L'AUTOBIOGRAFIA INVOLONTARIA
DI PASOLINI
Piergiorgio Bellocchio
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Esco stravolto
dalla lettura dell'epistolario di Pasolini (Lettere, I vol. 1940-54 ,
II vol. 1955-75 , a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino 1986 e
1988). Eppure il mio interesse era stato vivissimo fino alla fuga da Casarsa e
ai primissimi anni romani, con punte di grande emozione. I momenti di noia, inevitabili
in qualunque epistolario integrale (come in qualunque convivenza), quand'anche
si tratti di geni, si fanno però più frequenti nella seconda metà
del primo volume, fino a diventare prevalenti e oppressivi in tutto il secondo
volume. C'è anzitutto la noia del contenuto. Infatti, di pari passo con
la sua affermazione professionale, cresce la quota di lettere d'affari. Affari
culturali, beninteso, ma non fa differenza: editori, libri, contratti, scadenze,
anticipi, solleciti, recensioni (richieste e promesse di), articoli, riviste,
ristampe, antologie, bibliografie, interviste, premi, raccomandazioni, omaggi,
dediche, complimenti, ecc. ecc. Ma non si tratta solo della materia. Prevedibili,
molesti sono anche gli umori e le idee, che si ripetono secondo ossessivi
clichés. Si percorre l'ultimo decennio con la nausea di chi ha raggiunto
da un bel pezzo la saturazione. Questo
migliaio di lettere — si chiede, compiuta la fatica, l'esasperato lettore — che
occupano quasi duemila pagine, non avrebbero potuto essere vantaggiosamente
ridotte a due o trecento, cifra che avrebbe compreso non solo i documenti
d'importanza letteraria, biografica, psicologica, culturale in genere, ma ancora
un'abbondante campionatura della corrispondenza d'affari e di routine? Perché
l'epistolario — e integrale (che poi integrale non è) — ad appena
un decennio dalla morte? Perché tanta precipitazione, se non per sfruttare,
prima che se ne esaurisse l'eco, lo scandalo di quella morte? Il solo altro
scrittore del dopoguerra a godere del dubbio privilegio della pubblicazione integrale
dell'epistolario, è stato Pavese (1966). Un altro “caso”, un altro scandalo.
Solo se impotenti o omosessuali, nonché suicidi o assassinati, si
ha diritto subito all'epistolario? Se già non l'avesse fatto, sarebbe ancora
disposto l'editore a pubblicare oggi le lettere di Pavese? E quelle di Pasolini
tra vent'anni? Reazioni e problemi di qualche fondamento, che potrebbero
essere sviluppati e formare oggetto di specifica trattazione. Senonché...
Senonché
succede qualcosa di strano. Smaltito il primo choc, a mano a mano che i sensi
frastornati tornano al normale equilibrio, il lettore deve progressivamente arrendersi
a un'evidenza del tutto imprevista. Deve cioè ammettere, ancora incredulo,
e poi riconoscere con piena convinzione di trovarsi di fronte a un'opera decisiva
di e su Pasolini. L'opera forse che meglio lo comprende e lo consegna alle patrie
lettere secondo la misura più giusta. Per cui, se prima ne invocavo una
radicale selezione, ora preferirei antologizzare qualunque altro suo libro
(con vantaggio di molti) piuttosto che l'epistolario. Non è che abbia
cambiato opinione su quella larga quota di lettere che mi avevano annoiato e irritato:
ma queste con le altre, e con le trecento pagine della Cronologia che integra
l'epistolario, concorrono a formareuna vera autobiografia. L'autobiografia involontaria
dello scrittore forse pin furiosamente autobiografico della letteratura italiana.
Un'autobiografia autentica proprio perché involontaria: nelle lettere,
pur gravide di narcisismo, manca infatti il narcisismo supplementare dello scrittore
che, oltre al diretto destinatario, pensa all'immagine di sé da consegnare
ai posteri. Ma
oltre l'importanza biografica di queste lettere ci colpisce il valore letterario
(almeno nel primo volume). Esse confermano quanto era rilevabile dalle prime prove
poetiche di Pasolini: senza volerne qui cercare le ragioni, Pasolini è
un caso di scrittore congenito. La sua vita è subito, nel bene e nel male,
letteratura. Certe lettere sono poesia non meno (e talvolta di più) della
produzione specificamente poetica dello stesso periodo. Sembrerebbe che tra
percezione e espressione corra un rapporto di assoluta immediatezza. Una
fra le mie tante compagnie sono le oche: le oche scontente, sempre piene
di fame, non c'è animale più scontento e ansioso delle oche: le
vedi, e credi che siano, giacenti, a poltrire nella dolce luce, ma se ti
avvicini, immediatamente si alzano e ti si avvicinano urlanti, con il becco
aperto e muovendo il sedere: ciò dimostra che non stavano pacifiche
a riposare, ma erano continuamente in preda all'agitazione e ad un pensiero:
mangiare. [...] Credo
che non ci sia cosa più bella della vita in campagna, nel paese natio,
tra semplici amici. (I
vol., pp. 78-79). Vedo
ora un fanciullo che reca l'acqua della fontana dentro a due brocche: egli cammina
nell'aria chiara del suo paese, che è un paese a me sconosciuto. Ma egli,
il fanciullo, è figura a me notissima, e con il cielo che sbianca con funerea
dolcezza, e con le case che si abbandonano a poco a poco all'ombra, mentre ogni
cosa, nella piazzetta, è soverchiata da un tormentoso suono di tromba.La
giornata è sul finire, ed io ricordo il numero infinito di giorni ch'io
ho visto morire in questa maniera, fin dai lontani tempi di Idria e di Sacile.
