LO SCRITTORE ANARCHICO
IN CAMICIA ROSSA
Luciano Luciani
A
Milano, città che non amava, nell'autunno del 1971, moriva, neppure cinquantenne,
Luciano Bianciardi, scrittore toscano dalla penna densa, umorale, sapida, forte.
Morì
solo, o quasi: nei venti giorni della sua agonia, nella stanza 305 del reparto
di Medicina interna dell'ospedale San Carlo, pochi passarono a chiedere sue notizie.
“ Un paio di giornalisti amici; un editore. Poi una donna arrivata da Parigi,
che piange e ogni tanto scappa via dalla camera, si siede nel corridoio e resta
lì, in silenzio. Nessun parente .” (P. Corrias, Vita agra di un
anarchico , Milano 1993) Eppure,
in quella stanza, nello stato di confusione soporosa indotta dai farmaci che cercavano
inutilmente di contrastare una cirrosi epatica in fase avanzatissima, consumava
le sue ultime ore di vita un giornalista di razza; un finissimo traduttore, cui
dobbiamo la resa in uno splendido italiano di tutti gli autori americani – da
Henry Miller a Norman Mailer, da Saul Bellow a William Faulkner – che negli anni
Cinquanta e Sessanta valeva la pena conoscere; un operatore culturale intelligente
ed originale; un romanziere che amava gli scrittori garibaldini e Verga e che
seppe anche innovare profondamente i temi e i linguaggi della nostra narrativa,
adeguandola alle straordinarie trasformazioni che investivano la nostra società
negli anni del boom economico. Due
libri benemeriti – Pino Corrias, Vita agra di un anarchico e Luciano
Bianciardi, Chiese escatollo e nessuno raddoppiò Diario in pubblico
1952-1971, usciti rispettivamente nel 1993 e 1995 per la casa editrice Baldini
& Castaldi – hanno riproposto al ricordo dei più anziani e all'intelligenza
dei più giovani questo Autore sornione e sferzante, fragile e tagliente,
unico nel panorama della nostra letteratura contemporanea. E
sono state di nuovo scoperta e sorpresa… Il
più bel romanzo dei favolosi anni Sessanta “
(…) Sono riuscito a scrivere un libro che ritengo la mia cosa migliore (…) S'intitola
La vita agra ed è la storia di una solenne incazzatura scritta
in prima persona singolare. Per il resto nulla di nuovo. C'è il miracolo
italiano, l'espansione dei consumi, il boom economico ed anche editoriale. In
cambio non si vede mai un amico, ci si accorge di essere considerati non come
uomini, ma come funzioni (quello che traduce, quello che scrive, quello che dirige
e così via), si capisce anche che se per tua disgrazia crepi gli altri
ti scancellano e sei sparito”. Con
questa lettera, datata 1 marzo 1962, Bianciardi dava all'amico Mario Terrosi,
tipografo, scrittore e piccolo editore grossetano, notizia della sua opera più
matura e più riuscita La vita agra , che sarebbe stata pubblicata
da Rizzoli nel settembre dello stesso anno. Il
libro porta in calce la data inverno '61 – 62 . Nel settembre del '61
era uscito il n. IV della rivista di Vittorini “Il Menabò”: un numero monografico
sul tema del rapporto tra letteratura e industria. I diversi contributi presenti
nelle sue pagine (Vittorini, Sereni, Forti, Pirella, Scalia) muovevano nel senso
di sollecitare una diversa sensibilità degli “operatori di letteratura”
riguardo alle profonde trasformazioni che la nuova realtà industriale –
con tutti i suoi corollari necessari: neocapitalismo, industria culturale, consumismo,
pubblicità, etc.,… - aveva indotto negli atteggiamenti, nei modi di essere,
nella vita privata e di relazione, nella psicologia dell'uomo italiano degli anni
Sessanta. I moduli espressivi e il linguaggio d'impianto tradizionale non bastavano
più, non erano più all'altezza di comprendere e riesprimere la nuova,
formidabile e complessa realtà della società industriale. La
letteratura d'inchiesta, la letteratura documento, quella di taglio o in chiave
sociologica si erano limitate, come scriveva Vittorini, a “ squarci pateticamente
(o pittorescamente) descrittivi, che sono di sostanza naturalistica e quindi di
un significato meno attuale d'altri testi letterari che magari ignorano tutto
della fabbrica, del lavoro specializzato, delle strutture aziendali, etc., etc.,
ma ne sono profondamente influenzate per riflesso dei loro effetti sulle condizioni
dell'uomo in generale”. Vittorini e gli altri invitavano, dunque, i letterati
ad attrezzarsi culturalmente e teoricamente per non limitarsi ad interpretare
