GRUPPO 63
Nanni Ballestrini
INTRODUZIONE
A UN'ANTOLOGIA: Che
cosa ci si aspetta dagli scrittori? Che nelle loro finzioni introducano dosi più
o meno cospicue di verità, lampi di conoscenza sui mondi reali o immaginabili.
La lingua della scrittura letteraria non è mai innocente e “naturale”.
E' invece storicamente determinata e sempre in lotta con se stessa per non ripetere
il già fatto. In una certa epoca si può, con qualche profitto, variare
e arricchire; in altre epoche, quando si avverte l'esaurimento irrimediabile dei
correnti modelli linguistici e formali, si è spinti, se vogliamo dallo
spirito dei tempi, a ricercare il nuovo, a escogitare inediti modi di raccontare,
di fare poesia o teatro. Ciò che chiamiamo la Tradizione è la conservazione
delle novità che si sono succedute nel corso dei tempi: “Literature is
news that STAYS news” (Ezra Pound in ABC of Reading ).
Gli scrittori italiani che quasi loro malgrado hanno dovuto inventare il Gruppo
63 appartengono appunto a uno di tali periodi. La passione critica del nuovo agitava
il karma occidentale di letterati, artisti e musicisti, dall'Austria al Brasile.
Nei primi anni Cinquanta l'avanguardia era generalmente ritenuta una faccenda
remota, ormai superata. Nella nostra temperie beatamente provinciale, qualcuno
si accorse che la Tradizione moderna era segnata dalle avanguardie, e come tutte
le tradizioni anche questa andava rivisitata. Le cose che passano, anche restano.
Fenomeno dalle molte facce, la neoavanguardia fu anzitutto una rivisitazione
critica della modernità, un ripercorrerla senza pregiudizio e con
molta passione di capire. Capire, poniamo, perché si provassero emozioni
sottilmente o violentemente diverse nell'ascoltare i concerti per violino e orchestra
di Mendelsohn e di Bartòk, nel guardare un Caravaggio e un collage di Kurt
Schwitters, nel leggere Leopardi e Samuel Beckett. Tutto ciò accadeva,
guarda caso, alle soglie della postmodernità. In qualche modo, alla luce
critica di quella rivisitazione, la modernità si mostrava già declinante,
e le esperienze dell'arte e della letteratura d'avanguardia, anziché superate,
sembravano le più vitali e promettenti. Non consentivano nostalgie o facili
epigonismi, incitavano i poeti, gli “espressori” li aveva chiamati Carlo Emilio
Gadda in Viaggi la morte , a non arrendersi all'evidenza del declino.
Bisogna intendersi su questo punto.
L'avanguardia s'infila nelle fessure e fratture della storia rendendole bellamente
o sgradevolmente visibili o folgoranti. Non ha alcun rilievo che l'autore partecipi
a un movimento o sia un perfetto individualista più o meno socievole. Essa
si definisce dalla tendenza, dal linguaggio, dalla visione caratterizzanti certe
opere che sono state o sono contro la comoda e alienante gestione della Continuità.
L'avanguardia è nomade e polimorfa. La ritrovi in una teoria estetica,
la Lettera del veggente di Arthur Rimbaud e i Manifesti futuristi, o
in un romanzo epico alla rovescia come Ulisse di James Joyce. La musa
esigente dell'avanguardia è l'assillo bodleriano di trovare il nuovo
, è l'ambizione di Rimbaud alle invenzioni d'ignoto . Ed
è anche il gaio spirito d'irrisione del patafisico Jarry, è la leggerezza
maliziosa e indolore del primo Palazzeschi. Il nuovo a cui aspira l'avanguardia
non è la novità di stagione. Contrariamente a quanto credono molti,
essa mira all'assolutezza del gesto e del risultato: non è avanguardia
di nessuno, ma soltanto di se stessa.
“Gruppo 63” è una sigla di comodo di cui spiegheremo un po' più
avanti l'origine. Di fatto dietro a questa sigla c'era un movimento spontaneo
suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose
letterarie (1): opere magari anche decorose ma per lo più prive di vitalità
e di rilievo stilistico innescavano prolungati dibattiti critici. Un blando romanzo
tradizionale come Metello di Pratolini, uscito nel 1955, fornì
agli addetti ai lavori l'occasione di eccitate analisi e discussioni che divamparono
per mesi e mesi. Furono l'ultima fiammata del neorealismo in letteratura, fioca
eco populista della grande stagione cinematografica dei Rossellini e dei De Sica.
