AD ALTA ENERGIA
- Terzo capitolo, Il nuovo orientamento della
sinistra, tratto dal saggio Democrazia ad alta energia -
Roberto Mangabeira Unger
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Esiste
tuttavia un'alternativa; la sostiene un complesso di idee grazie alle quali possiamo
immaginarla; vi sono forze sociali reali che possono costituirne la base elettorale;
e c'è un modo di fare a meno della crisi come condizione necessaria del
cambiamento, sempre cogliendo le opportunità di trasformazione che la nostra
situazione ci offre. Il segno distintivo di questa alternativa consiste nel
fissare l'inclusione e la crescita individuale alle istituzioni della vita politica,
economica e sociale. Non basta umanizzare la società, occorre cambiarla.
Cambiarla significa impegnarsi, una volta di più, nello sforzo di ridisegnare
la produzione e la politica, da cui la socialdemocrazia si è ritirata quando
venne stabilito, a metà del XX secolo, il compromesso che ha definito il
suo orizzonte attuale. Significa considerare le familiari forme istituzionali
di economia di mercato, democrazia rappresentativa e libera società civile
come sottoinsieme di una serie assai più ampia di possibilità istituzionali.
Significa rifiutare la contrapposizione fra orientamento di mercato e direzione
da parte del governo come l'asse su cui si svolgono le nostre lotte ideologiche
e sostituirlo con la contrapposizione tra differenti modalità di organizzazione
del pluralismo economico, politico e sociale. Significa che le radici della spinta
a una maggiore uguaglianza e inclusione sociale vengano piantate secondo la logica
della crescita economica e dell'innovazione tecnologica, piuttosto che secondo
una redistribuzione a posteriori attraverso tasse e trasferimenti. Significa
democratizzare l'economia di mercato rinnovandone i meccanismi, anziché
semplicemente regolarla secondo i canoni attuali o compensarne le disuguaglianze
con la formula dei trasferimenti ex post. Significa rivitalizzare la logica
pratica del mercato rinnovando radicalmente quella economica basata sulla libera
ricombinazione dei fattori di produzione all'interno di una cornice infrangibile
di transazioni sul mercato. L'obiettivo è una maggiore libertà di
rinnovare e ricombinare i congegni che compongono lo scenario istituzionale della
produzione e dello scambio, permettendo che regimi alternativi di proprietà
e contratto coesistano in modo sperimentale in seno alla medesima economia. Significa
considerare obiettivo primario della politica sociale l'accrescimento delle potenzialità.
Tale valorizzazione sarebbe incrementata in virtù di una forma di istruzione
indirizzata allo sviluppo di generiche capacità concettuali e pratiche
anziché alla padronanza di conoscenze lavorative. E anche mediante la diffusione
di un principio di eredità sociale che assicuri a ogni individuo un aiuto
finanziario di base minimo su cui contare nelle svolte decisive della sua esistenza.
Significa far progredire questa democratizzazione dell'economia di mercato nel
contesto di un'organizzazione della solidarietà sociale e di un consolidamento
della democrazia politica. Significa non ridurre mai la solidarietà sociale
a un mero trasferimento di denaro. Essa deve poggiare sull'unica base certa di
cui disponiamo: la responsabilità diretta di ciascuno verso tutti gli altri.
Tale responsabilità può essere realizzata attraverso il principio
secondo cui ogni individuo adulto di sana costituzione ha un compito all'interno
di un'economia basata sul sostegno dell'altro - il settore dell'economia in cui
le persone si prendono cura le une delle altre - così come all'interno
del sistema produttivo. Significa stabilire le fondamenta di una politica democratica
"ad alto tasso di energia", che accresca continuamente il livello della
partecipazione organizzata alla politica, che impegni l'elettorato e i partiti
nella risoluzione rapida e decisiva dell'impasse fra i diversi settori del governo,
che fornisca i mezzi per affrancare i cittadini da situazioni radicate e localizzate
di svantaggio dalle quali non riescono a liberarsi attraverso le normali forme
d'iniziativa politica ed economica, che permetta a specifici settori o spazi di
svincolarsi dal regime legale generale e di sviluppare scenari alternativi, e
che combini infine i caratteri della democrazia diretta con quelli della democrazia
rappresentativa. L'impulso che muove questo progressismo non è l'attenuazione
della disuguaglianza tramite una politica redistributiva e l'inclusione; piuttosto
è la valorizzazione delle capacità e l'ampliamento delle opportunità
di cui godono gli uomini e le donne comuni, per mezzo di una riorganizzazione
graduale ma complessiva dello Stato e dell'economia. Il suo motto non è
l'umanizzazione della società, bensì la divinizzazione dell'umanità.
