DUE MAMME Francesca
Dello Strologo
Mi hai messo in bocca tutte le parole a cucchiaini, tranne
una: mamma Quella l'inventa il figlio sbattendo le due labbra Quella l'insegna
il figlio (Erri De Luca, Il contrario di uno)
C'erano
delle volte che avevo due mamme. Poi una se n'è andata e me n'è
rimasta una sola. Quella del mio babbo e dei miei fratelli. L'altra mamma me la
ricordo. Ma poco. Con lei non avevo né babbo, né fratelli. Mi piaceva
anche lei. Ma poi è andata via. La mamma Sonia mi ha detto che mamma Giovanna
è dovuta andare via. Che lei non voleva. Ma che stava male. Così
è partita per un lungo viaggio e però mi vuole ancora bene. Io ci
credo, ma poi alle volte no, perché non capisco perché non poteva
rimanere qui che a casa nostra di spazio ce n'è tanto e io potevo dormire
con Marco come quando vengono i nonni che è vero che si litiga, ma si fa
per finta. Io gli dico che gli puzzano i piedi e lui mi dice che mi puzza il culo
e allora si fa la lotta e vince sempre lui, tranne quando mi fa vincere a me che
lo so che lo fa apposta, ma io sono contento lo stesso e alla fine lui mi strapazza
la testa e mi dice "Sei un mostro!" e io faccio finta che non mi piace,
ma non è vero, perché lui è il mio fratello più grande
e mi piace molto che lui mi vuole bene. Quando mi hanno detto che mamma Giovanna
era andata via erano tutti tristi e mi hanno coccolato tanto. Io però non
ero triste, anzi sì, anzi no. Ma quando mamma Giovanna non tornava più
allora sono stato davvero molto triste e ho picchiato Gianluca a scuola e la maestra
ci ha punito a tutti e due, ma io lo so che avevo ragione e me l'ha detto anche
babbo Enrico. Non me l'ha detto proprio, ma l'ho capito. Gianluca è
stato proprio stronzo, anzi cattivo. Mi ha detto che la mia mamma era morta. E
io mi sono arrabbiato e gli ho dato un pugno e gli ho detto che non era vero e
allora lui mi ha risposto che se non era vero che la mia mamma era morta, allora
era andata via perché non mi voleva più bene e io l'ho picchiato
più forte. E poi si piangeva tutti e due, ma io non per le botte. La maestra
allora ci ha messi a sedere in un angolo, ma io non volevo stare vicino a quello
lì, poi s'è fatto pace, perché io con Gianluca ci gioco sempre. Ma
quel giorno lì me lo ricordo bene, perché quel giorno lì
è morta la mia mamma Giovanna. Le
parole di Giacomo si sfilavano come le perle di una collana che portava al collo
da troppo tempo. Finalmente libere cadevano giù rapide e sincere. Lo vedevo.
Mentre tirava in su col naso asciugandoselo con la manica. Mentre se ne stava
seduto accanto a Gianluca e pensava che l'intervallo sarebbe finito senza poter
scambiare le figurine che aveva nello zainetto. Mentre entrava in casa di corsa
e affondava il naso nel grembiule della mamma che sapeva di pasta al pomodoro
e nella tasca di quel grembiule rovesciava tutta l'angoscia delle sue domande.
Mentre la mamma lo prendeva in collo e cullandolo con tutto il suo amore finalmente
gli rispondeva. Mamma
Giovanna è morta davvero. Il
cuore di Giacomo serviva da sempre a far vivere due anime. Nel momento in cui
Gianluca aveva offerto parole ai suoi dubbi, quelle due anime avevano smesso di
parlarsi. Il
giorno del primo appuntamento arrivarono tutti e due sulla porta, ma entrò
un solo Giacomo. L'altro aspettò fuori per diversi mesi. Per primo conobbi
quello che aveva telefonato per fissare il colloquio. Era un uomo misurato. Parlava
sempre con lo stesso tono di voce, senza sbalzi, come se le sue emozioni fossero
sempre sotto controllo. Voleva solo smettere di fumare. Tutto qui. Ogni cosa
sembrava al suo posto. Nessuna sfasatura. Nessun rumore di sottofondo. Un
giorno mi affaccio sulla porta della sala d'attesa e lo invito ad entrare. Come
sempre. Salutandolo noto qualcosa fuori posto, ma non riesco a capire. Mi segue
nello studio. Chiudo la porta mentre Giacomo attraversa la stanza e si siede. Cerco
di far emergere dalla mia sensazione quel qualcosa di strano che ancora non riesco
a focalizzare. Tra i capelli neri fa capolino un ricciolo in disordine, come un
piccolo periscopio che dubita guardandosi intorno. Mentre Giacomo parla dei suoi
non problemi, percepisco nella sua voce un tono diverso. Le sue parole hanno il
profumo di caramelle appiccicose, si muovono agitate nella stanza come se corressero
dietro ad un pallone, hanno una forza sconosciuta. In quel momento sotto il ricciolo
scomposto vedo il bambino che si è intrufolato, stanco di aspettare che
l'altro Giacomo si decida a parlare di lui. Mi guarda con occhi grandi, curiosi.