una nuova materia, un nuovo settore di una realtà preesistente, ma per
comprendere “ un nuovo grado, un nuovo livello, dell'insieme della realtà
umana ”. Non
è pensabile che Bianciardi, intellettuale avvertito e scaltrito da una
lunga pratica in riviste “militanti” (aveva collaborato a “Belfagor” di Luigi
Russo, al “Contemporaneo” di Salinari, a “Cinema Nuovo” di Aristarco oltre che
alle pagine culturali dell'”Unità” e del “Nuovo Corriere” di Bilenchi)
non cogliesse il valore e la portata di quel sollecito vittoriniano ad una cultura
rinnovata, riqualificata, adeguata alle questioni della nuova realtà italiana
dopo le illusioni e le conseguenti delusioni della stagione neorealistica. Luciano Bianciardi
Bianciardi
aveva vissuto tutta la parabola tipica degli intellettuali degli anni Cinquanta
(si legga in proposito il suo Il lavoro culturale del '57 ) Azionista
prima e poi uomo di cultura sempre vicino al Partito comunista, cui però
non s'iscrisse mai, animatore di cineforum, insegnante, bibliotecario, organizzatore
di centri di lettura e di biblioteche circolanti, interessato alle vicende e alle
condizioni delle classi subalterne, si era battuto con intelligenza e passione
a fianco della classe operaia grossetana, che aveva nei minatori di Ribolla la
sua parte più cosciente ed avanzata. Il
disastro di Ribolla – il 6 maggio 1954 un'esplosione di grisou nella
miniera di lignite della Montecatini aveva causato la morte di oltre 40 lavoratori
– la successiva chiusura della miniera, la sconfitta dei minatori grossetani furono
interpretati da Bianciardi come la fine di un entusiasmo, di una speranza collettiva
e l'avvio di una situazione di stallo in cui sembrava destinato ad invischiarsi
l'intero Paese. Lasciamo parlare ancora l'amico Mario Terrosi: “ Sprofondò
in una crisi spaventosa e di lì a poco fuggì a Milano…Ben presto
si trovò in mezzo a una strada, senza una lira, affamato, disperato. Non
conosceva nessuno e nessuno gli tese una mano. Poi si fece coraggio, andò
a bussare alla porta delle case editrici, a offrirsi come traduttore. Lo fecero
provare e riprovare, vi furono appunti, consigli, inviti ad attenersi ad un più
rigoroso uso della lingua. Lui dava ragione a tutti…Vennero i primi soldi…E anche
la rabbia. Rabbia di sentirsi impotente, umiliato. Rabbia che si rivolse in breve
contro tutti e contro tutto.”
Delusione
e furore di un letterato anarchico. Di
rabbia filtrata dall'ironia e della delusione storico – politica si nutre La
vita agra , un pamphlet narrativo, attraverso cui sembra quasi
sfogarsi una vena anarchica e distruttrice. E se nel Lavoro culturale
e nell' Integrazione la delusione e l'irrisione dei miti – della cultura
e della sua organizzazione come la proponevano le forze della sinistra e come
l'aveva praticata Bianciardi, dell'impegno politico, della provincia come serbatoio
delle energie sane – sono temperate da un inizio di rimpianto, da un accenno ad
una speranza, comunque contraddittoria ma sempre speranza, nella Vita agra
lo scrittore grossetano lascia che la sua vena corrosiva si dispieghi pienamente.
E la applica non solo alla Milano del miracolo economico e dell'industria culturale,
ma la allarga all'intera compagine della vita associata moderna, colta nella sua
crudeltà, nel suo frenetico furore e ad ogni livello di classe. La
vita agra esce nel settembre 1962 ed è subito best – seller :
esaurite le prime edizioni in pochi giorni, vendute 20.000 copie in tre mesi il
libro fa notizia. Recensioni, presentazioni, interviste, traduzioni all'estero,
un film non riuscitissimo interpretato da Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli testimoniano
del successo di quelle pagine che Bianciardi aveva definito “ una grossa pisciata
in prima persona sulla avventura milanese, sul miracolo italiano, sulla diseducazione
sentimentale che è la nostra sorte d'oggi ”. ( M. Terrosi, Bianciardi
com'era , 1974) Tra
i numerosi estimatori del romanzo Italo Calvino, entusiasta del lavoro che recuperava
buona parte del ritardo della narrativa italiana nei confronti della società
neocapitalistica. Contribuisce al fascino e al successo del libro la considerazione
pessimistica in un periodo per gli intellettuali di patteggiamenti e compromessi
di una realtà vista tutta compattamente come oppressione, inganno, falsificazione.