Il pensiero che racchiude nel profondo è che il futuro appartiene alla
forza politica che in modo più credibile sostiene la causa dell'immaginazione
costruttiva: il potere di ognuno di noi di contribuire alla creazione permanente
del nuovo. La sinistra potrà essere fedele alle proprie aspirazioni
se proporrà il nuovo in una forma che permetta a ciascuno di partecipare
alla sua costruzione, invece di lasciare questo potere concentrato nelle mani
di un'élite privilegiata. Ciò potrà accadere soltanto se
imparerà a ripensare e rimodellare quegli assetti istituzionali, che riguardano
la produzione, la politica e la vita sociale, la cui esistenza e autorità
la socialdemocrazia tradizionale non ha mai messo in discussione. Una simile alternativa
è perciò equidistante sia da una sinistra nostalgicamente statalista
che da una sinistra priva dei suoi contenuti tradizionali: è tutto tranne
che una versione neoliberale della socialdemocrazia. Questa alternativa si
caratterizza per i dispositivi istituzionali applicabili a una vasta gamma di
società contemporanee, da quelle più ricche a quelle più
povere. La necessità di adattarne il modello a situazioni nazionali diverse
non mette in discussione l'ampia portata del fascino e della pertinenza di quei
dispositivi. E proprio la generale applicabilità di quei modelli che aiuta
a spiegare sia la possibilità sia la necessità di un'eresia che
tende a essere universale, in grado di opporsi alla universale ortodossia offerta
al mondo in nome della globalizzazione e del mercato. Il loro carattere generale
ha tre radici. La prima è la somiglianza tra le varie esperienze delle
società attuali dopo molte generazioni di rivalità, emulazione e
imitazione, pratiche e spirituali, fra nazioni e Stati. La seconda è la
limitatezza del bagaglio ideologico e istituzionale a nostra disposizione per
costruire alternative. La terza è la tutt'altro che irresistibile autorevolezza
di cui può godere in tutto il mondo un unico armamentario di idee rivoluzionarie:
le teorie cioè che promettono la liberazione dalla sottomissione, dalla
povertà e dalla fatica, e una vita più soddisfacente per la gente
comune. Cinque idee, quando si parla di strutture istituzionali, definiscono
la direzione che la sinistra dovrebbe oggi indicare. La prima è che
la ribellione all'ortodossia politica ed economica globale avrà successo
a patto che si verifichino alcune condizioni. Tali condizioni prevedono livelli
più alti di risparmio all'interno del paese, rispetto a quelli che una
concezione ristretta delle dinamiche di crescita economica giustificherebbe; la
perseveranza nel ricercare gli strumenti in grado di rafforzare la relazione fra
risparmio e produzione sia dentro sia fuori i mercati finanziari così come
sono ora organizzati (ricerca basata sul riconoscimento che tale legame è
al tempo stesso variabile e sensibile agli assetti istituzionali); la preferenza
per un sistema a elevata imposizione fiscale e la volontà di attuarlo anche
al prezzo di una tassazione sui consumi regressiva, orientata verso le transazioni.
L'obiettivo è una completa mobilitazione delle risorse nazionali: un'economia
di guerra senza guerra. Una seconda idea istituzionale consiste nella visione
della politica sociale come promotrice della crescita e della capacità
individuale. Da essa nasce l'impegno a realizzare una forma d'istruzione precoce
e duratura indirizzata allo sviluppo di un nucleo di capacità pratiche
e concettuali. In società caratterizzate da profonde disuguaglianze sociali
non è sufficiente garantire livelli minimi d'investimento e di qualità
nel settore dell'istruzione; si rivela vitale assicurare speciali opportunità
ai giovani talentuosi, gran lavoratori e socialmente meno avvantaggiati. L'obiettivo
iniziale di questo ricorso all'istruzione come antidoto al depotenziamento delle
capacità personali è rendere più ampia l'equazione attuale
tra classe e meritocrazia. L'obiettivo successivo è la dissoluzione della
classe attraverso il trionfo della meritocrazia. Il traguardo finale è
la subordinazione della meritocrazia a una visione più ampia di solidarietà
e opportunità inclusive, da affermare di fronte alle disparità,
che non possono essere cancellate, determinate dal talento innato. Una terza
idea di modello istituzionale è la democratizzazione dell'economia di mercato.
