IL RIBELLE DI VIGEVANO
Antonio
Armano
Sarà forse
perché da queste parti, come altrove nella piana, il “menabò” è
colui che mena in giro i buoi, ma quando il primo romanzo di Lucio Mastronardi
uscì sul Menabò di Vittorini e Calvino, qui in Lomellina
quasi nessuno se ne accorse. Eppure Il calzolaio di Vigevano era già
anche quello un cruento e crudo ritratto della “capitale della calzatura” coi
suoi ex contadini inurbati intenti solo a fare scarpe, e farsi le scarpe!, in
un brulicare di tomaie, colla puzzolentissima, trinciatrici, chiodi, suole, ceste
di tacchi, tra fabbriche e fabbrichine, “operari” e “giuntatrici” che non hanno
tempo neanche per dormire e sognano di mettersi in proprio, fare i “danè”.
Sulle
tracce di questa spietata saga mastronardiana, tutta gaddaniamente impastata di
termini dialettali e lodata da Montale sul Corriere , la saga dei Malavoglia
del Boom, come qualcuno li ebbe a definire, nel gennaio del '62 arrivò
a Vigevano Giorgio Bocca per Il Giorno. L'incipit dell'articolo che
scrisse, o meglio l'attacco ché il termine è più adatto,
se lo ricordano in tanti qui: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi”, e
il resto anche “Evaderai il fisco ma non la noia” e così via. Sui giornali
locali e tra i tavoli dei caffè della bellissima piazza Ducale, fu tutto
un fiorire di repliche piccate, che andavano dal “non è vero che siamo
gretti” al “ma come faremmo a essere la capitale della calzatura se perdessimo
tempo dietro la cultura?”. Quando
poi, nel maggio del '62, ovvero giusto quaranta anni fa, le “cartolibrerie” della
città (librerie non ce n'erano, fallita l'ultima, come aveva malignamente
notato Bocca) misero in vetrina Il maestro di Vigevano fresco di tipografia,
scoppiò definitivamente lo scandalo. Il libro vendette subito un centinaio
di copie, e vari vigevanesi non tardarono, per lettura diretta o tam tam, a riconoscere
nei sarcastici ritratti le persone dietro i personaggi veri. Il libro era dolente
e cupo, come già aveva detto Calvino (mente editoriale dell'Einaudi che
lo pubblicò nei Coralli), cui piaceva moltissimo e che lo diede subito
alle stampe sicuro che ne sarebbe nato un “caso”. Più
che i soliti “scarpari”, troppo occupati a fare e farsi le scarpe per curarsene,
se la presero quelli dell'ambiente scolastico, e se la legarono al dito per sempre.
Storia di Antonio Mombelli che quando s'era sposato Luisa era fiera di lui e poi
mentre tutti gli altri facevano i soldi si sentiva la moglie di un poveraccio
tanto da convincerlo a lasciare la scuola e mettersi a fabbricare scarpe, Il
maestro di Vigevano è una specie di Memorie del sottosuolo ,
tra Kafka e Fantozzi, surreale e spietato. Con il direttore didattico trombone
e gramo coi sottoposti che non fa altro che ripetere “Quieta non movere, mota
quietare”, scoccia tutti con “quistioni” linguistiche pedantissime (“pomidoro
e non pomodori!”)... Ne
escono malissimo anche i colleghi del maestro che, come in un mercato delle vacche,
si scambiano gli alunni secondo i valori vigenti “fuori” (chi scambia il figlio
di un industriale per due figli di artigiani, oppure offre un ripetente scemo
che però ha la sorella con cui “si può far funzionare la mazza!”),
o fanno cantare a Pasqua Vola colomba così magari qualche alunno
si ricordi di regalare la colomba. Coi
loro tic e abiezioni, questi maestri esistevano davvero e Mastronardi li aveva
camuffati dietro nomi riconoscibilissimi (altro che privacy, allora!): inevitabili
perciò le reazioni. L'autore, peraltro, era maestro lui stesso, figlio
di una maestra, Maria Pistoja, che lo aveva dato alla luce nel '30, e di Luciano
Mastronardi, funzionario didattico, immigrato abruzzese e colto, inviso per le
frustate che coi suoi articoli ogni tanto tirava ai concittadini (tra i vari pseudonimi
“Scudiscio”), nonché manganellato e perseguitato durante il Ventennio in