[...] Ma la sera non desiste di lambire i paesi del mondo, le loro piazzette caste
e quasi solenni, in un acuto profumo d'erba e d'acqua ferma. Ecco ora che
si fa al balcone una donna, e lancia un grido che a me è un brivido:
“Figliooo! ” Cosí era un tempo nella piazzetta di Sacile, quando indugiavo
con gli amici. [...]. Oggi
è venuta mia madre a trovarmi ed è partita da poco. Pensando
a lei provo una dolorosa fitta d'amore; mi vuoi troppo bene, ed anch'io. Io sono
poeta per lei. (I,
134). Il
primo brano è del '41, Pasolini ha diciannove anni; il secondo è
dell'anno successivo. Sono solo due esempi fra tanti che si potrebbero fare. Dunque,
valore documentario e letterario tendono necessariamente a coincidere (mi
riferisco sempre al I volume delle Lettere ). Ma c'è di più.
Là dove è possibile stabilire un confronto, della stessa materia,
tra elaborazione “privata” (diari, lettere) e trasposizione “pubblica”, quasi
sempre la prima supera per purezza e forza espressiva la seconda. La verifica
probante è fornita dagli inediti “Quaderni rossi” scritti da Pasolini
tra il '46 e il '47, “dove il diario giornaliero si alterna a ricordi delle
stagioni precedenti fino alla prima infanzia” (Naldini), dei quali nella Cronologia
sono riportati ampi stralci. Ora, non solo queste pagine mi sembrano
le migliori in assoluto mai scritte da Pasolini, ma se si rapportano, quando l'argomento
è comune, alla rielaborazione “romanzesca” di Atti impuri ,
è questa a scapitarne (quegli Atti impuri che sono, a loro volta,
artisticamente superiori ai romanzi successivi). Ma Atti impuri parve a Pasolini
ancora troppo autobiografico e troppo poco “romanzato” per consentirne la pubblicazione
(uscì postumo, Garzanti 1982, insieme a Amado mio , che dà
il titolo al volume). “Io
vorrei esserlo [sincero], — scrive all'amico Farolfi nell'agosto del '45, — anzi
lo sarei senz'altro se avessi più stima degli uomini: ho paura che lo scoprirmi
a loro per un superiore impulso morale, mi renda disagiata la vita tra di loro”
(I, 204). Sembrerebbe che Pasolini avesse già preso la sua decisione: nascondere
prudentemente il suo eros “diverso ”. Conosceva il caso di Gide, però su
di lui agiva con ben maggior peso l'impressione per la tragica sorte di Rimbaud
e Wilde. Ma per una natura come la sua, votata alla sincerità, per cui
vita e espressione sono la stessa cosa, la scelta dell'ambiguità appare
una contraddizione quasi insanabile. Pure, nell'agosto '45 non ha ancora
scritto le sue “confessioni ”. Nel '49 scoppia lo scandalo che provoca la sua
fuga da Casarsa. A esser colpiti sono gli “atti impuri” realmente praticati, ma
anche la loro proiezione letteraria ne viene travolta. Il meccanismo di autodifesa
esige la rimozione delle “confessioni”. Nella
recensione a Maurice (1972), protestando per il destino postumo
di questo romanzo, Pasolini denuncia il feroce moralismo della società
britannica che aveva costretto l'autore a nascondere la sua omosessualità,
ma non risparmia a Forster l'accusa di aver commesso “un atto di viltà”.