Non basta regolare il mercato o compensare le disuguaglianze che produce. E necessario
riorganizzarlo nel modo migliore, al fine di renderne effettivi i benefici per
un maggior numero di persone in un maggior numero di modi. A questo scopo, non
bastano né il modello americano di regolamentazione a distanza da parte
del governo, né il modello del Nordestasiatico della direzione centralizzata
della politica industriale e commerciale da parte dell'apparato burocratico. Si
tratterà invece di usare i poteri dello Stato non per sopprimere o per
equilibrare il mercato, ma per realizzare le condizioni affinché si creino
più mercati organizzati in modi diversi - vale a dire, con modelli di proprietà
e contrattuali differenti - in grado di coesistere di fatto all'interno della
stessa economia nazionale e globale. La democratizzazione del mercato richiede
iniziative che facilitino l'accesso alle opportunità e alle risorse produttive.
Richiede un balzo in avanti dei profitti dei lavoratori. E incompatibile con qualsiasi
strategia di crescita economica che si vorrebbe fondare su un'equa ripartizione
dei salari nel quadro di un reddito nazionale in regresso. L'obiettivo è
aprirsi piccoli varchi tra le maglie della crescita economica. Ciascuno di essi
produce uno sbilanciamento che ne sollecita ulteriori in un altro settore della
domanda e dell'offerta. La preferenza deve andare a quegli interventi di rottura
e di squilibrio che posseggano una naturale tendenza all'inclusione economica
e alla diffusione delle capacità. Gli interventi progressisti sui vincoli
che stringono l'offerta si muovono lungo una scala di aspirazioni che va da un
minimo a un massimo. L'aspirazione minima è quella di allargare l'accesso
al credito, alla tecnologia, alla conoscenza e ai mercati, a favore soprattutto
di una moltitudine di piccoli, o aspiranti, imprenditori che, in ogni economia
moderna, rappresentano una fonte nettamente sottoutilizzata di iniziativa costruttiva. L'aspirazione
massima è la diffusione dei sistemi di produzione più avanzati al
di là del terreno privilegiato sul quale normalmente prosperano. Il governo
e la società devono agire per democratizzare l'economia di mercato in una
maniera che permetta anche di fronteggiare i pericoli e sfruttare le opportunità
offerte da un importante mutamento nell'organizzazione della produzione. Questo
modello di produzione, caratterizzato dall'attenuazione del contrasto tra la fase
della supervisione e quella dell'esecuzione, dall'indebolimento delle barriere
fra i singoli ruoli, dalla miscela di cooperazione e competizione all'interno
degli stessi ambiti e dal lavoro di squadra come modo di apprendimento collettivo
e di continua innovazione, sarà limitato a un'avanguardia privilegiata
in contatto con le altre avanguardie nel mondo ma collegata alla società
del proprio paese solo da deboli legami? Oppure i governi e le società
riusciranno a creare le condizioni per la diffusione di queste pratiche sperimentali
presso ampi settori del-l'economia e della società, accrescendo così
in modo significativo le potenzialità e le opportunità degli uomini
e delle donne comuni? Questi interventi progressisti in merito all'offerta
dovrebbero essere accompagnati da iniziative in grado di invertire il declino,
da tempo in atto, della partecipazione del lavoro al reddito nazionale, e di ridurre
le crescenti disuguaglianze, all'interno della forza lavoro, che riguardano un
gran numero di paesi ricchi e di paesi in via di sviluppo. In tal modo, dovrebbero
anche riscattare dal degrado di un'economia sommersa o illegale le centinaia di
milioni di lavoratori - spesso la maggioranza della forza lavoro in alcuni dei
paesi più popolosi del mondo - attualmente privi di lavori regolari. Queste
misure dovranno tener conto di ciò che probabilmente si dimostrerà
più efficace ai vari livelli della forza lavoro, diversamente retribuita
e tutelata, all'interno dei singoli paesi. Per esempio, la partecipazione agli
utili potrebbe essere applicata a partire dai lavoratori più avvantaggiati
per poi essere estesa a porzioni maggiori della popolazione economicamente attiva.
