdi lo affascinavano. Finché la fornaia finì di distruggere lo specchio con un attizzatoio.
Faceva i suoi bisogni in una cassetta di sabbia, qualche volta sul pavimento, per ribellione. La signora Blanchard diceva: “E' proprio uno schifo!”, gli tirava l'orecchio e lo costringeva a baciare gli escrementi. Il colpevole, in ginocchio, implorava perdono.
Durante l'inverno dormiva sul fondo di un armadio, infagottato in un cappotto militare, sotto i panni appesi. Alla sera, la sua ombra camminava con lui. Si innervosiva, cercando invano di acchiapparla. Quando arrivava il bel tempo stendeva sull'impiantito i sacchi per la farina, e dinanzi all'abbaino aperto, concentrato sul mare, sugli odori, sulla notte, si addormentava, avvoltolato nel mollettone di un'asse da stiro, col dito medio inconsciamente posato sull'ano. Non aveva paura del buio, ma un nonnulla violentava il suo sonno. Un filo di saliva all'angolo delle labbra lo faceva piangere. La sua stessa mano, sfiorandogli casualmente un braccio, gli strappava grida di terrore, subito punite da una serie di colpi battuti contro il soffitto. I bruciori di stomaco lo consegnavano alle chimere dell'insonnia. Dormendo gli accadeva di digrignare i denti con tanta forza, da convincere il signor Blanchard che quegli insetti chiamati punteruoli gli stessero devastando i muri.
Ludovic sapeva più sussurrare che parlare, poiché il timbro naturale della sua voce lo spaventava. Ma di notte, nella sua testa, le voci degli altri battevano all'impazzata e le parole fioccavano come chicchi di grandine:
Deve studiare deve andare a scuola quel piccino…e poi non puoi lasciarlo morire in soffitta…ma no che non è scemo…mamma dice che è caduto da solo… se vuoi lo riprendo qualche giorno da me… che gliene importa a tua madre lui non c'entra… bisogna lasciar fare al tempo… non lo trovi carino…finirai per volergli bene…
Una notte si scagliò contro la porta e la sfasciò a pedate. I coniugi Blanchard faticarono a domare quell'ammutinato sonnambulo, insensibile alla frusta. L'indomani, il bambino si appassionò ai lavori di riparazione che il padrone di casa effettuò senza una parola.
Nanette, la cugina, tentava di convincere la zia a permetterle di ospitarlo di nuovo a casa sua. Abitava nei campi, fuori del villaggio. Usufruendo di un diritto di visita settimanale veniva a trovarlo, lo faceva parlare, contare sulle dita, si preoccupava di sapere se mamma Nicole era buona con lui, se gli piaceva che gli lavassero la faccia, “eh, porcellino mio!”. Gli raccontava allo stesso modo di Gesù Bambino, gli antichi Galli, i re di Francia e il carosello dei mestieri, chiedendogli spesso se ricordava tutti i bei momenti trascorsi con lei. Ma Ludo non rispondeva.
Appena Nanette se n'era andata, le macchinine e altri regali venivano confiscati dalla fornaia, col pretesto che poteva strozzarcisi.
Nell'inoperosità dei suoi giorni trasformava in magie tutti i tesori sfasciati che lo circondavano: la poltrona sbilenca, i panieri bucati, la macchina da cucire o la maschera a gas, che rompeva sempre un po' di più, con una gioia sensuale. E quando era triste si strappava le sopracciglia.
In mezzo alle travi del soffitto si era costruito, con della tela di sacco, una tana propizia all'oblio. Una corda ne consentiva l'accesso. Indugiava lassù interi pomeriggi, senza avvertire lo scorrere del tempo, assicurandosi un'oscurità maniacale, a prova di sole.
Per compagnia aveva dei ragni, che osservava tessere la tela e catturare prede volanti beffate dai controluce. Gli piaceva spiare quelle cacce impavide, dove si vedevano avvinti l'uno all'altro il divoratore e la vittima designata, il cui supplizio era appena intuibile in un fremito d'ali. Una sera d'agosto udì dei passi nel camino aperto, ci infilò macchinalmente la mano e si mise a urlare: una poiana gli si era avvinghiata al polso col becco e gli artigli; terrorizzata dalle grida era poi volata in mezzo ai travicelli del tetto. Ludo si guardava il braccio costellato dalle escoriazioni. Sopra la sua testa, colore di tenebra, stava appollaiata una bestia dal mutismo lunare.
La febbre oppresse il bambino per una intera settimana, provocandogli incubi durante i quali il cappotto da soldato usciva brontolando dall'armadio, e gli veniva addosso a braccia spalancate. Non toccò più i cefali, estenuandosi fin dall'alba a fissare gli occhi semichiusi del rapace, che la luce sembrava pietrificare. L'uccello andava a caccia di notte, riportando al mattino delle carcasse di topo, di cui Ludo esaminava in sua assenza le dentature ghignanti. Dopo un mese di taciturna armonia tra l'animale e il bimbo, la poiana scomparve.
Ludo conosceva a memoria l'orizzonte, il tetto del forno, il sentiero costeggiava la panetteria in direzione dei campi, l'abbaiare dei cani, il colore dei pini, mutevole nel corso dei mesi, il cielo sempre vagabondo che sapeva di resina o di corno bruciato. Nei giorni di pioggia un ruscello tagliava il cortile. Aveva spesso la sensazione che la porta stesse per aprirsi, che ci fosse qualcuno dietro a spiarlo attraverso le fessure del legno; poi se ne dimenticava.
Viveva senza luce elettrica, in balia del sole che l'inverno tramontava troppo presto. D'estate, il calore che gravava sul tetto lo spossava, ma assaporava l'azzurro, la campagna in fiore, l'incanto delle lunghe serate dolci come zucchero, il fremito rosso della vite vergine arrampicata sui muri del forno e, la notte, il gran ballo adamantino degli astri.
A cinque anni, la signora Blanchard l'aveva messo al lavoro.
Di buon mattino irrompeva nel solaio, con una bacinella di patate o di piselli da sgranare. Nei giorni di pioggia erano invece i fagotti di panni bagnati, che lui doveva stendere su un filo che attraversava il suo territorio. Sistemava assorto le mollette, e guardava gocciolare su vecchi giornali i bustini rosa confetto della sua aguzzina. Riconosceva al primo sguardo gli indumenti intimi della casa, ci si travestiva, li mordicchiava come dei capezzoli; e nelle giornate di sole, era felice di rivederli, scossi dal vento nel cortile, quasi fossero vecchi amici che lo salutavano da lontano.
Un sera d'inverno scorse una luce che trapelava da una fessura dell'impiantito. Grattò la polvere tra le assi con il suo pettine, vi incollò l'occhio, e rimase sorpreso nel vedere la bionda del piano di sotto, con le mani giunte al capezzale di un letto dalle coperte scostate. Batté le palpebre, quando si accorse che non indossava nulla, e poi tornò a spiarla. Da quel momento Ludo sorvegliò ogni giorno di soppiatto sua madre, infuriandosi se un angolo morto gliela nascondeva, contemplando malinconico la dolcezza di quel corpo nudo.(…)
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Finito di stampare nel mese di aprile 2004 per conto di Fazi Editore
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Yann Queffélec
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