L'“ errore morale” che gli rimprovera, “perché Forster doveva avere
il coraggio di pubblicarlo subito”, equivale a un'autocondanna, consapevole o
meno che Pasolini ne fosse. E fin troppo evidente che la posizione di Forster
(che rischiava il carcere o l'esilio) era molto peggiore di quella di Pasolini;
ma non interessa tanto chi dei due sia stato meno coraggioso,
quanto stabilire le conseguenze di quell' " errore morale”. Forster scrive
Maurice nel '14, quando la sua maturità artistica è
già compiuta. Quando scrive i “Quaderni rossi” e Atti impuri ,
Pasolini ha meno di venticinque anni e ha pubblicato solo, in edizione pressoché
privata, le miracolose Poesie a Casarsa . In pratica, è un
esordiente. La rimozione è insomma all'origine , e il suo
sviluppo umano e artistico ne è irreparabilmente segnato. Paranoia,
aggressività e senso di colpa, vittimismo e gusto della provocazione,
complesso dell'imputato e complesso del giudice, instabilità, diritto
alla contraddizione, attivismo frenetico: tratti riconducibili a quel “peccato
originale” che ne ha come bloccato lo sviluppo. Naturalmente sono state anche
queste tensioni e lacerazioni a determinare l'originalità e la forza della
sua migliore poesia, di tantissime pagine critiche, di film come Accattone
o La ricotta . Ma c'è il rovescio della medaglia: una produzione
ipertrofica, abnorme, caotica, di valore estremamente diseguale, che esige sempre
grandi sforzi per distinguere il buono dal cattivo, il vero dal falso; e
lo stesso vale per gli atteggiamenti e gli interventi pubblici. Non è solo
colpa della nostra società, per quanto pessima, se sull'autore s'è
subito sovrapposto il personaggio: a volerlo per primo è stato Pasolini,
che poi se ne lagnava, ma senza mai smettere di dar pretesto e alimento a questa
contraffazione. E certamente colpa della nostra pessima società culturale
di essersi mossa quasi unicamente sulla base di pregiudizi, interessi editoriali,
logiche di clan, di schieramento politico, e soprattutto secondo le leggi della
moda, favorendo ogni sorta di equivoci sulla comprensione e valutazione dell'opera
di Pasolini. II
Nella
settantina di lettere che coprono il periodo della guerra, corrispondenti alle
prime duecento pagine dell'epistolario (che inizia proprio nel giugno '40),
non c'è quasi traccia di interessi politici, salvo il breve momento d'entusiasmo
seguito al 25 luglio. L'a-fascismo del giovane Pasolini si può spiegare
in parte con la conflittualità verso il padre militare di carriera
e fascista, ma più importa ricordare che la classe intellettuale della
sua generazione era uscita sostanzialmente indenne dall'indottrinamento fascista.
Parlo della grande maggioranza: i fascisti e gli antifascisti convinti costituivano
una minoranza (c'è poi da considerare il caso dei fascisti migliori, come
un Berto Ricci, illusi che la “rivoluzione fascista” fosse ancora tutta da
fare: fascisti o antifascisti?) Il regime aveva fallito proprio l'obiettivo principale
e più ambizioso: la politicizzazione forzata della futura classe dirigente
aveva ottenuto l'effetto di spoliticizzarla. Tuttavia l'entrata in guerra non
aveva soltanto radicalizzato le posizioni della minoranza fascista e antifascista,
rinvigorendo gli opposti disegni e speranze, ma aveva agito anche tra i giovani
spoliticizzati. Molti casi di volontariato hanno poco o nulla a che fare con l'ideologia
fascista e si richiamano piuttosto al patriottismo, senso dell'onore e del
dovere, bisogno d'azione e spirito d'avventura propri dell'età giovanile.
Non c'è contraddizione nel fatto che il partigiano Guido Pasolini
assuma il nome di battaglia di Ermes in ricordo dell'amico di Pier Paolo e suo
Ermes Parini, partito volontario e disperso sul fronte russo. La
tentazione militare dà inevitabilmente qualche scintilla anche in Pasolini,
ma si tratta di manifestazioni del tutto meccaniche, meri tic imitativi. Non solo
a-fascista ma immunizzato da ogni suggestione patriottica o scrupolo ci-vico,
la guerra non esercita su di lui la minima seduzione (quando più tardi
l'avrà sotto gli occhi, gli ispirerà solo orrore). La ripugnanza
per la violenza del giovane Pasolini, pure esuberante di vitalità fisica,
la sua mansuetudine sembrano derivare da un profondo senso della cultura
e della tradizione, ma concepite quasi come fatti naturali e eterni, fuori da
un processo storico che comporta sempre violenza e distruzione (di altre culture
e tradizioni). Riferendo all'amico Farolfi (giugno '41) del padre che sta
combattendo in Africa Orientale e ha meritato una decorazione, commenta: “Sarò
poco eroico, ma io non vedo l'ora che si arrendano” (I,
45). Leggendo
queste lettere, ci si dimentica addirittura che c'è una guerra mondiale
in corso. Totalmente estraniato, Pasolini sembra vivere felicemente in un mondo
a parte. La fittissima corrispondenza con gli amici ci informa delle sue letture,
interessi musicali e cinematografici, pittorici e teatrali, bagni e bicicletta,
sci e calcio, collaborazioni letterarie e progetti di riviste, e soprattutto della
sua fervida produzione poetica, rivelando una ricettività dei sensi,
un'apertura intellettuale, una capacità autoanalitica e espressiva
eccezionali in un ventenne. L'impressione complessiva è di una superiore
innocenza e di una splendida salute mentale e fisica. Anche i momenti di depressione
esistenziale non sembrano aver rapporto con gli eventi politico-militari, almeno
fino al '43; e vengono comunque padroneggiati e superati attraverso la loro
immediata traduzione in letteratura. “Va là, caro Luciano, che sono
felice, tutti noi siamo felici, felici anche nel dolore, quando questo sia
ben definito e chiarito interiormente. Viva i poeti, come noi siamo” (31 maggio
1942, I, 129). Da una lettera a Farolfi dell'anno successivo: “ Cosí al
doloroso e continuamente sofferto urgere dei sentimenti, corrisponde metodicamente
in me un riordinamento poetico” (I, 170). Nel
luglio del '42 deve seguire un corso di tre settimane per allievi ufficiali. Scrivendone
dal campo militare di Porretta Terme all'amico Serra (I, 134-35), se la sbriga
in poche righe: “Lavo le gavette: orribile cosa! Vegliare tutta la notte
di guardia: orribile cosa! Questi giorni sono, dal punto di vista della comodità,
i piú brutti della mia vita”. Una modesta disavventura, un incidente di
percorso, da vivere come qualunque altra esperienza (“Il campo è un inferno,
ma io lo vivo per la memoria”), e che soprattutto non deve turbare o distrarre
minimamente dalla salda fede nel proprio alto destino: “Noi siamo poeti.
