IL CAPITOLO “PETER WEISS”
Evgenija Kazeva 
Peter Weiss non appartiene invero agli autori che hanno accompagnato le mie notti, i fine settimana o anche solo le vacanze, ma qui non ne va tanto della quantità, quanto dell'intensità della relazione, dell'impronta lasciata nella mia vita.
Nel settembre del 1974 si tenne a Mosca un congresso per la quarantesima ricorrenza del primo Congesso Generale degli Scrittori Sovietici. All'evento vennero invitati anche autori stranieri, tra gli altri Peter Weiss, che mi fu subito presentato da Friedrich Hitzer. A questo proposito Peter Weiss scrisse nei suoi appunti: “Come allora ad Hanoi ci venne incontro Nguyen Dinh Thi, un amico per la vita, cosí anche qui a Mosca all'improvviso una persona, Ženiija Kazeva: familiare, come conosciuta da tempo – profonda partecipazione reciproca.“ ( Notizbücher, vol. 1, pp. 347)
Il solo fatto che Peter Weiss sia stato invitato al congresso appartiene alle incongruenze di cui la nostra cultura ha profittato in tutte le sue fasi – nel gelo come nel disgelo, fino all'epoca della stagnazione. Dopo il successo delle rappresentazioni dell'” Istruttoria ” e di “ Mockinpott ” da parte del celebre teatro Taganka di Jurij Ljubimov, proprio a quell'epoca Peter Weiss era stato infatti dichiarato persona non grata. Il motivo era la sua pièce “ Trockij in esilio ”, un onesto tentativo del comunista Peter Weiss di offrire un contributo, in occasione del centesimo anniversario della nascita di Lenin (1970), alla rimozione delle “macchie bianche” nella storia della Rivoluzione d'Ottobre. A poco serviva che la pièce non fosse affatto “trockista” o tanto meno un'apologia di Trockij, né che l'autore, avendo sentito le reazioni a dir poco negative provenienti dai paesi socialisti, avesse “ritirato” la pièce e proibito la stampa e la rappresentazione. Solo il fatto di essersi occupato di una persona e un tema indesiderati bastava a condannare un autore.
Sulla Literaturnaja Gazeta uscí all'epoca un articolo intitolato “L'autoimmagine e l'autosmascheramento di Peter Weiss”, a firma di Lev Ginsburg. Ciò ferí profondamente Peter Weiss, in quanto proprio quel Lev Ginsburg era stato non solo il primo, ma anche l'unico ad averlo tradotto in Unione Sovietica fino a quel momento. Niente meno che brillante era stata la sua versione del dramma in versi “ Marat/Sade ”, che Jurij Ljubimov voleva portare in scena – il che riuscí tuttavia solo trent'anni piú tardi, nel 1988. Ginsburg trovò piú tardi un modo astuto per pubblicare almeno il “Marat” – come contributo finale dell'ottimo e corposo volume “Lirica tedesca di dieci secoli”.
Sotto il 4 Settembre 1974, Weiss scrive: “Incontro con Lev Ginsburg. Come affrontare questa cortesia, proveniente da colui che allora (dopo il dramma su Trockij) mi ha insultato nel modo piú indecente? Schizofrenia socialista? Svalutazione totale della parola? Utile solo a scopi tattici contingenti, o forse per autodifesa: aveva tradotto il “Marat”? Non si può piú prendere niente sul serio? O tutto è talmente serio da non potersi piú prendere?” (NB I, pp. 347)
Se si ripensa alle condizioni dell'epoca, bisogna riconoscere che Weiss aveva indovinato il vero motivo: autodifesa di una persona che tanto aveva fatto per diffondere l'opera di Weiss in Unione Sovietica. Proprio per questo Ginsburg non poté rifiutare l'“incarico della società”. Mancavano molte cose all'epoca, non certamente la destrezza gesuita. La “schizofrenia socialista” era una malattia diffusa – come nel caso della Lettera Aperta apparentemente firmata da rinomati ebrei, in seguito all'episodio inventato dei medici, con la quale esigevano l'allontanamento di tutta la schiatta da Mosca.
Proprio lo stesso giorno in cui uscí l'articolo di Ginsburg, Heinrich Böll dava un ricevimento a conclusione della sua visita a Mosca. Naturalmente anche Ginsburg era tra gli invitati. Arrivò in ritardo e si precipitò, senza neppure togliersi il cappotto, a stringere la mano dell'anfitrione. Il sempre gentile e bonario Heinrich Böll, già informato dei fatti, fece finta di non vedere la mano tesa e si rivolse a un altro ospite, con il quale in tutta evidenza non aveva niente di urgente da discutere. Era imbarazzante vedere come Ginsberg, davanti a una platea ammutolita e indifferente, metteva un piede davanti all'altro barcollando verso l'uscita.