Un regime lavorativo regolato da una legge che rafforzi il potere dei lavoratori
organizzati di rappresentare gli interessi dei lavoratori non organizzati nei
rispettivi settori può dimostrarsi assai efficace nella fascia intermedia
della gerarchia salariale. Ai livelli più bassi, la soluzione migliore
potrebbe essere quella di fornire contributi indirizzati a far assumere e formare
lavoratori a basso salario e non specializzati, e di abolire tutte le tasse e
gli oneri fiscali a carico. Nessuna di queste iniziative è intrinsecamente
inflazionistica. Tutte nell'insieme, e nel contesto del progetto di più
ampia democratizzazione e crescita di cui fanno parte, assicurano l'accrescimento
dei diritti e dei poteri dei lavoratori, come pure incrementi sostenibili nella
retribuzione della manodopera, fino a e persino oltre il limite dell'aumento della
produttività. La quarta idea istituzionale consiste nel rifiuto di considerare
i trasferimenti di risorse una base sufficiente per la solidarietà sociale,
la quale deve fondarsi anche sulla responsabilità condivisa nel prendersi
cura degli altri. In linea di principio, chiunque risulti mentalmente e fisicamente
abile, oltre che nel lavoro ordinario deve impegnarsi in un'attività di
sostegno del prossimo che vada al di là dei legami familiari. La società
civile deve essere organizzata, o organizzarsi, al di fuori sia del governo che
del mercato, in modo tale da assolvere questa responsabilità. Un sistema
di diritto che non sia pubblico né privato potrebbe fornire le occasioni
e gli strumenti utili per realizzare ciò. La quinta idea istituzionale
è una concezione della politica democratica ad alta energia. La crescita,
a livello di istruzione ed economico, dell'individuo, lavoratore e cittadino,
la democratizzazione dell'economia di mercato e l'attuazione della solidarietà
sociale tramite la responsabilità richiedono, per essere prese a cuore
e sostenute, un rafforzamento della democrazia. Una democrazia in sonno, che si
svegli solo di tanto in tanto in occasione di una crisi bellica o economica, non
può bastare. Una politica democratica ad alta energia di questo tipo
è, al tempo stesso, un'espressione della più ampia libertà
perseguita dai programmi della sinistra e una condizione perché le altre
quattro tematiche vengano attuate. Essa richiede un innalzamento, sostenuto e
organizzato, del livello d'impegno civico; una preferenza per intese istituzionali
che sblocchino rapidamente l'impasse tra i diversi organi di direzione politica
(in un sistema di separazione dei poteri) e coinvolgano in questa operazione l'intero
elettorato; una serie di innovazioni che sappiano conciliare la possibilità
di scelte risolutive nella politica nazionale con cambiamenti e divergenze sperimentali
di vasta portata - appelli al futuro - in specifici luoghi del territorio o in
particolari settori dell'economia nazionali; la determinazione a riscattare le
persone - attraverso la garanzia di un fondo sociale o di un reddito minimo garantito,
come pure mediante l'intervento correttivo da parte di un ramo del governo appositamente
designato e attrezzato - da situazioni di svantaggio o di esclusione da cui non
sono in grado di tirarsi fuori con le proprie forze; e uno sforzo continuo di
combinare tratti di democrazia rappresentativa e di democrazia diretta. Una
democrazia più profonda, ad alta energia, non cerca di sostituire il mondo
reale degli interessi e degli individui portatori di interessi con cittadini privi
di identità e con il teatro totalizzante della vita pubblica. Non è
un volo nel purismo repubblicano e nella fantasia. Ciò che essa si propone
è rafforzare le nostre normali potenzialità, ampliare la portata
delle nostre consuete ambizioni e sintonie e rendere più intensa la nostra
esperienza ordinaria. E di farlo diminuendo la distanza tra le normali azioni
che diamo per scontate all'interno dei contesti istituzionali e ideologici e le
iniziative straordinarie attraverso cui sfidiamo e modifichiamo alcuni settori