L'ambizione è coscienza di noi. Il futuro è certo”. Come curiosamente
consuona, questo tratto di orgogliosa sicurezza, con certe note diaristiche
ed epistolari di quegli stessi anni del quasi coetaneo Giaime Pintor! Aggressione
dell'Urss, Pearl Harbor, El Alamein, Stalingrado... Nella corrispondenza non ve
n'è cenno. Neanche del padre, prigioniero degli inglesi. Che ci sia la
guerra trapela soltanto da alcuni sofferti riferimenti a Ermes Parini detto Paria
(il soprannome è già un destino: verosimilmente il più semplice,
il piú sprovveduto del gruppo, l'unico partito volontario per la guerra,
da cui non tornerà, cancellato, svanito nel nulla): Ma
credo che la ragione principale del mio stato, sia il continuo crudele, insistente
penoso pensiero per la sorte di Paria. Ogni volta che dico questo nome devo mordermi
le labbra o fissare forte qualcosa per inghiottire le lacrime... (I,
154-55). Di
Paria la notizia ufficiale è che è prigioniero. La sua immagine,
là, in Russia, distaccato dalla sua vita, come in un altro mondo dove solo
si soffra e si rimpianga, mi dà un'angoscia continua. (I,
180). Nessun
dubbio sull'autenticità dei sentimenti di Pasolini, forse solo meno “continui”
e “insistenti” di quel che pretende (l'enfatizzazione è, d'altronde, un
elemento costitutivo dello stile pasoliniano). Da notare invece che l'angoscia
per Paria è rigorosamente “privata”, non sarebbe diversa se Paria fosse
affetto da una grave malattia. Che il destino di Paria fosse comune a quello di
milioni di uomini travolti dalla guerra, vittime della Storia: ecco una dimensione
che a Pasolini risulterà sempre estranea. Mentre la morbosa sensibilità
per l'integrità fisica minacciata è un tratto peculiare e precocissimo
di Pasolini. La sua ansia per la malattia della madre di Farolfi (I, 7) appare
del tutto insolita in un ragazzo di diciotto anni. Non
può quindi non destare una forte sorpresa l'improvvisa scoperta della
politica subito dopo il 25 luglio '43, e il primo a esserne stupito è proprio
Pasolini: Caro
Fabio Luca [Cavazza], non
avrei mai immaginato che un giorno mi sarei messo a scriverti cosí
seriamente. E tu rispondimi immediatamente, perché l'ansia di sapere notizie
di te, di tutti gli amici, mi sta consumando. [...] Sappimi
dire qualcosa anche sull'ambiente politico bolognese: che partito era - insomma
- quello di Morandi, Rinaldi, Arcangeli... In
questi ultimi tempi mi ero dato in modo assoluto alla politica, con idee
molto decise e rivoluzionarie, ma gli eventi hanno preceduto le nostre intenzioni,
colmandoci prima di inenarrabile gioia, e poi lasciandoci come vuoti e inutili.
Vogliamo - io e il mio amico di qui, Bortotto - lavorare, agire, esser con qualcuno.
[...] Scrivimi
subito, caro Luca, Viva la libertà. Ti abbraccio. (I,
181). Tuttavia
la sorpresa è piú per l'entità e la qualità del risveglio
politico che per la sua presenza. Sintomi di crisi sono rilevabili da alcune lettere
dei mesi precedenti (tra aprile e giugno). Il fervore letterario e la gioia di
vivere sono interrotti con aumentata frequenza da momenti di inquietudine, scontento,
paura non interamente addebitabili alle classiche crisi di passaggio tra adolescenza
e virilità. In ognuna di tre lettere consecutive a Farolfi ricorre l'espressione
“non posso rassegnarmi” (I, 169, 172, 178): essa si riferisce propria-mente
al timore di esser giunto, ventunenne, alla propria massima crescita umana e poetica,
fissato in uno stampo definitivo, e di essere entrato nel cono d'ombra, avendo
davanti a sé solo ripetizione e decadenza (“Il futuro non c'è piú”,
I, 154). C'è anche l'inevitabile contraccolpo della felicità
procuratagli dalla favorevole accoglienza a Poesie a Casarsa (Contini
anzitutto, “la prima e la più grande mia gioia di scrittore”, poi anche
Gatto e Caproni). E ancora, il senso di colpa delle prime esperienze sessuali
complete. Ma dietro c'è anche la guerra che si avvicina, la rovina incombente
e ormai ineludibile, e il conseguente sentimento che i tempi sono maturi per nuovi
doveri. La
vita si fa sempre più difficile, e scrivere è un peso enorme: sono
stanco dei miei pensieri che da mille anni nascono uno dall'altro e sono soltanto
miei. Vorrei gettarmi sugli altri, trasfigurarmi, vivere per loro. (I,
167) . Ogni
immagine di questa terra, ogni volto umano, ogni battere di campane, mi viene
gettato contro il cuore ferendomi con un dolore quasi fisico. Non ho un momento
di calma perché vivo sempre gettato nel futuro: se bevo un bicchiere
di vino, e rido forte con gli amici, mi vedo bere, e mi sento
gridare, con disperazione immensa e accorata, con un rimpianto prematuro di quanto
faccio e godo, una coscienza continuamente viva e dolorosa del tempo. [...]