Mentre l'Italia si andava impetuosamente
trasformando da paese agricolo a paese industriale, i suoi scrittori facevano
una gran fatica a entrare nella modernità. Bisogna pur dire che da parte
loro proveniva qualche risposta alla nuova situazione. Vittorini (soprattutto
con la rivista “Menabò”), Ottieri e Volponi, per esempio, si ponevano il
problema del rapporto tra industria e letteratura, ma le loro opere narrative
spesso riproponevano personaggi contadini in vesti operaie, privi di una propria
connotazione linguistica. Altri tentavano di interpretare i drammi esistenziali
dei nuovi ceti emergenti: è il caso di Cassola e soprattutto di Bassani
( Gli occhiali d'oro, Il giardino dei Finzi Contini ), che infatti ottiene
un notevole successo di pubblico negli anni del “miracolo economico”. Ma anche
questa fase di trasformazione della società italiana è meglio rappresentata
dal cinema (Antonioni e Fellini) che non dalla narrativa.
Un altro esempio clamoroso della abituale e ahimé rituale distorsione del
giudizio critico, vigente in quegli anni, è l'accoglienza quasi concordemente
euforica ricevuta dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, un buon romanzo
tradizionale, letteratissimo, che tra l'altro riecheggia tale e quale (e la critica
non mostrò di accorgersene) la morale cinica del principe Consalvo di Francalanza
nei Viceré di De Roberto. Si ricordi lo scioglimento del romanzo,
il dialogo tra il giovane principe, eletto deputato nel 1882, con la vecchia zia
Donna Ferdinanda, inguaribile borbonica, costretta a tacere dalla foga oratoria
del nipote. Il suo abbondante eloquio si può così riassumere: Vostra
Eccellenza si rassicuri, tutto è cambiato dai tempi feudali, ma tutto resterà
nella sostanza come prima. “Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gli interessi
della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l'ha travolta…
Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? Il nostro dovere, invece
di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…”
Un punto dolente della vita letteraria di quegli anni era proprio lo striminzito
orizzonte critico dominante che non solo trascurava opere capitali della Tradizione
recente, ma escludeva ogni esigenza di rinnovamento e i problemi che esso comportava:
bisognava ripensare la natura dei linguaggi che attraversano la scrittura, quindi
le strutture formali che qualificano il testo, i rapporti con una realtà
complessa e lacerata, il ruolo che i mezzi di comunicazione assumevano in quella
che di lì a poco si sarebbe chiamata “società dello spettacolo”,
la posizione di sfida calcolata dello scrittore a convenzioni di stile e di comportamento
ormai usurate. Dalla fine degli anni
50 il concetto hegelo-marxiano di alienazione , rinvedito da T.W.Adorno,
si era diffuso nel mondo intellettuale quasi come un'ossessione. Tanto che a scopo
apotropaico Umberto Eco l'aveva ridotto a una canzoncina (sul tema allora in voga
di Arrivederci ) che cantavamo allegramente nei momenti di distensione
del convegno palermitano del 1963: Alienaziooone
è rinunciare al problema
ed arrendersi solo al sistema non possedersi più
ma solo attendere … L'industria
ti foggia il destino a poco a poco tu credi di essere
libero ma è solo un gioco… Alienazione
è rinunciare a se stesso è un processo
di perdizione… Forse
rivoluzione può liberaaarti… Ma
se la tecnica impera la libertà è una chimera.
Non ti rimane che dire: alieenaaazione.
Allora, pur non sentendoci personalmente troppo alienati, sentivamo però
davvero incombere l'alienazione nelle forme della vita quotidiana, nonché
sull'uso letterario della lingua, la quale d'altronde rispecchia tutte le alienazioni;
ne derivava il proposito di usarla quanto possibile contro se stessa .
Si potrebbe affermare che in questo disegno agiva una rilevata orma teorica segnata
da Luciano Anceschi nel 1936 in Autonomia ed eteronomia dell'arte .
Uomo metodicamente inquieto, di sottilissima
intelligenza estetica e speculativa, Anceschi impersonava, sono le sue stesse
parole, “la difficilissima gioia della ricerca”. Quella sua prima opera era una
fine ricognizione delle poetiche moderne, dal preromanticismo al simbolismo; l'antitesti
antinomia/eteronomia vi appariva come una polarità immanente alla vita
dell'arte e della letteratura e la principale ragione della loro instabilità.
Le arti e la letteratura (la poesia soprattutto) tentano di unificare una quantità
di elementi esterni, ai quali possono anche soccombere; e d'altra parte cercano
di imporre o sostituire alla realtà dell'esperienza i propri impulsi formali,
impulsi che possono irrigidirsi e perdere la vitalità concettuale che li
giustifica. Si tratta di vedere da vicino la dialettica storica, sommamente complessa,
la tensione ineliminabile tra i due poli. All'interno di questo infinito confronto,
Anceschi individua la ricca fenomenologia delle poetiche artistiche e letterarie,
la loro teoreticità sempre nuova dentro l' orizzonte prammatico che
le caratterizza. Fin dai suoi esordi Anceschi è dunque attratto dal pensiero
della complessità. E' l'uomo della tradizione e insieme è l'uomo
dei mutamenti e delle novità, sempre intento a identificare le tracce originarie
delle “situazioni”: vedi i suoi studi sul barocco, l'ermetismo, l'astrattismo,
Eliot e Pound. Si spiega quindi come
vent'anni dopo Autonomia ed eteronomia dell'arte , cogliendo tempestivamente
i segni del mutamento in corso, abbia fondato la rivista “il Verri”. Osservatorio
critico e laboratorio di non pochi autori che ben presto sarebbero diventati noti,
la rivista coltivava una stimolante varietà di interessi, e proponeva una
maniera concettuale molto avvincente di collegare i fenomeni e i metodi per leggerli.