parti di tali contesti. Il suo agente e il suo beneficiario sono il medesimo:
la realtà - l'individuo in carne e ossa, fragile, egoista e pieno di desideri,
la vittima delle circostanze, che nessuna circostanza potrà mai imprigionare
completamente e definitivamente. La costruzione, grazie all'immaginazione,
di un'alternativa improntata a queste cinque prospettive tematiche richiede un
complesso di idee di supporto. Possiamo raccoglierle sotto forma di un sistema
che comprende una teoria e una filosofia sociale. Tuttavia, potremmo svilupparle
molto più spesso e in modo più attendibile rivedendo i nostri modi
di spiegare e argomentare. Il punto centrale è salvare la concezione di
alternative e innovazione strutturali dal fardello di quelle affermazioni di ordine
deterministico che le hanno oppresse nella scienza sociale classica, ripudiando
l'alleanza tra razionalizzazione, umanizzazione e rifugio nel pensiero contemporaneo. La
storia del pensiero sociale moderno ci ha fuorviato, spingendoci ad associare
i cambiamenti graduali alla sfiducia nei confronti del rinnovamento delle istituzioni,
e l'impegno a tale rinnovamento alla fiducia, invece, in un cambiamento improvviso
e totale. La più importante espressione di questo pregiudizio è
il contrasto, ritenuto assoluto, tra due stili di politica. L'uno è rivoluzionario:
ha come obiettivo la sostituzione completa di un ordine istituzionale con un altro,
sotto la guida di leader di forte impatto polemico, sostenuti da masse ben determinate,
in condizioni di crisi nazionale. L'altro è riformista: mira a una redistribuzione
marginale, oppure a concessioni che plachino ansie morali e religiose, negoziate
da politici di professione all'interno di interessi organizzati, in tempi di normale
gestione politica. Dobbiamo mescolare queste categorie, associando un cambiamento
frammentario e graduale, nondimeno consistente, a un'aspirazione fortemente innovatrice.
Per mescolarle nella pratica, dobbiamo prima farlo a livello teorico. La massima
espressione di questa sintesi è uno stile di politica che rifiuti la netta
contrapposizione fra rivoluzione e riforma e che faccia propria l'idea di una
riforma rivoluzionaria. Una tale politica è in grado di attuare un cambiamento
strutturale nell'unico modo in cui un simile cambiamento può avvenire:
pezzo dopo pezzo e passo dopo passo. Essa combina la negoziazione fra minoranze
organizzate con la mobilitazione di maggioranze non organizzate. E può
fare a meno della crisi quale condizione del cambiamento. Deve essere abile e
attrezzata a comprendere e utilizzate la politica economica e la scienza del diritto
come modi, da parte dell'immaginazione, di rapportarsi alle strutture istituzionali. Quali
sono in concreto le forze sociali capaci di occupare lo spazio lasciato vuoto
dalla forza lavoro industriale organizzata come nucleo della base elettorale della
sinistra? Un progetto del genere richiede dei protagonisti, ma non quelli che
hanno giocato un ruolo di primo piano nelle storie della sinistra. Non solo le
identità di questi agenti saranno diverse, il significato stesso del loro
essere agenti - la relazione cioè fra progetto e azione - deve cambiare.
Consideriamo i due agenti più importanti: la classe lavoratrice e lo Stato
nazionale. La classe lavoratrice non può più essere identificata
con il proletariato industriale, la forza lavoro sindacalizzata con le categorie
di lavoratori nell'industria caratterizzata da un impiego intensivo di capitale.
In ogni paese del mondo, la maggioranza dei lavoratori salariati deve lavorare
al di fuori dei confini della grande industria a capitale intensivo: all'interno
di imprese sottocapitalizzate e in attività terziarie non attrezzate, spesso
nell'ombra dell'illegalità, senza di-ritti e con poche aspettative. Il
loro sguardo tuttavia è rivolto altrove, a coloro che nel mondo stanno
sviluppando una nuova cultura basata sull'iniziativa e l'intraprendenza individuale.