la mia esistenza è un continuo brivido, un rimorso, o nostalgia. Ho
passato perfino un'ora intera a guardarmi le mani, perché sono stato preso
dallo scrupolo che in punto di morte l'uomo non sa che mani ha avuto: si è
sempre rassegnato ad averle, si è troppo abituato ad esse; non pensa che
tra le infinite mani, quelle sono le sue. (I,
170). Ieri
ho visto la fontana di Venchiaredo dove il corpo giovane di Ippolito Nievo ha
schiacciato l'erba e ha respirato; allora lui era giovane, lui rideva, lui non
pensava neanche lontanamente – e non sarebbe stato ridicolo che l'avesse pensato?
– che anche per lui avrebbe dovuto giungere la morte. E infatti è giunta.
Io non posso vivere perché non riesco e non riuscirò ad abituarmi
a pensare che anche per me c'è un tempo, una morte. (I,
173). Ogni
gesto che fanno coloro che sono intorno a me è una fitta al cuore: chiede
una collocazione nuova nella mia immagine del mondo. Ogni campana a morte mi fa
soffrire come se fosse morto un mio caro, tanto rispetto e amore porto per la
vita, che vedo anche quella di uno sconosciuto, direttamente, come se mi fosse
stata con concretezza vicina. Lo vedo fanciullo e giovanetto, e nei giorni di
festa, cercare i divertimenti come se quel momento fosse eterno e il più
importante fra tutti i momenti: e ora è invecchiato e morto. La guerra
non mi è mai sembrata tanto schifosamente orribile come ora: ma non si
è mai pensato cos'è una vita umana? (I,
179). “La
guerra”: è forse la prima volta che nell'epistolario viene esplicitamente
nominata: è il 19 giugno '43. Un maggior impegno civile potrebbe essere
rintracciato negli articoli pubblicati sul “Setaccio” tra dicembre '42 e marzo
'43. Ma è un'impressione superficiale. Lo schema giornalistico e l'ufficialità
della sede (la rivistina è un'emanazione della Gil bolognese) condizionano
la sostanza del discorso, sottraendogli sincerità a favore di formule generiche,
e allentano quella tensione, che invece è sempre fortissima nel colloquio
epistolare con gli amici (quegli articoli sono semmai un ulteriore esempio dell'a-fascismo
di Pasolini, della sua indipendenza, piuttosto che di un nuovo atteggiamento etico-politico).
La reale pressione della Storia, seppure in-direttamente, è meglio avvertibile
nelle angosce private, proprio nella esasperazione narcisistica con cui si manifestano
in quest'ultimo periodo. Quanto alle scelte pratiche, giova riportare la
testimonianza di Cesare Bortotto (dalla Cronologia , I, LII ): Gli
eventi della guerra che precipitava.(erano sbarcati gli alleati in Sicilia) maturarono
in Pier Paolo l'idea prepotente della “Piccola Patria” del Friuli, quale si doveva
salvare idealmente dal crollo dello stato fascista. Il
testo del proclama da inviare “Ai podestà e ai parroci del Friuli”, lo
scrisse in poche ore mentre eravamo seduti nel boschetto delle Aguzze, in
un nostro angolo riparato. La macchina da scrivere per battere le trecento copie
era quella della Casa del Fascio. Il lavoro appena avviato, venne interrotto il
mattino del 26 luglio quando Pier Paolo, che aveva ascoltato la radio, giubilante
venne a comunicarmi la caduta del fascismo. L'idea
separatista — che ha e avrà sempre fortissime radici in Pasolini —
viene meno di fronte alla svolta nazionale. Straordinariamente eloquente
è la lettera a Serra dell'agosto '43: L'Italia
ne avrà bisogno, eccome, di sangue: ma è la mia terra che deve essere
bagnata. Ha bisogno di una dilagazione di sangue - o di lacrime - che distrugga
tutto un secolo di errori monarchici liberali, fascisti e neoliberali. L'Italia
ha bisogno di rifarsi completamente, ab imo, e per questo ha bisogno, ma estremo,
di noi, che nella spaventosa ineducazione di tutta la gioventù ex-fascista,
siamo una minoranza discretamente preparata. E io, in questo, ti accuso, (o devo
invece, come spero, accusare i lunghi mesi di rincretinimento militare?),
perché, nella tua lettera, non un accenno di sapore politico, non un commento
di dolore o di gioia per l'avvento della libertà. E pensare che per me
invece, anche per la mia singolare ed intimissima esperienza poetica, questi
giorni sono di una portata immensa. La
libertà è un nuovo orizzonte, che fantasticavo, desideravo si, ma
che ora, nella sua acerbissima attuazione, rivela aspetti cosí impensati
e commoventi, che io mi sento come ridivenuto fanciullo. Ho sentito in me
qualcosa di nuovo sorgere e affermarsi, con una imprevista importanza: l'uomo
politico che il fascismo aveva abusivamente soffocato, senza che io non ne avessi
la coscienza. Ora
la vita mi sembra piú lunga: la retorica giovinezza fascista
non è infatti ancora che uno stato di inesperienza e perciò tutti
“ i noi giovani ” degli ex-fogli del Guf si trovano, giustamente, con
tutta una nuova educazione da rifare. E la Storia sembra piú vicina,
nei suoi fatti di mezzo secolo fa, che noi conoscevamo con tanta incuranza e provvisorietà.