E allora contro questa situazione disumana ed alienante Bianciardi decide di servirsi
di tutti gli strumenti a sua disposizione. Per esempio nella composizione dell'impasto
linguistico della Vita agra , becero e letterario insieme, demistificante
e provocatorio, all'altezza della carica corrosiva che gli urgeva dentro e dei
suoi fini amaramente irridenti e satirici. Lo aiutano in questa intenzione il
suo lavoro di traduttore di Bellow, Miller, Steinbeck, Crane, Berger, Ginsberg,
Kerouac, che, proprio grazie alla altissima professionalità dello scrittore
grossetano, fanno la loro fulminate apparizione in Italia. Bianciardi li mescola
con la sua frequentazione di tutto il bozzettismo toscano - in particolare il
Viani, lo zio Lorenzo da Viareggio – e con i suoi interessi eruditi, maturati
in anni di “lavoro culturale” nella scuola, nelle biblioteche, nei circoli culturali…
L'autobiografismo
che percorre tutta l'opera si carica di valenze esemplari: la vicenda dell'intellettuale
provinciale ed anarchico che decide di farsi e fare giustizia, minando il “torracchione”,
la cittadella del potere e finisce per restare stritolato nei complicati ingranaggi
del sistema neocapitalistico è emblematica del dramma di una generazione.
Lo racconta amaramente lo stesso Bianciardi: ” L'aggettivo agro sta diventando
di moda, lo usano giornalisti ed architetti di fama nazionale. Finirà che
mi daranno uno stipendio mensile per fare la parte dell'arrabiato italiano. Il
mondo va così. Cioè male. Ma io non posso fare nulla. Quel che potevo
l'ho fatto e non è servito a niente”. La
riscoperta dei miti risorgimentali. Un
profondo disinganno, una delusione storica ed esistenziale, pubblica e privata
coglie Luciano Bianciardi proprio nel momento del suo maggior successo e sulla
soglia dei quarant'anni. La vagheggiata trasformazione in senso democratico e
progressista della società italiana si è rivelata impossibile, non
più realizzabile se mai lo è stata. La sconfitta, lo scacco Bianciardi
li ha vissuti sulla propria pelle e li ha già raccontati nella sua trilogia
Il lavoro culturale 1957, L'integrazione 1960 e La vita
agra 1962, popolati di personaggi “senza qualità”, insoddisfatti,
piegati dalla vita e dalla storia: quella grande con la S maiuscola e quella personale,
privata. Ma
non esiste disfatta così totale che non possa trovare una qualche forma
di redenzione nella tenerezza feroce dei ricordi e dei miti personali. Tra questi,
il Risorgimento democratico, quello di Garibaldi e delle camicie rosse. A otto
anni, il futuro romanziere, aveva ricevuto in regalo dal padre “ il libro
che amerà di più in assoluto per tutta la vita, I Mille
di Giuseppe Bandi, la storia della spedizione di Garibaldi raccontata da un garibaldino:
e per tutta la vita coltiverà l'interesse e l'amore per il Risorgimento
”. Una
passione, quella per le vicende ed i protagonisti della costruzione del nostro
Paese, che non lo abbandonerà mai e a cui Bianciardi si avvicinava con
uno spirito né da erudito né da agiografo, ma ancora “militante”.
Ecco alcuni suoi giudizi: “ insomma io sto dalla parte di Garibaldi, non di
Cavour ”; per lui la spedizione dei Mille è “ il più grande
avvenimento della storia italiana moderna ”…E “ la verità è
che Cavour non impedì l'impresa soltanto perché non ebbe il mezzo
d'impedirla…” ; “F ra gli altri torti di Cavour c'era anche quello di
non aver voluto mai credere nella sincerità di Garibaldi e nella sua scrupolosa
fedeltà alla divisa che aveva scelto per sé e per i Mille: Italia
e Vittorio Emanuele. Gli intrighi della politica e le finzioni della diplomazia
erano in Cavour un abito mentale, ed egli non poteva quindi credere che Garibaldi
fosse uomo rettilineo, davvero convinto di quel che andava ripetendo: liberiamo
l'Italia tutta, ed allora faremo l'unità, con Vittorio Emanuele re. L'unità
di Palermo con Napoli e Roma e Venezia. Garibaldi lo diceva e lo pensava, Cavour
si ostinava a sospettarlo di mire dittatoriali e repubblicane”. Così
Emilio Tadini, a sua volta scrittore di vicende risorgimentali, “legge” il rapporto
tra il romanziere toscano ed il passato prossimo della nostra storia nazionale:
” La rivoluzione mancata del Risorgimento diventa quasi una trasparente allegoria
per parlare della situazione italiana quale Bianciardi poteva vederla e giudicarla
nella propria attualità, a pochi anni dalla fine della guerra e della Liberazione.
