IL RITMO DELLE GENERAZIONI

– Brano tratto dal romanzo Il passato davanti a noi –


Bruno Arpaia




(…) Ci passi mentre scendi a comprare i giornali alla stazione, dopo avere rivisto Armida e Dada. Stai ancora ripensando alle tue amiche, alle brutte notizie su Mirella, che dopo la disgrazia se n'è andata per rabbia dal paese, e imbocchi quella strada quasi senza volerlo, come se, dentro, un'abitudine si fosse risvegliata dal pas­sato. Perciò è soltanto un caso se esattamente li, in quel punto, sollevi gli occhi e te la trovi di fronte all'improvviso. Prima, da fuori, la casa in cui hai abitato fino ai nove anni non si vedeva bene, ma adesso, al posto delle botteghe che la circondavano, c'è un palazzone giallo di otto piani che l'ha lasciata inerme, allo scoperto: sventrata, vuota, piena di calcinacci, i muri senza into­naco, porte e finestre sprangate solo da due assi in croce. Sul portone smangiato c'è un cartello: "Ditta Saggese e figli. Demoli­zione casa pericolante. Non entrare".

È un attimo, il tempo di un veloce pari e spari, il tempo di prestare ascolto al cuore che ti batte a mille, e poi ti ficchi dentro, badando che nessuno se ne accorga, sperando che le scale non cedano al tuo peso. Sali al secondo piano, spingi con precauzio­ne la porta che traballa sopra i cardini ed entri per ritrovare in un attimo l'infanzia, la tua stanzetta, il bagno con le mattonelle rosa, il terrazzino dove organizzavi le corse delle mollette per i panni al posto delle macchinine, il piccolo salotto e in fondo la cucina con ancora il lavello di graniglia. Solo che quelle stanze te le ri­cordavi come piazze d'armi, e invece adesso le scopri striminzite. Che delusione. Che scherzi, la memoria. Come se avessi dei ri­cordi inutili.

Chissà perché, fai tutto in fretta e furia, con l'ansia addosso di non avere tempo, di star rischiando perfino un po' la vita. Quan­do ti affacci nello studio di tuo padre, risenti all'improvviso la sua voce, lo immagini nell'angolo, seduto al tecnigrafo, e avverti la sua assenza sulla pelle come una cicatrice, come un dolore acuto, come un rimorso di avere conservato di lui soltanto poche immagini, come una sensazione d'impotenza perché ora è trop­po tardi per dirgli quello che non gli sei mai riuscito a dire. Basta, è troppo. Mentre scendi le scale e scappi via, ti accorgi che hai una specie di grattugia in gola, gli occhi lucidi. Dev'essere la polvere, che cazzo. Dev'essere perché ora hai scoperto che il posto in cui avevi sistemato i tuoi ricordi sarà spazzato via fra un

mese o due, e che quelle tre stanze, il terrazzino, il bagno, la cucina, non le potrai mai dividere con quelli che tu ami. Vivranno solamente in te, e in nessun altro. Se questa non è pura solitudine... “Noi siamo una generazione che, se si guarda intorno, non trova niente, ma proprio niente, che l'abbia accompagnata dalla giovinezza, niente di familiare, se non i suoi ricordi” dice la tua compagna quando gli racconti della tua vecchia casa. “Che ci possiamo fare? Siamo cresciuti mentre il mondo faceva un salto quantico dal medioevo alla modernità.”

Sì, sì, può darsi. Ma adesso hai solo voglia di baciarla, di stringerla per non pensare più alla solitudine. Però per mesi rifletterai quelle sue parole, finché una mattina, sfogliando stancamente Walter Benjamin, ci troverai una frase che correrai nella sua stanza a leggerle.

“Senti un po' qua cosa scriveva Benjamin già negli anni Venti: ‘Una generazione, che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato, fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un 'campo magnetico di correnti e di esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell'uomo'. Insomma, hai visto? Non siamo stati i primi. Siamo normali, come tutti gli altri...”

Lei ti sorriderà, ma capirai che anche stavolta non ti confor­terà, non ti darà ragione.

“Sì” ti dirà, “ma il guaio è che soltanto noi siamo stati così si­gnificativamente giovani. Eravamo così convinti di essere nel giusto, così sicuri che fosse sacrosanto cancellare padri e madri, da provare addirittura disprezzo per chi ci aveva preceduto...”

E certo: è stato quello lì, il peccato. Avete rotto il ritmo delle generazioni, avete infranto la catena della tradizione. Senza di lei, la vita è solamente un labile passaggio che non lascia traccia. E lei, la tradizione, che tiene insieme il passato, il presente e l'av­venire. E non è fatta solo di memoria, perché sa anche dimenti­cate con saggezza ciò che non dura, quello che non serve. La tradizione è l'arma di chi non si accontenta del suo Io, di chi è convinto che la storia nasca prima di lui e gli sopravviva, di chi pensa che vivere non sia abitare solo questo presente eterno, formicolante, ubiquo, a cui oggi tutti sembrano condannati. Che paradosso: voi vivevate col peso del passato sulle spalle e un futuro radioso che vi aspettava li da qualche parte, voi vivevate come sulle barricate della Comune di Parigi, come di guardia alla Città Universitaria di Madrid nel Trentasette, voi sentivate di poter dire "noi", voi pensavate che l'individuo non contava nulla se non faceva parte di una comunità, e invece proprio voi avete rotto i fili che annodano il passato all'avvenire, vi siete chiusi dentro una corazza, immaginandovi come dei reduci di una guerra persa che non può essere spiegata a chi non l'ha vissuta. Sarà per la stanchezza, però perfino adesso continuate a spargervi alle spalle silenzi, pudori e reticenze, come se quella vostra storia non si po­tesse trasmettere a nessuno. Per questo scrivi. Per non sentirti parte di una setta di iniziati, che vanno avanti a sottintesi segnati solo sulla propria pelle. Per raccontare a tuo figlio chi eravate, e forse anche chi siete. Soltanto che, per raccontare bene, bisogna anche pensare. E c'è un casino di cose che proprio non sai dire perché non ci hai ancora riflettuto per davvero. Ma il guaio è che sei lento, che muori molto più in fretta di quanto puoi pensare.



(Tratto dal romanzo Il passato davanti a noi, Guanda editrice, Parma 2006.)



Bruno Arpaia è nato nel 1957 a Ottaviano, in provincia di Napoli, e vive in Liguria. Giornalista, consulente editoriale e traduttore di letteratura spagnola e latinoamericana, ha pubblicato i romanzi I forestieri , Il futuro in punta di piedi , Tempo perso (Premio Hammet Italia 1997) e L'angelo della storia (Premio Selezione Campiello 2001, Premio Alassio Centolibri – Un autore per l'Europa 2001).



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