Mi credi, Luciano? Sento
nelle narici un odore fresco di morti; i cimiteri del Rinascimento hanno
la terra appena smossa e recenti le tombe. E noi abbiamo una vera missione, in
questa spaventosa miseria italiana,una missione non di potenza o di ricchezza,
ma di educazione, di civiltà . (I,
184-85). Di
questo documento, — che è poi l'unica pagina di con-tenuto specificamente
politico dell'intero epistolario, e l'unica in cui la politica sia sentita
in una prospettiva vitale — è da apprezzare la grande sicurezza e la capacità
di superare per mera energia intellettuale, slancio etico ma soprattutto per forza
espressiva e poetica, le enormi lacune di una formazione politica assolutamente
improvvisata. Ma
è caratteristico che tra le due lettere “politiche” se ne collochi una
di tutt'altro genere. E diretta a Cavazza che aveva prontamente risposto alla
sopracitata di Pasolini: Caro
Luca, della
tua lunga lettera una cosa sola mi è rimasta in mente, ingrandendosi
sempre più, con il seguirsi dei pensieri: la malattia di Ornella. Io spero
che si tratti del solito allarmismo caratteristico di Fabio, perché non
so conformarmi ad un avvenimento cosí estraneo e feroce. Ti
ricordi quando abbiamo visto Ornella a Bologna? Com'era densa di vita! Dammi presto
notizie di lei e di tutta la famiglia: dimmi dov'è e cosa fa Silvana. Scrivimi
presto, perché spero tu immagini la mia ansia. (I,
183). L'ansia
fisica per i piú prossimi (amici, parenti), il suo morboso terrore
per la malattia e la morte, sentite come assurde, totalmente “estranee” e
unicamente nella loro “ferocia ”, hanno il potere di annullare ogni altro
problema. La “lunga lettera” di Cavazza era verosimilmente dedicata in gran parte
a fornire le informazioni di carattere politico bramate da Pasolini. Ma, di colpo,
queste sembrano non interessargli più, cancellate da quella “sola cosa”:
la malattia di Ornella. L'8
settembre lo sorprende a Livorno, richiamato da appena una settimana. Il
suo reparto si arrende ai tedeschi senza opporre resistenza, ma Pasolini si sottrae
alla cattura e raggiunge fortunosamente Casarsa. Si apre il periodo peggiore,
con la guerra in casa, i bombardamenti aerei, l'occupazione tedesca, il pericolo
costante di essere deportato o ucciso. Scriverà nei “Quaderni rossi”: “Vivevo
in un continuo rischio di perdere la vita; per vari mesi anzi parve certo
che uscire vivi da quell'inferno non era che un'assurda speranza. Questo
mi dava un continuo senso del mio cadavere ... ” (Cronologia, I, L xx
I x- L xxx ). Le comunicazioni epistolari di quel periodo sono scarsissime,
con brevi accenni inequivocabili: “Si passa da una fifa all'altra” (I, 192); “Paura
di lasciarci la pelle...” (I, 196). Il documento più significativo
è la lettera a Serra del febbraio-marzo 1944: Non
so se ci rivedremo, tutto puzza di morte, di fine, di fucilazione. [...]
La guerra
puzza di merda. Gli uomini sono cosí stomacati che si metterebbero a ridere,
e direbbero “non vale!” Ma aspettano, non so che cosa: che si stacchi il marcio.
Marcio ce n'è poco, ma puzza come la merda. E io me ne vado a spasso per
i campi vuoti, con qualche primoluccia qua e là, qualche lista di verde
lancinante, contro le nevi del monte Cavallo sospeso con le sue creste bianche
nell'aria azzurra. Solo, vado per i campi, e cammino cammino, dentro il Friuli
vuoto e infinito. Tutto puzza di spari, tutto fa nausea, se si pensa che su questa
terra cacano quei tali [i tedeschi]. Vorrei sputare sopra la terra, questa
cretina, che continua a metter fuori erbucce verdi e fiori gialli e celesti, e
gemme suglialni; vorrei sputare sul monte Rest, lontanissimo, in fondo al Friuli,
sul mare Adriatico, invisibile dietro le Basse; e anche sulle facce di questi
casarsesi, di questi italiani, di questi cristiani. Tutto puzza di fucilate e
di piedi. Che cosa mi lega a questa terra? Non aver paura, Luciano, che sono abbastanza
puzzolente anch'io per esser capace di non sentirmi legato a tutta questa merda.