Le loro prospettive, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, sono piccolo-borghesi
più che proletarie. La loro più ostinata ambizione è quella
di combinare una giusta dose di prosperità con un briciolo di indipendenza,
compreso il desiderio di sviluppare la propria soggettività e di vivere
un'esistenza piena di consapevolezze, di incontri e scontri, come i personaggi
di un film. Per esclusione, data la scarsità di soluzioni alternative nell'organizzazione
della vita economica, identificano spesso queste aspirazioni con i tradizionali,
isolati, limitati affari di famiglia. Lo Stato nazionale non sarà per
sempre, anche se a oggi è ancora, il protagonista della storia mondiale:
il terreno privilegiato per lo sviluppo tanto delle differenze che della gestione
delle rivalità collettive. Lo Stato nazionale vuole cambiare, ma non sa
come. I suoi cittadini vogliono vedere le tradizionali aspirazioni e i consueti
desideri concretizzzati in pratiche e istituzioni nazionali definite. La nazione
è una forma di distinzione morale all'interno dell'umanità, giustificata,
in un mondo di democrazie, dalla convinzione che l'umanità possa sviluppare
le proprie forze e il suo potenziale unicamente indirizzandoli verso direzioni
diverse. Se guarda solo alla preservazione delle differenze ereditate, si troverà
presto lacerata fra il desiderio di conservare il modo di vivere tramandato dal
passato e il desiderio di imitazione: imitare le nazioni più adatte a prosperare
e sopravvivere nel sistema mondiale fondato sulla contrapposizione tra gli Stati.
Alla fine, l'abilità collettiva nel creare nuove differenze conterà
più della capacità collettiva di prolungare la vita di quelle vecchie. Le
forme di organizzazione politica, sociale ed economica oggi disponibili nel mondo
risultano troppo limitate per lo sviluppo di un'originalità collettiva.
Non basta inchinarsi alla differenza collettivamente sancita; è necessario
approfondire quella esistente dando forza alla logica, a livello di strutture
istituzionali, di sperimentazione politica ed economica. I lavoratori che vogliono
contare solo su se stessi e le nazioni che vogliono andare per la propria strada
sono le forze principali a cui devono rivolgersi le proposte della sinistra. Tuttavia,
il significato del rapporto fra gli interessi di quei soggetti e tali proposte
si rivela completamente diverso dal significato che la dottrina marxista attribuisce
agli interessi di classe. Secondo questa dottrina, più ampio è il
campo d'azione e più acuta è l'intensità dei conflitti di
classe, meno spazio c'è per mettere in dubbio o dibattere il contenuto
oggettivo degli interessi di classe in competizione. Lo scontro uscirà
allo scoperto e la sconfitta politica fornirà la salutare correzione di
ogni fraintendimento. La verità riguardo agli interessi e ai progetti
è però l'esatto contrario di ciò che questo quadro implica.
Gli interessi delle nazioni o quelli di classe sembrano avere un contenuto chiaro
quando il conflitto cova e ribolle invece di esplodere. Appena il conflitto si
allarga e si intensifica, questa chiarezza scompare. La domanda "quali sono
i miei interessi in quanto appartenente a questa classe o a questa nazione?"
sembrerà inscindibile da quella "in quali differenti direzioni potremo
cambiare il mondo, e come cambieranno di conseguenza la mia identità e
i miei interessi in ciascuno di questi mondi possibili?". L'idea che gli
interessi di gruppo abbiano un contenuto chiaro e oggettivo è soltanto
un'illusione, che dipende dal contenimento o dall'interruzione del conflitto reale
e simbolico. Come forza politica promotrice del cambiamento, la sinistra deve
trasformare l'ambiguità del contenuto degli interessi di gruppo in opportunità.