quanto antifascista dichiarato e di sinistra. Il
piccolo Lucio e la sorella maggiore Letizia, ai tempi del Ministero dell'Educazione
Nazionale di Bottai, subirono una specie di isolamento: da parte dei compagni
ma voluto dai loro genitori, nei confronti dei figli del “ribelle e rompiballe”...In
particolare Lucio, più fragile e meno studioso, pativa la situazione e
dovette sostenere sempre gli esami da privatista, dalle elementari fino alla licenza
magistrale. C'erano poi stati traumi, per la famiglia: la “Libreria Letizia”,
che il padre aveva aperto dopo aver perso il lavoro statale, era presto fallita
(anche per le sue stramberie, come regalare libri o rifiutarsi di venderli) e
addio pane bianco. Il prete della parrocchia di San Francesco li aveva sfrattati
di casa, con intervento della forza pubblica!, ed era il cognato, il fratello
di Maria. Si
può comprendere, dunque, come dopo un'infanzia proprio non serena, ma anzi
tribolatissima, il trentenne scrittore vigevanese non avesse l'animo adatto per
reggere il difficile rapporto con la città indispettita dai suoi romanzi
ironici e molto iconoclasti, che avevano avuto per giunta risonanza nazionale
( Il maestro aveva vinto il premio Prato ed era arrivato in finale allo
Strega, battuto in ultimo dalla Maraini). Quando De Laurentis ne comprò
i diritto cinematografici e a Vigevano arrivarono il regista Elio Petri, i protagonisti
Alberto Sordi e Claire Bloom...apriti cielo! Qualcuno si riconciliò col
Mastronardi (il cui padre intanto moriva), ammirandone la fama e considerandolo
un “dritto” che “sputtanando” i concittadini aveva fatto fortuna: ottantamila
copie a millecinquecento lire la copia fa una bella cifra, e quanto avrà
preso quel “matto” di diritti?, ci si chiedeva. E per il film? Ti credo che si
è fatto la Cinquecento! Altri, soprattutto in ambiente scolastico. Erano
terrorizzati e incazzati che la storia andasse al cinema. Ecco allora lettere
di “maestre e maestri cattolici” alla stampa contro l'opera che “getta fango sulla
categoria”. Lucio Mastronardi
Il
provveditore agli studi di Pavia nega il permesso di girare nelle aule della città
già accordato dal comune (la giunta era di sinistra e sugli stessi scranni
nell'immediato dopoguerra il padre era seduto come consigliere, indipendente nelle
file del Pci). Sordi, che flirtava, anche fuori dal set, con la Bloom, insieme
al regista faceva di tutto per “smorzare i toni della polemica”, e poi la notte
la troupe a dormire nell'albergo già prima nota casa di tolleranza...Così
l'ostilità per Mastronardi metteva le radici. Trasferito ad Abbiategrasso
con funzioni di segreteria (“Non amava insegnare, e ci siamo affrettati a dedicargli
la biblioteca civica, prima che a qualcuno venisse in mente di intitolargli una
scuola”, ricorda l'amico Emilio Ornati), fu rimesso per dispetto dietro la cattedra
dal direttore scolastico Ficarrotta che con quel nome era l'oggetto prediletto
dei suoi scherzi (“Ficarrotta...Ficarrotta” gli mormorava al telefono la notte
per vendetta). Il diverbio che la decisione fece scoppiare portò Mastronardi
dritto a San Vittore, per avere “agitato i pugni sotto il naso” al direttore e
averlo insultato. Lo
scandalo si aggiungeva allo scandalo e Mastronardi non era tipo abbastanza forte
di nervi per reggere, vulnerabile anzi come un riccio. Appena dopo il film (non
particolarmente elogiato dalla critica e con un Sordi molto macchietta romana),
ci fu un altro episodio che fece chiasso. Mastronardi venne arrestato e tradotto
in carcere a Vigevano per un diverbio con un ferroviere avvenuto anni prima ad
Alessandria allorché, salito su un treno riservato, l'avevano sbattuto
giù e lui aveva sbottato. Si doveva, secondo la legge, internarlo in quanto
l'avevano rilasciato riscontrandogli però segni di dissociazione psichica.