Domani (fra sessanta anni; ci tengo) avremo una buca: non sa rebbe una novità
se non avessi visto con QUESTI occhi calarci dentro una morta, di cui sapevo
che era stata viva [la nonna materna]; e allora in quel corpo che calava
giù, ho misurato tutta questa umanità merdosa; viene qualcuno (la
morte) a turarti il naso, e tu non senti più niente. Nel mio paese nasce
primavera (1,190-91).
Dell'entusiasmo
politico esploso dopo il 25 luglio non è rimasto nulla. Il suo impegno
sociale è assorbito dall'apertura e dalle cure che dedica a una scuoletta
privata per i ragazzi della zona. “Tedeschi o non Tedeschi, morte o non morte,
speriamo di trovarci questa primavera sugli alberi del tuo orto a mangiar ciliege
con il mondo in pace” (ottobre '44, I, 196). Da ogni forma di resistenza
attiva lo separa un'invincibile ripugnanza. Confesserà, con ironia, vent'anni
dopo: “Poi ci fu la Resistenza | e io | lottai con le armi della poesia” ( Una
disperata vitalità ). El
poeta prepara una fiama, Pian
pianin... e el va via pian pianin, Sue
no xé che le prime falìve, E
la fiama lo spaventarà. Ci
sono altre tre versioni della quartina di Noventa, dove varia solo il verso finale:
“El va via... e nissùn savarà ”; “E po' forse l'amor vignarà”;
“E po' i santi e l'eroe vignarà”. La
fiammella accesa da Pier Paolo, che subito se ne ritrae, è divampata generosamente
(l'amore) nel fratello Guido, appena diciottenne, che dopo aver compiuto rischiosissime
azioni di propaganda, sabotaggio, trafugamento di armi, subendo anche un arresto
e bastonature, si unisce alla lotta armata. Al poeta (spaventato) succede
l'eroe. Ma
il partigiano Guido continuerà a nutrire per Pier Paolo una quasi mitica
ammirazione. Nelle poche lettere scritte alla madre, i costanti accenni e appelli
al fratello stringono il cuore: Il
mio pensiero ritorna per una strana fissazione a Pier Paolo; anche nei giorni
passati ho pensato a lui intensamente... che cosa fa? Perché non mi scrive
mai? Alle volte mi ossessiona l'idea che lui pensi a me con una certa amara ironia:
ne rabbrividisco... [...] Ho ricevuto il libro: ne sono contentissimo, mandane
ancora e soprattutto, se puoi, qualche scritto di Pier Paolo... (
Cronologia, I, LXII ). Ho
ricevuto la lettera di Pier Paolo. Mi ha messo una grande pace nell'anima; gliene
sono davvero molto grato. La poesia ha interpretato straordinariamente il
mio stato d'animo di certe giornate... [...] Prega Pier Paolo di scrivermi
ancora, quando ha tempo, mi dà una grande gioia. (
Ibid ., LXIII ). Aspetto
con impazienza uno scritto di Pier Paolo... Non dimenticarti in ogni tua
lettera di trascrivermi qualche sua poesia. (
Ibid ., L xxv I ). Il
27 novembre '44 scrive a Pier Paolo una lunga e circostanziata lettera-memoriale
sulla drammatica situazione della sua formazione partigiana (la Osoppo, a prevalenza
azionista), che stava subendo la massiccia offensiva tedesca,ma doveva anche difendersi
dal tentativo di assorbimento da parte della divisione Garibaldi (comunisti),
appoggiata dall'esercito partigiano sloveno. Come si sa, il contrasto politico
precipiterà fino a concludersi di lì a poco (12 febbraio '45)
con l'uccisione di Guido e altri che si erano rifiutati di cedere alle pressioni
comuniste. In questo documento che acquista valore di testamento, di cui Pier
Paolo si trova senza volerlo a essere il depositario, Guido invoca ripetutamente
l'aiuto del fratello: siamo
convinti che tu, con qualche articolo, ci puoi essere di grande aiuto... [...]
Abbiamo
fondato fra gli altri un nuovo giornale: “Quelli del Tricolore”, dovresti scrivere
qualche articolo che fa al caso nostro [...] io sono convinto che tu ci puoi essere
di molto aiuto... con qualche poesia magari, in italiano o friulano (con traduzione),
qualche canzone su arie note, pure in italiano e friulano ecc. ecc. Negli articoli
cerca appena di sfiorare gli argomenti suaccennati: devi essere un italiano che
parla agli italiani. [...]
Naturalmente
tutta questa tirata ti ha annoiato moltissimo ma è bene che tu sappia com'è
la situazione, anche perché ho bisogno se non altro dei tuoi consigli.