Deve agire sulla base dell'intuizione che ci sono sempre due modi per definire
e difendere ogni interesse di gruppo. Uno è istituzionalmente conservatore
e socialmente esclusivo: considera la collocazione economica e sociale attuale
del gruppo come un destino e definisce i gruppi a esso più vicini nello
spazio sociale come rivali; l'altro è socialmente solidaristico e istituzionalmente
innovatore: tratta i gruppi vicini al suo spazio sociale come alleati effettivi
o potenziali e si batte per riforme che trasformino queste alleanze passeggere
in unioni durature di interessi e identità. La tendenza della sinistra
deve sempre essere quella di preferire gli approcci solidaristici e ricostruttivi,
ritenendoli l'altra faccia delle sue proposte programmatiche per la società
in generale. Che cosa implichi tale tendenza per la tutela degli interessi
della classe operaia dovrebbe essere abbastanza chiaro, in generale e per esclusione,
se non in modo particolare e affermativo. Essa è incompatibile con qualsiasi
ostinato tentativo di barricare la forza lavoro organizzata del sistema industriale
all'interno della sempre più debole roccaforte della tradizionale produzione
di massa. Richiede invece un intervento attivo del potere politico per introdurre
e diffondere nell'economia pratiche produttive avanzate. Ma che cosa una simile
tendenza verso approcci di tipo solidaristico e ricostruttivo implica per la definizione
e la difesa degli interessi di una nazione intera? Ciò che essa implica
è che un paese deve mettere in cima alle proprie priorità la mobilitazione
delle risorse nazionali - livello di risparmi e surplus fiscali - che gli consentano
di resistere e di ribellarsi. Che comprenda come sviluppare una propria via dipenda,
in ultima istanza, dal pluralismo globale. Che rifiuti la visione per cui la globalizzazione,
come l'economia di mercato, poggia sulla base del "prendere o lasciare"
e che tutto ciò che si può fare è parteciparvi più
o meno ma sempre alle sue condizioni, piuttosto che prendervi parte in termini
differenti. E che lavori di concerto con i poteri che condividono la sua stessa
visione alla riforma globale degli accordi economici e per ridisegnare le istituzioni
politiche mondiali. Accordi e istituzioni che allo stato attuale sacrificano ogni
pluralismo a un unico indirizzo e al potere imperialistico. Alla sinistra manca
una crisi. Una parte del suo programma deve avere come obiettivo quello di definire
istituzioni e politiche - sia intellettuali che sociali - in grado di attenuare
il principio per cui ogni cambiamento dipende da eventi drammatici, e di rendere
invece le trasformazioni come un fatto insito nella vita sociale. Ciò che
la teoria sociale classica ha erroneamente assunto come una componente dell'esperienza
storica - l'esistenza di un'intrinseca dinamica di trasformazione - in realtà
è un obiettivo. Si tratta di un obiettivo che può essere valutato
in sé, a sua volta, come agente, in quanto esprime la capacità di
far parte integrante di un sistema senza cedere a esso le sue facoltà di
resistenza e di trascendenza. Esso deve essere valutato anche per la sua connessione
causale con due complessi di interessi, la cui riconciliazione deve sempre costituire
il fine di un programma di sinistra: il progresso della società grazie
alla crescita economica e all'innovazione tecnologica e l'emancipazione dell'individuo
dalla divisione sociale e dalla gerarchia, entrambe ben radicate. Non possiamo
più pensare, come ritenevano i liberali e i socialisti del XIX secolo,
influenzati da un dogma ormai non più credibile, che le condizioni istituzionali
del progresso materiale convergano naturalmente e necessariamente con le richieste
istituzionali volte all'emancipazione degli individui dalle divisioni sociali
e dalle gerarchie stabilite. D'altro canto, saremmo ugualmente in errore se pensassimo
che questi due complessi di condizioni debbano essere inevitabilmente in conflitto.
La sinistra deve impegnarsi a identificare la zona in cui questi due insiemi possano
intersecarsi, e cercare di spingere la società in quella direzione. Una
caratteristica della zona d'intersezione è che in essa le politiche hanno
la proprietà di un'elevata predisposizione alla revisione: in virtù
di tale disponibilità, risultano meno simili a semplici fatti ed eventi,
e vengono più facilmente incontro a noi. Rendono più facile impegnarsi
a mettere insieme popoli e risorse vitali per un progresso effettivo. Esercitano
forte pressione e controllo sugli accordi da cui dipende ogni scala di privilegi
stabilita. Tuttavia, a proposito dello sforzo di creare istituzioni in cui
il cambiamento non dipenda dal verificarsi di una crisi, vi è un paradosso.
