LA TELEFONATA
Ezio
Tarantino
Quando
mi domandò: "Le posso chiedere la cravatta?" dissi: "Non
c'è problema", per essere rassicurante. Volevo quel lavoro. In
seguito mi domandai la ragione di quella richiesta, visto che, almeno all'inizio,
avrei dovuto semplicemente starmene chiuso in una stanza a telefonare allo sterminato
numero di potenziali clienti del più rivoluzionario metodo per imparare
l'inglese. Non disponendo di videotelefono era chiaro che la cravatta era considerata
una specie di garanzia morale, come assicurare in qualche modo di non sputare
in terra, o non essere gay. In ogni caso nessuna garanzia poteva avere alcun valore,
né essere di alcuna utilità in quel lavoro. Il primo giorno ci
fu il temuto incontro con il direttore generale. C'era un certo nervosismo, tra
i manager. Una di questi, una cinquantenne cilena molto bionda, cercava di incutere
soggezione nei nuovi assunti raccontando le performance di vendita del suo primo
mese di attività. Spiegò che a quel tempo non aveva letteralmente
di cosa mangiare. Fare un contratto al giorno non era per lei motivo di orgoglio
ma un problema di sopravvivenza. Era chiaro che non ci riteneva assolutamente
in grado di emulare il suo record, solo perché uno di noi fece una domanda
a proposito del trattamento pensionistico. Un atteggiamento da smidollato. Il
direttore generale venne e se ne andò dopo aver raccontato qualcosa della
sua giovinezza e aver consigliato caldamente la lettura fondamentale della sua
vita, Cosa pensi di te? Guida all'autostima, che a lui aveva insegnato
a non balbettare, sudando come una mozzarella, al semplice avvicinare un vigile
urbano per avere un'indicazione stradale. Di lui non ricordo altro. Il mio
sales manager era un uomo senza capelli, giovane e invidioso di quelli che facevano
più soldi di lui. Girava in moto, galvanizzava i collaboratori ma li disprezzava.
Portava camicie a righe di diversi colori, aveva stile. Il giorno successivo
mi ritrovai, insieme ad altri cinque o sei, in una stanza al pian terreno di un
bell'edificio primo Novecento in una traversa di Corso Trieste. Quello che un
tempo doveva essere stato l'appartamento del portiere. Mi fu dato l'elenco
del telefono, A-L, e poche ma chiare indicazioni, scritte su un dattiloscrittoplurifotocopiato,
nel quale era stampato il testo della conversazione che avrei dovuto sostenere
con i miei potenziali clienti. Il vice senior sales manager (dove vice va letto
vais), un uomo sulla quarantina con la barba e la pancetta, che si chiamava
una cosa come Giuffrida, Gionfrida, o Iufrida... ci spiegò nei dettagli
quello che avremmo dovuto fare, quali sarebbero state grossomodo le reazioni della
gente, e con quali sottili strumenti avremmo dovuto fronteggiarle. Ci spiegò
che quello che ci apprestavamo a fare era il telemarketing, una disciplina all'avanguardia
studiata in tutte le facoltà di economia degli Stati Uniti. Con una
certa cautela mi sedetti davanti all'apparecchio telefonico che mi era stato assegnato. Mi
fu dato un foglio su cui segnare il rapporto delle telefonate. C'erano molte voci:
telefonate portate a termine, appuntamenti fissati, rinvio ad altra telefonata
eccetera. C'erano davvero molte vie d'uscita e questo era molto consolante. Sono
sicuro che in quei momenti non pensai neppure per un istante a nessuno dei miei
amici, altrimenti sarei fuggito di corsa da quel posto. Ero dominato invece da
una specie di demone di una sfida da affrontare con lo spirito del vincitore. Quello
che mi veniva chiesto di fare contrastava profondamente con il mio carattere,
ma questo non mi spaventava. Non mi piaceva, ma volevo ad ogni costo ridurre quella
cosa a una semplice formalità a cui avrei potuto, con un certo sforzo,
restare indifferente. Una cosa facile, odiosa, ma possibile. Una cosa davanti
alla quale nessun uomo o donna al mondo avrebbe potuto tirarsi indietro dicendo
di non essere in grado di farla. In più corrispondeva all'idea che avevo
allora del lavoro, che cioè fosse sempre una fatica orribile, in cui, a
qualunque livello, le difficoltà fossero largamente superiori alle soddisfazioni,
e di cui, in virtù del suo carattere di disgrazia universale condivisa,
non era nemmeno consentito lamentarsi. Una sciagura moltiplicata per di più
dall'unico sistema per sfuggirle: un'altrettanta unanime fuga verso l'ipermercato
il sabato pomeriggio, con moglie e figli insicuri a carico. Si trattava di
fare una telefonata. Chiedere se era in casa una certa persona, incominciare a
leggere il foglietto che ci avevano dato facendo finta di non leggerlo, con un
tono colloquiale, affabulante, suadente, interlocutorio. Per farla breve, dopo
tre ore (si era fatto buio, i rumori del traffico avevano assunto il patetico
richiamo nostalgico della libertà) avevo battuto un record che nemmeno
il signor Gioffrida seppe come valutare. Avevo portato a termine la maggior parte
delle telefonate iniziate, ma non avevo fissato alcun appuntamento, né
suscitato alcuna curiosità in nessuno dei miei clienti (era così
che si chiamavano gli ignari destinatari di quelle telefonate fatte scegliendo
a caso i nominativi dall'elenco). Molti miei colleghi non riuscivano neppure ad
andare oltre la prima riga della presentazione. Gli sbattevano il telefono in
faccia e tanti saluti. Colpa della voce: monocorde, gutturale. Io, con la mia
voce diaframmatica e il tono stentoreo, non lasciavo il tempo di alcuna replica,
ma in questo modo non davo la possibilità di dire assolutamente nulla.