E'
un po' come se, parlando dei garibaldini, Bianciardi parlasse dei partigiani.
Come se, parlando di certi politici e di certi militari piemontesi, Bianciardi
parlasse del potere democristiano. Come se parlando di una deviazione del Risorgimento,
parlasse di una deviazione della Resistenza”. All'interno
di questo stato d'animo nascono, maturano e vedono la luce i racconti e i romanzi
“risorgimentali” di Luciano Bianciardi, tra i momenti più intensi e problematici
della sua produzione. La
battaglia soda , per esempio. Uscì nel 1964, un anno buio e pericoloso
per le sorti della democrazia italiana, quando il “tintinnare di sciabole” dei
carabinieri del generale De Lorenzo condizionò pesantemente le trattative
per la formazione del nuovo governo di centro sinistra guidato dall'on Aldo Moro.
Bianciardi lo dedica alla memoria di Giuseppe Bandi, suo conterraneo garibaldino
ed attendente dell'Eroe dei Due Mondi durate tutta la spedizione dei Mille, nel
corso della quale si batté valorosamente. Lo scrittore grossetano si identifica
in toto con questa bella figura risorgimentale e, assumendone il punto
di vista, racconta in prima persona gli anni successivi all'unità d'Italia
fino a Custoza, quella del 1866: la malinconica conclusione al ribasso del processo
nazionale unitario viene fatta coincidere con la caduta delle illusioni. L'Italia
è sì riunificata dalle Alpi al Lilibeo, ma non è certo il
Paese libero, giusto e forte, che aveva ispirato le speranze dei suoi figli migliori.
L'immedesimazione di Bianciardi col Bandi non si arresta neppure di fronte al
problema della lingua con cui far parlare l'io narrante della Battaglia soda
: un italiano ottocentesco, ricco di termini vernacoli e desueti usato da
certi scrittori toscani “minori” frequentati fin dagli anni degli studi universitari
a Pisa. Ecco cosa Bianciardi scrive del suo personaggio (e di sé) “ il
mio protagonista non è un uomo molto intelligente. Impulsivo, generoso,
pronto all'ira, e poi al perdono, e poi alle lacrime, conserva peraltro il dono
dell'autoironia. Vedi quante volte il discorso, attaccato ore rotundo ,
con una sintassi aulica (il mio personaggio ha studiato il latino, forse dai preti,
e si sente), all'improvviso si sgonfia e si canzona da sola”. Del
1966 è Il volontario Sbrana , un racconto con una puntuale ricostruzione
storica dei fatti d'arme svoltisi nella piana di Mantova nel corso della prima
guerra d'indipendenza, quando 6000 tra napoletani e volontari toscani, soprattutto
studenti e professori dell'università di Pisa, tennero testa per un'intera
giornata a 20.000 austriaci che tentavano una manovra di sfondamento ed aggiramento
dello schieramento piemontese: a Curtatone e Montanara, anche se disposti in maniera
maldestra e privi di comunicazioni i volontari contesero palmo a palmo il terreno
alle truppe de Radetzki e inflissero loro gravi perdite, permettendo alle truppe
regolari del generale piemontese Bava di operare la manovra necessaria per ricacciarle
indietro.Fedele alla sua ispirazione democratica e “dal basso” della storia Bianciardi
fa raccontare questa vicenda ad un anonimo volontario toscana, più abituato
al libri e agli esami universitari che alle dure prove dei campi di battaglia.
Storici e d'invenzione i suoi personaggi: accanto al generale De Laugier in “
montura turchina da cerimonia con le spalline d'argento…un bell'uomo che di
certo non ci aveva fatto sfigurare , al consiglio di guerra coi generali
alleati ” e al maggiore Pilla, severo ed umano coi suoi soldati – studenti,
spicca il volontario Sbrana, l'eroe eponimo del racconto, caduto senza memoria.