Come introdurre innovazioni del genere senza l'ausilio di una crisi? Come può
la sinistra rompere questo circolo vizioso, inconfessato, questo affidarsi, di
fatto, all'evento drammatico? La risposta è: ricorrendo a una crisi
mascherata. Non contare cioè sulle grandi catastrofi collettive, come la
guerra o la rovina economica, ma sulle tragedie nascoste: l'angoscia, la paura,
l'insicurezza e l'incapacità individuali, moltiplicate per milioni di volte
nella vita delle società contemporanee. Anche nei paesi più ricchi,
la maggior parte dei lavoratori si sente, ed è, a rischio. Per quanto possano
essere tutelati contro l'estrema povertà e l'abbandono, rimangono comunque
tagliati fuori dai settori privilegiati dell'economia, in cui si concentrano maggiormente
il reddito, la ricchezza, il potere e perfino il divertimento. Se non sono
disoccupati, temono comunque di perdere il lavoro. Se vivono in un paese - ad
esempio, una socialdemocrazia europea - con un contratto sociale adeguatamente
sviluppato, hanno buone ragioni per temere che il contratto venga rescisso, non
una, ma più volte, in nome della necessità economica, fatta passare
per competitività e globalizzazione. E se invece vivono in altre realtà
- specialmente nei grandi paesi in via di sviluppo - è probabile che non
trovino una forza politica che voglia e sappia dar loro una sicurezza economica
di base e maggiori opportunità di lavoro e d'istruzione. Quasi tutti
si sentono abbandonati. Ciascuno si considera l'escluso che, da fuori, guarda
attraverso la finestra la festa alla quale non è stato invitato. La flessibilità
- lo slogan dei mercati e della globalizzazione - è ritenuta giusta-mente
la parola in codice che sta per insicurezza generalizzata. I partiti che rivendicano
un legame storico con la sinistra oscillano tra un'imbarazzata collaborazione
con questo programma fatto di precarietà e insicurezza, nella speranza
che la crescita procuri risorse da indirizzare alla spesa sociale, e una tiepida
e debole difesa dei tradizionali contratti sociali. Questi timori, giustificati
dai fatti, dalla speranza delusa, dagli atteggiamenti punitivi nei confronti degli
esclusi, e che rendono manifesto un immenso e continuo dispendio di energie, corrispondono
essi stessi a una crisi. Vissuta, nella maggior parte dei casi, in silenzio, nella
mente de-gli individui. Di tanto in tanto, trova una perversa espressione nel
sostegno a partiti populisti e nazionalisti di estrema destra. E un problema.
Ma per la sinistra è anche un'occasione. La formula comune, e incredibile
da credere, di questa crisi è il ritornello: creeremo posti di lavoro!
Le persone però comprendono, o scoprono ben presto, che i governi non possono
creare direttamente posti di lavoro che non siano nel settore del pubblico impiego
e dei servizi pubblici, se non nei casi rari e limitati di mobilitazione forzata,
che si verificano quando lavoratori di determinate categorie vengono precettati
e retribuiti in situazioni di emergenza nazionale. Tuttavia, la vana promessa
di creare posti di lavoro è la forma maldestra di un'indispensabile risposta
a una crisi nascosta: un modo di andare avanti produttivo e tendente alla democratizzazione;
che fondi l'impegno sociale sulla ricostruzione, sull'innovazione e sulla ripresa
economica; e che promuova progetti economici e sociali disegnando e creando le
istituzioni di una democrazia ad alta energia. Si riuscirà a umanizzare
nell'esatta misura in cui si riuscirà a innovare: è questo il principio
che deve animare le politiche della sinistra. (Tratto
da Democrazia ad alta tecnologia, Fazi editori, Roma, 2007)
Roberto Mangabeira Unger è brasiliano, e uno dei maggiori filosofi
e sociologi del diritto. Promotore e animatore del movimento dei Critical Legal
Studies, insegna alla Facoltà di Legge di Harvard ed è impegnalo
attivamente nella politica del suo paese. In Italia e già stato tradotto
Conoscenza e politica (Il Mulino, 1983).
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