Probabilmente alla fine del mio monologo chi stava dall'altra parte del filo non
aveva capito neppure di cosa stavo parlando, e non aveva alcun interesse ad approfondire.
D'altra parte era esattamente l'atteggiamento che avrei avuto io se avessi ricevuto
quel tipo di telefonata. Ero perfettamente solidale con loro, non pensavo che
un essere umano normale avrebbe potuto reagire diversamente. Chiaro che con queste
basi avrei avuto ben poche possibilità di fissare un appuntamento. Ma sinceramente
non me ne importava. Quello che costituiva il contenuto della sfida era il fatto
stesso di telefonare: alzare la cornetta, comporre il numero, cominciare a parlare,
portare a termine la presentazione del prodotto. Giravo le pagine dell'elenco
e leggevo tutti quei nomi. Sceglievo quelli che erano preceduti dal titolo dott.
o prof., ma a quell'ora del pomeriggio in casa trovavo solo o le mogli o i figli,
con i quali era peraltro vietato parlare. Fanno solo perdere tempo. Il prodotto
era così buono che i venditori avevano il dovere di provarlo su se stessi,
per valutarne l'efficacia. E in effetti sembrava un buon prodotto. Dopo la prima
lezione si era già in grado di portare a termine una semplice conversazione
(How are you? Fine, thank you). Costava un accidenti, ma secondo i manager il
bisogno di imparare l'inglese era qualcosa che non aveva prezzo. E i dati delle
vendite gli davano ragione. Ogni mercoledì mattina il sales manager
teneva un briefing con tutti i venditori in uno stanzino stipato all'inverosimile.
Venivano riferiti i dati sulle vendite dell'ultima settimana. Quella volta venne
stigmatizzato il sorpasso da parte dell'agenzia di Napoli. Un affronto cui si
doveva porre rimedio. Venne poi salutato con un sincero e caldo applauso il
primo ice-breaker, il rompighiaccio della covata. Era entrato insieme a me, cioè
due giorni prima, e già aveva un contratto firmato. Roba da infarto. In
effetti lui si schermiva con un apprezzabile pudore dietro al fatto che il cliente
era sua zia. Questa confessione fece molto arrabbiare il sales manager, che ribatté
che questo non significava niente, e che anzi in genere le zie non firmano contratti
e chiese a tutti se per caso qualcun altro avesse una zia che gli avesse fatto
fare un contratto. Tutti risero e la cosa finì lì. Fui assegnato
in affiancamento a un giovane e brillante venditore che per fortuna aveva sulla
sua agenda già un discreto numero di appuntamenti. Il metodo per spuntare
il maggior numero di appuntamenti era quello dei riferiti. Ogni contatto doveva
procurare dieci nominativi di amici che a suo giudizio avrebbero potuto essere
interessati all'acquisto del metodo. E chi, al giorno d'oggi, può dirsi
non interessato alla conoscenza della lingua inglese? I suoi riferiti gli avevano
garantito un certo numero di contratti. Non molti, in verità, ma il sales
manager era ugualmente contento di lui, perché era un uomo di cultura. Uscimmo
insieme, ci presentammo. Lui era alto e scuro di capelli. Era uno psichiatra.