A proposito: “ Trockij in esilio ” è uscito piú tardi, nell'Aprile del 1990, per il 120° anniversario della nascita di Lenin! La traduzione era di Jurij... Ginsburg, il figlio di Lev. Anche il “ Marat ” riuscí ad essere rappresentato ancora in epoca sovietica, per quanto dopo la morte dell'autore e del traduttore. Alla fine di Ottobre del 1988 il Teatro della Flotta Baltica portò sulle scene della città lettone di Liepaja la prima russa. Purtroppo non riuscii ad essere presente, in cambio ottenni diverse foto della rappresentazione. Non ero stata invitata per la mia passata militanza nella Flotta Baltica, bensí perché qualche giorno prima, sulla Literaturnaja Gazeta, era uscita la mia traduzione di un capitolo del primo volume dell'” Estetica della resistenza ”.
La germanista Tamara Motyljova si adoperò con ardore affinché quest'opera venisse pubblicata in Russia. In ogni occasione parlava dell'” Estetica della resistenza ” e su questo argomento scrisse anche un articolo su Voprosy Literatury. Quando in seguito a questi sforzi mi venne chiesto di presentare un brano del romanzo, scelsi naturalmente il piú delicato, quello che trattava i processi moscoviti del 1937. Se fosse passato quello, non ci sarebbero stati piú ostacoli alla pubblicazione di tutta la trilogia.
Effettivamente il Comitato Centrale affidò a un editore l'incarico di tradurre l'” Estetica ”. Per accelerare il lavoro su quell'opera imponente, venne messa insieme una vera e propria brigata di traduttori. Tutto sembrava regolato, tanto piú che i tempi sembravano piú che maturi per quell'opera. Nondimeno all'improvviso venne a mancare Inna Karinceva, la traduttrice del primo tomo, e agli altri fece difettò il necessario impegno, cosicché il progetto si insabbiò. Anch'io, lieta di aver contribuito ad avviarlo, lo persi di vista e piú tardi non fui in grado di salvarlo tempestivamente. A quell'epoca tutto appariva possibile, persino l'impossibile, tutta la letteratura proibita usciva senza ostacoli e l'” Estetica della resistenza ” non sembrava piú cosí attuale. Perdonami, Peter, per non essermi adoperata fino in fondo, so quel che significava per Te quest'opera, quanto era importante per Te che almeno venisse pubblicata nella DDR – e quanto ti costarono tutte le dilazioni, malgrado non fosse necessaria alcuna traduzione.
L'unico contributo che riuscii ad apportare fu una breve illustrazione della trilogia nell'introduzione a un volume di drammi. La casa editrice mi aveva pregato di scriverla perché l'autore dell'introduzione era un giornalista politicamente rinomato ma completamente ignaro del capolavoro di Peter Weiss.
Un piccolo contributo in memoria di Peter Weiss è stato prestato da mia figlia, che ha tradotto il conturbante testo “ Meine Ortschaft ” (Il mio luogo), scritto nel 1965 in occasione del processo di Auschwitz.
Ma tutto questo avvenne dopo la sua morte.
I dieci giorni che nel Settembre 1974 Peter Weiss trascorse a Mosca e Volgogrado (già Stalingrado) vengono raccontati piuttosto dettagliatamente nel primo volume dei suoi libri di appunti. Il congresso degli scrittori venne allestito nella sala delle feste della Casa del Sindacato, ex club dei nobili, dove nel Marzo 1938 si era svolto il processo a Bucharin e tre anni prima, nell'agosto del 1934, lo stesso Bucharin aveva tenuto il famoso discorso per la costituzione della Lega degli Scrittori.
Il soggiorno fu un evento emozionante per Peter Weiss. Gli occhi del pittore trattennero numerosi dettagli della sala, per elaborarli nell'” Estetica ”, a cui lavorava a quel tempo e il cui primo volume sarebbe uscito un anno piú tardi, nel novembre 1975. Il processo Bucharin, di cui Weiss fornisce una descrizione precisa, non si tenne tuttavia nella Sala delle Colonne, bensí nella Sala dell'Ottobre. Questa inesattezza mi fu fatta notare da Arkadij Vaksberg. Forse Peter Weiss non lo sapeva, forse l'aveva messa in conto in cambio di un maggiore effetto. La descrizione di Peter Weiss venne influenzata dalla cronaca radiofonica del processo riferita da parte dello scrittore norvegese Nordhal Grieg ai suoi compagni in Spagna (fu proprio quel brano dell'” Estetica ” che apparve allora sulla Literaturnaja Gazeta).