Dall'esperienza carceraria ricaverà il racconto Le mie prigioni per
l'Unità , di cui era collaboratore, e nessun'altra conseguenza se
non altro clamore e disagio, oltre alla condanna a qualche mese comminata ma non
scontata che porta la firma di Francesco Saverio Borrelli. Ma
aldilà del “caso”, dei tanti episodi, rievocati da Ornati, orfano dell'amico
per cui si è prodigato con convegni e pubblicazioni, cosa resta oggi dell'opera
di Mastronardi, riedita qualche anno fa la trilogia ( Il calzolaio di Vigevano,
Il maestro di Vigevano, Il meridionale di Vigevano ), Einaudi si appresta
ora a mandare in stampa il romanzo (di stile “nouveau” e sperimentale) A casa
tua ridono, insieme ai dodici racconti apparsi sotto il titolo L'assicuratore:
ovvero l'ultima produzione letteraria, quella che fu rifiutata da Calvino e segnò
il divorzio dall'editore torinese e l'approdo in Rizzoli. Cosa resta, dunque?
La sensibilità dell'uomo, troppo forte a vivere, gli fece sentire lo sgomento
per il mutamento economico-ambientale-antropologico-umano-paesaggistico dell'Italia
del boom e del miracolo come a un altro “irregolare”: Luciano Bianciardi cui un
topografo criticamente avveduto, a Milano, ha dedicato una via parallela a via
Mastronardi. Il destino li avrebbe accomunati nella (auto-) distruzione: Bianciardi
con la cirrosi all'ultimo stadio e praticamente suicida per l'alcool e i barbiturici
a quarantotto anni nel '71, Mastronardi che, alla stessa età, ma nel '79,
un piovoso giorno di primavera, esce di casa raccontando alla moglie (una maestra
di Abbiategrasso che gli aveva dato una figlia, di nome Maria come la nonna materna)
“vado a fare delle analisi in ospedale” (era anch'egli malato: forse un tumore
al polmone). E
invece lo vedono camminare chino e sotto la pioggia e senza ombrello sul ponte
del Ticino. Due pescatori lo troveranno, qualche giorno dopo, una domenica mattina,
impigliato in un'ansa del fiume, cadavere sbattuto dalla corrente...Come il Pietro
del suo ultimo romanzo, chi sa se l'idea di lasciarsi andare a picco, di planare
verso il fondo, addormentarsi infine sul letto sabbioso, l'aveva pacificato in
qualche modo. “Lui era nel giusto, siamo noi che sbagliavamo”, dice un anziano
passante un po' svagato, ma “vigevanese medio”, a proposito del rapporto dello
scrittore con la città. Ma
poi come rane da un cesto (la metafora è dettata dalla geografia), saltano
fuori ancora troppi riferimenti e spunti tra le righe della trilogia: gli immigrati
sfruttati e disprezzati (profeticamente chiamati “marocchini”) e ammassati come
bestie nei “ballatoi” e nei “cortili sudici” oppure corteggiati con le mazzette
se funzionari delle imposte, lo stato identificato col Sud (per la forte componente
“etnica” che domina nell'amministrazione), la perdita di potere d'acquisto e dunque
di prestigio del ceto medio impiegatizio (insegnanti in testa), gli arricchiti
coi pitali d'argento sotto il letto e la Maserati e la villona progettata dal
“geometro” e la scimmia in cortile destinata alla polmonite per la nebbia, i loro
figli che non si “contentano” più della moglie in gamba, ma la vogliono
bella e sposa sfarzosissima: insomma l'Eterna Italia nel guado transito dai cafoni
(in senso siloniano) ai cafoni (nel senso di bauscia).
(Tratto dall'Unità
del 14 maggio 2002.)
.
Precedente Successivo
Copertina
|