Mi guarda. E questa è la prima differenza con l'uomo che ho conosciuto.
Sento i suoi punti interrogativi. Li vedo quasi riflettersi nello specchio
della mia anima come se misurassero lo spazio in cui vogliono tuffarsi per verificare
se in quel punto l'acqua è abbastanza profonda. Non
ci è voluto molto tempo perché quei dubbi cominciassero a piovere
uno dopo l'altro. Odore
di mani golose che nascondono in fretta qualcosa. Ora quando Giacomo arriva quest'odore
riempie sempre la stanza. Ho cominciato a chiedergli: cos'hai lì dietro. Inutile.
Giacomo gioca a nascondino. Sono dovuta tornare bambina per poter giocare con
lui. Solo così mi ha mostrato le mani. Ed ho iniziato a vedere lucertole
senza coda, cavallette e farfalle prigioniere in barattoli bucati, note da firmare,
confetti ciucciati a metà, piccole conchiglie arrotolate intorno al
suono del mare, avanzi di tempeste, paure stropicciate. Giacomo
apre la mano e mi mostra una fragola spiaccicata. L'ha stritolata dentro ad un
pugno arrabbiato. Una piccola impronta rossa con tutti i semini sparsi come
un sorriso frantumato. Mi fa vedere tristemente il suo bottino e rinfila la mano
in tasca, nasconde la testa nel cappuccio e si gira. Si volta di nuovo e mi invita
a seguirlo. C'è
una giovane donna. Ha gli occhi scuri, dolci e profondi, un naso piccolo e dritto
che finisce su una bocca piena, tonda come una ciliegia. Il contorno del viso
è indeciso, sparisce sotto una massa di capelli neri che si fingono lisci. La
sua pelle ha il colore di una carezza di sole. Intorno ad un collo lungo e forte
è appeso un morbido camicione con piccoli fiori colorati che finisce poco
sopra un paio di sandali di cuoio consumati. Sulle spalle uno zainetto di stoffa
fa da contrappeso alla piccola pancia che le gonfia timidamente l'ombellico. Cammina
a passi piccoli, come se evitasse le linee delle pietre che formano la trama grigia
di quella piazza. Istintivamente cerca i pieni, mentre si muove con leggerezza
nell'aria di maggio. Si avvicina un ragazzo sorprendendola alle spalle. La abbraccia
da dietro e lei si agita. Lui la libera e sorride. Lei si gira e gli dà
uno spintone di finto rimprovero. Riprendono a camminare verso una panchina di
pietra, un ovale senza spalliera. Il ragazzo è vestito tutto di nero,
in modo ostinato, tranne i capelli. Giovanna lo guarda e ride. È una moda
orribile. Senza speranza. La cresta viola del ragazzo si agita. Come
stai? Lo sai che non li sopporto neanche io, ma hanno diritto di avere tue notizie,
di vederti, di sapere cosa fai. Giovanna
guarda oltre, chilometri più in là. Diglielo
tu che sto bene. È la frase che vorrebbe pronunciare, ma non ci riesce.
E invece pensa che se i genitori permettono a suo fratello di vestirsi in quel
modo è soltanto a causa sua. Cercano di non commettere gli stessi errori.