A Mosca trascorremmo insieme molte ore. La sera Peter veniva da me per discutere quello che aveva visto e sentito durante i ricevimenti, le conversazioni e gli eventi della giornata. Mi chiedeva spiegazioni, aggiunte, rettifiche e commenti, per comprendere meglio il paese, le persone e le condizioni di vita. Di grande importanza era per lui anche il fatto che avessi lavorato, nei primi quattro anni dopo la guerra, come ufficiale culturale a Berlino. Conoscevo alcune persone che ricorrevano nell'” Estetica ” – soprattutto André Simone, che a suo tempo aveva redatto con Münzenberg il “ Braunbuch ” e nel libro di Peter Weiss rivestiva un ruolo importante. Voleva sapere come era allora la vita in Germania, ogni particolare era per lui importante.
Oltre all'”opera di istruzione” c'erano naturalmente anche momenti lieti. Allorché una sera a casa mia si era radunato un gruppo di amici e io, di ritorno dal lavoro, non avevo avuto il tempo di preparare niente, Peter si arruolò in cucina: “le patate le pelo io, in questo sono maestro” – e in effetti ne diede prova con tanto di grembiale intorno alla vita. I bicchieri dovevano essere lavati e lui li lucidò magnificamente, fino ad affermare soddisfatto: “piú brillanti non possono essere neppure al Cremlino”.
Una magnifica serata la trascorremmo da Konstantin Simonov (Weiss la menziona anche nei suoi appunti), il cui archivio colossale e ordinato lo riempí di meraviglia – non per caso vi aveva lavorato per 36 anni la stessa segretaria. Come interprete non fui sempre all'altezza. Per esempio non conoscevo l'attrezzatura menzionata da Simonov, indispensabile ai soldati che giacciono a lungo in trincea. Cercavo, senza capire bene, di trasporre le spiegazioni di Simonov (ne andava di un metodo di spidocchiarsi), al che lui mi scusò con queste parole: “Beh, Ženija era nella marina – l'aristocrazia dell'esercito. Certe cose non le conoscevano”.
Peter Weiss strinse anche amicizia con Jurij Trifonov. Lo volle conoscere perché sapeva che Böll lo aveva proposto per il Nobel, per il romanzo “ Il tempo dell'impazienza ”, che appariva cosí attuale in Germania all'epoca della Rote-Armee-Fraktion. Nei “ Notizbücher ” Weiss aveva riportato: “11/9 affinità interiori riscontrate tra persone nei luoghi piú lontani (Ženija, Trifonov) – lo stesso ambiente di vita nessuna garanzia per comprensione o amicizia.” (NB I, pp. 368)
A Volgogrado Weiss era con Friedrich Hitzer (BRD) e Max-Walter Schulz (DDR). Al loro ritorno organizzammo nella redazione di Voprosy Literatury una discussione con gli scrittori sovietici Sergej Smirnov e Jurij Bondarev, reduci della battaglia di Stalingrado. Malgrado il tema, la discussione fu molto allegra, tanto piú che “i tedeschi” avevano portato da Volgogrado un enorme cocomero – idea di Hitzer – che non serví solo per un assaggio. Casualmente capitò anche il famoso attore Innokentij Smoktunovskij, di cui allora preparavamo per la stampa un saggio su Puškin. La possibilità di potersi cimentare su un nuovo terreno riempiva l'attore di orgoglio, era un ospite frequente e gradito. Fu una serata perfettamente riuscita. Naturalmente il tavolo non era solo abbellito dal cocomero – contribuimmo da parte nostra con ben altri corroboranti. Nonostante ciò, da quella discussione venne fuori anche un'interessante pubblicazione.
Il viaggio a Volgogrado aveva profondamente emozionato Peter Weiss. Aveva visto la città un tempo distrutta e oggi ricostruita, visitato kolchos modello e magnifici asili infantili (“Questi ci farebbero comodo anche in Svezia.”) Le sue impressioni sull'Unione Sovietica le sintetizzò nella frase: “Che modello potrebbe essere questo paese, se facesse i conti con il proprio passato” (NB I, pp. 366).
Per quanto riguarda la seconda parte della frase, i conti continuiamo a farli ancora oggi, purtroppo non sempre con la dovuta coerenza e decisione. Weiss aveva cominciato molto prima – i conti non riguardavano solo la nostra storia. Ercole, che nel romanzo riveste un ruolo eminente, potrebbe essere d'aiuto a pulire le stalle di Augia.
E cosa c'è da dire sulla prima parte della frase, non da ultimo ispirata dalle impressioni dei kolchos e degli asili infantili? Non gli avrei dovuto ricordare quello che già sapeva ma che aveva evidentemente scordato (o voluto scordare): che la piú grande invenzione russa di ogni tempo sono i “villaggi di Potjomkin”?
Traduzione di Antonello Piana
Precedente Successivo
GEGNER
- L'AVVERSARIO
Copertina
|