“ Nel camposanto vecchio di Pisa c'è una pietra che rammenta i nostri
morti, professor Pilla in testa. Ma invano vi cercherete il nome dell'improvvisata
staffetta coi calzoni verdi, la fusciacca rossa e il camiciotto bianco che ai
bei tempi vendeva il castagnaccio dietro il Monte di Pietà. Non risultava
sui ruolini”. Nel
Prigioniero di Bull Run, 1967, il letterato grossetano intreccia due
temi sempre ben presenti alla sua coscienza: il nostro Risorgimento e la guerra
di secessione americana conosciuta attraverso alcune mirabili traduzioni da Stephen
Crane e Thomas Berger. Poche pagine in cui, sempre in prima persona e sempre da
un punto di vista “basso”, quello di un ex garibaldino di Piombino finito a combattere
negli Usa nel Settimo volontari dell'Illinois, viene rielaborato uno spunto tanto
erudito quanto storicamente fondato: quello del tentativo compiuto dai comandi
dell'esercito unionista – e forse dallo stesso Abramo Lincoln - duramente impegnato
dalla resistenza dei confederati di Lee, di arruolare nelle proprie file una figura
decisiva come il generale Garibaldi “ che rispose picche, perché aveva
già altri impegni”. Aprire
il fuoco? E
veniamo ad Aprire il fuoco , 1969, la sua opera più amara e delusa:
l'io narrante,che per tutte le pagine rimane senza nome, mescola sapientemente
due tempi storici: l'Italia clericale e democristiana del 1959 e l'atmosfera di
Milano prima durante e dopo le gloriose Cinque giornate quarantottesche. Ne deriva
uno straordinario ed irresistibile pout – pourrì in cui l'allora
recente ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII viene assimilata a quella
di Pio IX; sulle barricate milanesi si alternano Cesare Correnti ed Enzo Jannacci
alla testa degli “insorti di Linate”, Carlo Cattaneo e Camilla Cederna, il conte
Porro e Luigi Nono, mentre Paolo Grassi distribuisce al popolo le armi da scena
del Piccolo Teatro. Ma, come insegnano i manuali scolastici, la rivoluzione del
'48 fallisce, Radeztky rientra a Milano in jeep, le personalità più
compromesse fuggono in Svizzera. Solo Bianciardi dal suo esilio di Nesci, ovvero
Rapallo, rimane pronto a battersi con le armi dell'ironia, del sarcasmo, dell'invettiva.
Romanzo della nevrosi interiorizzata in autoemarginazione, Aprire il fuoco
si alimenta dell'assimilazione tra il governo asburgico che precede la grande
stagione rivoluzionaria e quello italiano a guida democristiana prima degli anni
del “boom” economico: l'uno e l'altro assai moderati, politicamente conservatori,
socialmente ingiusti. L'ex azionista Bianciardi, trasformato in anarchico da una
Storia che tradisce ed inganna gli uomini ripetendo sempre gli stessi errori,
come il Robert Jordan ormai morente di Per chi suona la campana aspetta:
attende un segnale che l'avverta che il nemico sta arrivando e che quindi è
di nuovo giunto il momento “… il vecchio Mauser che mi fu compagno nelle cinque
giornate l'ho con me, nascosto. Se mandano qua un altro loro aguzzino, io sono
pronto ad aprire il fuoco”. In
calce al libro, una data: marzo 1968. Sono i giorni della rivolta studentesca:
in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all'Italia, dalla Francia alla Cina, ad ovest
come ad est, la ribellione delle giovani generazioni sembra scuotere regimi e
assetti consolidati. Bianciardi, anche se stanco e malato, si dimostra più
attento di tanti altri intellettuali a la page nel cogliere le formidabili
novità di quei tempi. Ma i giovani in rivolta, tranne poche eccezioni,
non si accorsero di questo scrittore “esule in patria” appartenente alla generazione
dei loro padri, non ne apprezzarono la straordinaria vis polemica, non
seppero utilizzarne l'esperienza e la rabbia. Lui
morì solo e disperato di lì a poco, loro ci misero appena un po'
di più per finire malamente sconfitti.
Luciano
Luciani, romano, ha insegnato italiano e latino nei licei. Giornalista pubblicista
dal '92, collabora con numerose testate locali e nazionali. Vive a Lucca.
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