Aveva deciso che la cosa che gli interessava di più nella vita era fare
soldi, e possibilmente subito, e aveva capito che con la psichiatria questo non
sarebbe stato possibile. Il metodo lo aveva stregato. Più che il metodo
era stato il sales manager. Il suo stile di vita, le sue camicie, il suo approccio
vincente. Il suo stipendio. Era sicuro che i suoi studi gli sarebbero comunque
tornati utili in questa attività, dove la fortuna non basta, servono altre
cose. Delle sue parole mi ricordai quando, dopo un paio d'ore, fissavamo in
silenzio il citofono di uno dei suoi appuntamenti, uno che gli aveva dato buca.
Lui non pareva disposto a darsi per vinto. Probabilmente era uscito di casa
quella mattina sicuro di tornare in ufficio con uno o addirittura due contratti
firmati. Ovviamente il nostro guadagno era esclusivamente a provvigione. Nemmeno
una lira di fisso, di rimborso, niente. Io, che non avevo invece nessuna speranza
che da quella giornata potesse uscirne qualcosa di positivo, leggevo nel comportamento
del tizio che ci aveva dato la fregatura la sola opposizione praticabile da chi
volesse esercitare il sacrosanto diritto di mandare a quel paese un maniaco che
a tutti i costi vuole venderti un metodo per imparare l'inglese del costo di due
milioni e mezzo. Al contrario, il giovane e brillante psichiatra non riusciva
a perdonare l'offesa. Era davvero furioso. Prese carta e penna e lasciò
un biglietto nella cassetta della posta. La metteva sul piano morale. "Avevi
preso un impegno. Sono molto deluso", e altre cose simili. Ci salutammo. Tornai
in agenzia per la mia dose quotidiana di telefonate. Il giorno successivo finalmente
ebbi il battesimo del fuoco. Lo psichiatra aveva fissato un appuntamento sicuro
con una famiglia del quartiere Vigna Clara. Solida, benestante, pratica, interessata. L'incontro
era fissato per le venti e quarantacinque. Io non avevo ancora mangiato. Lo psichiatra
aprì il book con l'eleganza di un mago professionista. Io cercavo di sorridere
ma non mi riusciva. La mia posizione era così assolutamente inutile che
non riuscivo ad elaborare alcuna prospettiva che mi definisse in quel contesto.
Ascoltavo la spiegazione del metodo, che consisteva anche di un piccolo test di
conoscenza della lingua. Non riuscì molto bene perché il padrone
di casa sbirciò le risposte, il che fece andare il mio tutor su tutte le
furie. Io stavo zitto. Ero imbarazzato per lui. Comunque alla fine non firmarono.
Ci volevano pensare. "Questo non è possibile", disse con altre
parole il mio tutor. La tecnica di vendita prevedeva che il cliente fosse obbligato
a prendere una decisione su due piedi, perché otto volte su dieci un rinvio
significava una rinuncia. Altro atteggiamento ai miei occhi del tutto ragionevole. "Deve
decidere subito. Altrimenti perde la possibilità... " e disse quello
che avrebbe perso, lo sconto e il resto. Discussero per almeno dieci minuti.
Le ragioni dello psichiatra non erano frutto di improvvisazione. Sebbene l'inglese
andasse come il pane e il metodo era rivoluzionario ed efficacissimo, il rifiuto
era il tipo di risposta più probabile, e per questo maggiormente studiato
dagli strateghi di vendita. Per ogni rifiuto c'era una obiezione pronta. Non
se ne fece niente. Intascò sei o sette nomi di riferiti, estorti con la
minaccia di restare lì per tutta la notte, e finalmente mi invitò
a seguirlo verso l'uscita. Salutai i padroni di casa con molto trasporto, come
attori con i quali fossi andato a complimentarmi in camerino dopo una recita di
successo. A me non pareva che lo psichiatra avesse un particolare talento per
quel lavoro. Per conto mio sono sicuro che in quei momenti non pensavo mai ai
miei genitori, che mi avevano fatto studiare, prendere una laurea, senza ostacolarmi
in nessun modo. Non ci pensavo mai a loro, altrimenti non avrei avuto la faccia
di tornare a casa, quella sera. E non ricordo neppure di aver mai pensato alla
mia fidanzata, che ora è mia moglie, quella per cui stavo facendo tutto
questo. Dovevamo sposarci e non avevo un soldo, un lavoro, niente. La mattina
dopo tornai in ufficio rassegnato a fare le mie inutili telefonate. Contrariamente
a quello che si può pensare, l'abitudine mi rendeva il compito sempre più
gravoso. La scelta del numero sull'elenco si faceva sempre più difficoltosa.