Ma cosa ne sanno loro di quello che c'è fuori dai doveri e dai sensi di
colpa, le uniche dimensioni semplici del loro universo rettangolare. Lei non
ha niente contro di loro, semplicemente non li vuole. E non vuole che loro sappiano
del suo bambino. È solo suo. Ci
vediamo un'altra volta. Ora devo andare. Giovanna
saluta il fratello. Lo sfiora appena. Torna a cercare i pieni in quella piazza
grigia. Deve trovare un posto più accogliente per il suo bimbo. Quella
città è troppo vuota. C'è
un corridoio lungo. Tutto a vetri su un lato. Dall'altra parte le stanze sembrano
le cabine di una nave, affollate come in terza classe. Donne, neonati, donne con
la pancia tesa pronta a scoppiare, bambini che stanno appena in piedi, che mettono
i denti, donne che giocano a fare le mamme, bambini che piangono, mamme, poche,
solo qualcuna. Giovanna è tra le mamme. Giacomo è tra i neonati. Giacomo
ride di gusto, con quel suono a metà tra un gargarismo e parole indistinte. Giovanna
lo guarda e pensa che sarà fortunato. Deve esserlo. È così
vispo. In mezzo a quello zoo riconosce la sua presenza come avesse un radar. Solo
ombre, ha detto il pediatra, fino a quattro mesi i neonati non distinguono le
immagini. E invece il suo bimbo vede tutto. E sente. E cresce così velocemente. Giacomo
è ancora rintanato nel suo cappuccio, si nasconde alle sue scoperte. Ma
il sorriso che ha intravisto lo spinge fuori dal suo rifugio. Sonia
è andata al supermercato dei bambini. Dove stanno quelli dimenticati, quelli
che hanno perso i genitori e quelli che hanno la mamma sola che non ce la fa. Non
ci sono scaffali. Ci sono stanze piccole e affollate con tanti bimbi e qualche
mamma. Sono
entrata nella stanza e ti ho riconosciuto subito. Sapevo che eri te. Avevi
una gran voglia di giocare. Ho conosciuto Giovanna ed insieme abbiamo deciso di
portarti fuori, ai giardini. La
mia mamma ha raccontato di quando ero nato che non aveva sentito male e che piangeva
da quanto era contenta e allora le mie mamme piangevano tutte e due. Dal supermercato
sono andato via presto, le mie mamme avevano deciso che stavo meglio a casa. Mamma
Giovanna veniva nel fine settimana. C'è una volta che è arrivata
e mi ha portato la fattoria con tutti gli animali e i recinti, gli alberi e lo
stagno finto. I pezzi erano dentro a un sacchetto verde. Li tiravo fuori uno per
uno. E li sistemavo per terra. Quella volta abbiamo giocato tanto e ci siamo divertiti. Tieni.
È il mio cavallo preferito. Si chiama Giacomo, come me. Ci puoi giocare
quando non sei qui, così non ti senti sola. Tutte
le volte che tornava mi riportava il cavallino e io lo rimettevo insieme agli
altri animali. Quando andava via lo nascondevo nella sua borsa. Giacomo
racconta. Ricorda. I suoi pensieri sono un'onda che bagna una spiaggia lontana,
non frequentata da tempo. Il bambino e l'uomo si mescolano nella sua anima, inciampano
a vicenda ed invadono i rispettivi territori. Dentro, sente una musica ossessiva,
è il ragazzino che fischietta e che lui ancora non riconosce. Mia
madre mi ha abbandonato. È questa la realtà. Non mi ha voluto. Per
un po' ha continuato a far finta, si è intrufolata nella mia vita, nella
mia famiglia. Ha cercato di segnarmi con i ricordi. Se non mi ricordassi niente,
se non avessi mai visto il suo viso, se non mi avesse mai dato la buonanotte,
se non avessi mai sognato in collo a lei, se non avessimo mai giocato insieme,
se non le avessi mai dato il mio cavallino, era il mio preferito, mi avrebbe protetto,
sarebbe stato sempre con me e ce l'avrei ancora
e invece gliel'ho dato e
non è più tornato indietro. Sonia,
diglielo tu, se puoi, io non ci riesco. Non riesco a prendermi cura di nessuno,
neanche di me. Sarei di troppo. Lui ha voi, so che lo crescerete con amore.
Diglielo, ti prego, che me ne vado perché gli voglio bene, lo amo con tutta
me stessa, più di me. Non voglio che soffra a causa mia. Due mamme sono
troppe per un bimbo solo. Porto con me il cavallino baio, ho un viaggio da
fare e non sono sicura di farcela. Giacomo
piange e si dondola dentro ad un buio così scuro e profondo dove finora
non era mai entrato. Non ci sono più pensieri, nessuna domanda. Finalmente
c'è solo il dolore. Amore, morte, paura, carezze, baci, disperazione. Giacomo
urla. È un barrito cupo, nero, pesante come l'abbandono che ha provato
per tutti questi anni senza capire, senza neanche volerne sfiorare il bordo per
paura di scoprire che sua madre l'aveva lasciato. È rimasto appeso a
quella paura per tutto quel tempo, seduto su un'altalena a mezz'aria, mentre la
sua vita si è fatta da un'altra parte, malgrado lui. In quel buio tremendo
Giacomo scopre la sua storia, le piazze ed i vicoli della sua immaginazione, tutte
le cose vere che credeva di aver solo sognato. Quella
volta al mare, c'eri anche te, non era una fantasia. Quando non mi volevo mai
alzare che mi sgridavate in due. Quando ti ho detto che eri cattiva perché
andavi sempre via. Quando giocavo a nascondino perché mi piaceva che tu
mi trovassi e mi abbracciassi dentro al tuo sorriso. Giacomo
parla alle sue mamme, le riconosce dentro di sé, nel mare, unico, della
sua anima.
Francesca
Dello Strologo, nata a Livorno, è emigrata da piccola a Firenze dove
lavora come avvocato. Scrive racconti, ma sono in pochi ad averli letti. Si trova
qualcosa in rete, rigorosamente niente su carta. Con "Due mamme"
ha partecipato al Premio Teramo 2007, risultata tra i finalisti, è riuscita
a non vincere. (francescadellostrologo@gmail.com)
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