Comprendo
perfettamente che molto probabilmente non avrai né tempo né voglia
di compilare gli articoli su accennati, comunque se hai intenzione di farli:
falli al pili presto e dalli a Berto in busta chiusa... Se
non altro almeno scrivi a me qualche riga... (
Ibid ., LXIII-LXIX ). Oltre
il bisogno di confidarsi, di avere conforto nella critica situazione in cui si
trova, oltre l'affetto e l'ammirazione, colpisce l'ostinata fiducia di Guido nella
figura dell'intellettuale impersonata dal fratello. L'eroe continua ad aver
bisogno del poeta, convinto del potere decisivo della parola, della sua necessaria
funzione politica. E questo, pur dando per scontata la renitenza di Pier Paolo:
“Naturalmente tutta questa tirata ti ha annoiato moltissimo”, “non avrai
né tempo né voglia... ”; e ancor più realisticamente nell'attacco:
“quanto ti scriverò in questa lettera ti stupirà moltissimo:
"Ma io non c'entro!" dirai alla fine facendo uno sconsolato gesto
con le mani... ” Sappiamo
che, mentre si consumava la tragedia del fratello e di un intero popolo,
Pasolini si difendeva dalla realtà angosciosa della guerra sforzandosi
disperatamente di negarla (fino all'assurdo: “Non vale! ”), sognava di mangiare
le ciliege a primavera “con il mondo in pace”, o come confesserà impietosamente
due anni dopo nei “Quaderni rossi”: “Il mio reale (unico) sentimento era
il dolore di aver perduto l'occasione di incontrare Bruno” ( Cronologia ,
I, L xx I - L xx II ). Ma forse lo sapeva anche Guido. Eppure non cessava di reclamarne
la partecipazione, quasi nel tentativo di vincerne lo scetticismo (l'“ amara ironia”)
e di volerlo associare a tutti i costi alla lotta nella quale lui, Guido,
era impegnato fino in fondo e a cui stava per sacrificare la vita. Sarebbe
comodo giudicare infantile l'atteggiamento di Guido, irrealistiche le sue
speranze; o vedervi semplicemente o soprattutto una manifestazione del suo complesso
di inferiorità verso il fratello maggiore, segnato dal dono della
poesia nonché privilegiato nell'amore della madre. Nella sua ingenuità
egli esprime un'esigenza tanto semplice quanto pura e alta: la parola, che
nasce dal bisogno di verità e di amore, non deve abbandonare mai, avvilendolo
e impoverendolo, l'impegno pratico che ha originato. Capire, esprimere,
agire non devono essere funzioni separate, ma procedere insieme verso la
verità e il bene. La
lunga lettere in cui Pasolini rievoca le circostanze della morte di Guido (I,
197-201) è la piú commovente dell'epistolario non solo per
il contenuto straziante ma per la disarmata semplicità dell'espressione.
Destinatario è Serra, e con lui gli amici di Bologna, vale a dire il gruppo
di giovani intellettuali dalle cui idee e sentimenti è stata ispirata la
scelta di Guido (“ E quanto è stato migliore di tutti noi... Non
è la rassegnazione, la saggezza ciò “che bisogna dare a quel povero
ragazzo che se ne sta laggiú chino in quel silenzio terribile”. Pasolini
tocca il punto cruciale del rapporto che legava Guido a lui (“ sacrificandosi
pel suo fratello maggiore, forse a cui voleva troppo bene e a cui credeva
troppo”) e non nasconde un certo rimorso: Ora
tutto questo amore che quel ragazzo aveva per me e i miei amici, tutta quella
stima per noi e per i nostri sentimenti (per i quali è morto) mi tormentano
sempre; vorrei poter contraccambiarlo in qualche modo. Ma
sono debiti destinati a restare sempre insoluti. Ci sarà negli anni
immediatamente successivi l'impegno militante di Pasolini nella sezione Pci
di San Giovanni, e poi l'impegno generico. La vicenda del fratello Guido
non influirà su Pier Paolo più di quanto altre simili vicende non
abbiano influito su tanti altri intellettuali. Perché Pasolini avrebbe
dovuto fare eccezione? La classe intellettuale, complessivamente, ha dato alla
Resistenza un contributo mediocre, molto inferiore a quanto il suo grado di consapevolezza
e responsabilità avrebbe comportato, per non parlare della libertà
di scelta derivante dal privilegio economico. Il maggior peso della lotta
armata fu sostenuto dalla classe operaia, che ne pagò il prezzo più
alto. Lo stesso rapporto diseguale e di separatezza si è ripetuto
nelle lotte sociali del dopoguerra. Comunque, tornando ai versi di Noventa,
già suscitare la fiammella è destino dei poeti migliori, ché
i più neanche di questo sono capaci. E l'opera di Pasolini non ne ha accese
poche.
(Brano
tratto da Dalla parte del torto, Einaudi, Torino, 1989.)
Piergiorgio
Bellocchio è nato nel 1931 a Piacenza, dove vive. Nel '62 ha fondato
la rivista "Quaderni piacentini" e l'ha diretta fino alla chiusura,
nel 1984. Tre suoi racconti sono stati pubblicati nel volume I piacevoli servi
(Mondadori 1966). Ha collaborato con l'editore Garzanti scrivendo voci per
l'Enciclopedia della letteratura (1972) e per l'Enciclopedia Europea (1976)
e prefazioni a Stendhal, Dickens e Casanova. Dal '77 all'80 ha diretto a Milano
la piccola casa editrice Gulliver. Dall'85 pubblica, con Alfonso Berardinelli,
la rivista "Diario", da cui sono tratti i testi che compongono questo
volume.
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