Mi affidavo a considerazioni esoteriche, astrologiche, numerologiche. Mi sentivo
ogni giorno di più un mendicante a un semaforo, pieno di imbarazzo eppure
testardo e risoluto, con il cappello teso e un cartone con una scritta in un italiano
falsamente approssimativo. Sarei stato davvero stupito se alla fine qualcuno avesse
accettato un appuntamento. Feci presente al signor Gionfridda che forse il sistema
era sbagliato. I clienti occorreva trovarli meglio. Mi disse che nella sede
di Londra effettivamente si affidavano ad una ditta specializzata che si serviva
di telefoniste professioniste, ma che i risultati non venivano considerati positivi.
Non me ne spiegò le ragioni. Continuai. Mi sentivo osservato. E in effetti
era proprio così. Il signor Ionfrida mi guardava, mi studiava. Annuiva,
mangiucchiandosi una penna. Quando ebbi abbassato la cornetta e sbarrai per
l'ennesima volta la stessa casella (telefonata completata, appuntamento no), mi
guardò e disse: "No, così non va bene ". Era seduto
su un banco di scuola, finito lì chissà come. Le gambe penzolanti.
La camicia chiara troppo stretta sulla pancia. In lui c'era qualcosa che non mi
convinceva. Era pur sempre il vice senior sales manager. Eppure attorno a lui
gravitava un alone minaccioso, qualcosa che sopravviveva alla costruzione dell'uomo
di successo che stava diventando, e che mi parve di individuare in un ingombrante
residuo di materiali di risulta di cui non si riusciva a liberare. Come se il
prezzo che aveva dovuto pagare per arrivare dov'era arrivato si fosse maliziosamente
consolidato in un'espressione particolare del viso, in un involontario modo di
atteggiarsi. Come se, in un momento della sua vita, il costo fosse stato esageratamente
oneroso, al limite dell'insopportabile, e ora se lo portasse al guinzaglio, ora
che era solo un ricordo, un sempli-ce biglietto scaduto. La frequentazione della
sconfitta risultava in lui come un capitolo ancora aperto e duro da digerire. Ovviamente
faceva di tutto per dissimulare questa debolezza, e per sottolineare alla fine
come i suoi successi valessero il doppio, considerate le iniziali difficoltà. Prese
l'elenco del telefono, colse un nome a caso, proprio il primo che gli capitò
sotto gli occhi. Compose il numero con invidiabile scioltezza, senza riscaldamento.
Disse, a noi che lo guardavamo come rapiti: "Non ne avrei più bisogno,
ma mi piace ogni tanto procurarmi clienti con le telefonate. Mi fanno ricordare
i tempi quando..." Si dovette interrompere. "Pronto, signora? Buongiorno,
lei non mi conosce, sono Claudio Giufrida, non le farò perdere il suo tempo.
Come sta? Lei lavora? Casalinga, bene. Suo marito? Perfetto. Figli? Nipoti. Due.
Complimenti. Mi corregga se sbaglio, lei ha studiato l'inglese a scuola ma non
lo parla. Le piacerebbe, vero? Alla sua età, perché no? Per viaggiare,
certamente. " Andò avanti così per cinque minuti. Colloquiale,
teatrale, convincente. La maggior parte delle cose che diceva sul foglio prestampato
non c'erano scritte. Eppure lo teneva davanti a sé come un principiante.
Riusciva a nascondere perfettamentele frasi fredde e inquisitorie della presentazione
nelle pieghe della sua conversazione amichevole. Alla fine la signora non aveva
ugualmente accettato di fissare un appuntamento. Era stata irremovibile. Gionfrida,
Iofrida, Gioffreda o come si chiamava, aveva insistito con educazione, tatto.
Inutilmente. Abbassò la cornetta con delicatezza, usando entrambe le mani,
deluso. Sono sicuro che se quella signora si fosse all'improvviso materializzata
l'avrebbe uccisa. Però non diceva niente, se ne stava lì, a guardare
fuori della finestra. Aspettava che qualcuno parlasse, ma nessuno di noi l'avrebbe
mai fatto per primo. Era stata solo una telefonata. Lavoro, sembrava voler
dire la sua ostentata presa di distanza. Non una prova, non un esame: una pratica,
aperta e chiusa subito dopo. Quante ce n'erano state di pratiche come questa
nella carriera del vice senior sales manager? Pensai: e se in quel momento fossero
entrati lì i suoi figli? La mattina dopo mi licenziai.
(Tratto
dalla raccolta di racconti Voci dalla rete, Longanesi editori, Milano,
2002.)
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