Centrale di idee, esplorazioni e “umori”, “il Verri” prestò attenzione
particolare ad autori e movimenti culturali degli altri paesi, e favorì
in Italia la rinascita dell'avanguardia, ne sostenne lo slancio e l'allevò
nelle sue pagine. Nel 1961, uscita nelle edizioni della rivista l'antologia I
novissimi , di cui non aveva esitato a accettare l'impostazione dirompente,
Anceschi affermò quasi sollevato: “Per quel che riguarda la poesia, si
può dire con qualche fondamento che il dopoguerra finisce solo ora”. Gli
sembrò una svolta, che risarciva una lunga insoddisfazione. L'introduzione
di Giuliani si concludeva con una scommessa: Nessuna
profezia è contenuta nel sottotitolo del frontespizio: poesie per gli anni
'60. Comincia appena ora un altro periodo che vorremmo augurarci meno triste e
faticoso di quello che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni. Ma assumiamo pure
che tristezza e fatica continuino: è difficile soffocare con le intimidazioni
critiche il bisogno di parlare in versi . Io credo, senza escludere che
altri abbiano fatto o stiano facendo del loro meglio, credo che le poesie qui
raccolte aprano più di uno spiraglio, e che sia quasi impossibile ignorare
le esperenze e la carica vitale che noi, ciascuno a suo modo, abbiamo tentato
di mettere nel linguaggio. C'è qui, voglio dire, qualche risultato tangibile
e un'offerta a pensare e a dire . Ogni volta che in Italia
qualcuno vuole essere contemporaneo, deve scontrarsi con l'immaturità sociale,
col provincialismo politico, con le improvvisazioni e inquietudini che si pretendono
soluzioni, con la perpetua commistione di anarchismo e legittimismo. Non si può
supporre che tutto questo non sia rappresentato dal nostro linguaggio; ma si deve
chiedere qualcosa di più . In tale senso, per avere chiesto alla
poesia un possibile accrescimento di vitalità, gli autori qui presenti
possono presumere di fornire una indicazione, una proposta valevole per tutti.
(2)
Oltre a furibonde polemiche, la proposta
suscitò non poche adesioni, anche in ambiti diversi dalla letteratura come
la pittura e la musica. Intorno al “Verri” e sotto la propulsione dei Novissimi
crebbe un movimento di stimoli e consonanze che sembrava aleggiassero già
nell'aria. Fu un compositore, Luigi Nono, a suggerirci la formula impiegata dagli
scrittori tedeschi per gli incontri annuali del Gruppo 47. Nella Germania del
dopoguerra i giovani scrittori si erano trovati davanti al compito di ricostruire
una tradizione letteraria spezzata dal nazismo e dalla guerra, e il Gruppo 47
era stato lo strumento di lavoro messo in piedi a tale scopo. Strumento semplice,
agile e facile da allestire periodicamente: un seminario annuale in cui gli scrittori
confrontavano i loro lavori in corso, leggendoli e criticandoli reciprocamente,
non per riconoscersi su orientamenti e poetiche comuni, ma per rifondare in tempi
brevi la loro letteratura. Da Günter Grass a Ingeborg Bachmann, da Enzensberger
a Peter Handke, per molti anni gli scrittori tedeschi si misurarono in questo
laboratorio d'emergenza. Il modello
tedesco ci sembrò molto interessante perchè rispondeva a un nostro
bisogno costante di confrontarci e di discutere. Certo i connotati storici della
nostra situazione erano diversi da quelli in cui era nato il Gruppo 47; eppure,
nella sostanza, le nostre intenzioni erano abbastanza consimili. I giovani scrittori
tedeschi del dopoguerra erano partiti da una situazione di rovine e di deserto
culturale, non sentivano dietro di sé una tradizione recente da superare,
una generazione letteraria con cui fare i conti. L'intera cultura tedesca era
stata annientata dal nazismo o dispersa nell'esilio. Da noi, invece, il fascismo
aveva più blandito e addomesticato che non perseguitato gli scrittori;
i quali da parte loro si erano adattati a fare tutt'al più un pochettino
di fronda. Transitati senza grandi scosse dalla guerra al dopoguerra, dalla dittatura
alla democrazia, nel mezzo del boom economico esploso alla fine degli anni Cinquanta,
anche noi sentivamo di dover ricominciare daccapo; solo che, in luogo del deserto,
avevamo di fronte un sistema culturale antiquato, asfittico e potente che occupava
pressoché tutti gli spazi della comunicazione, ostacolando ogni tentativo
di rinnovamento. Gli stessi studiosi e i letterati marxisti ormai dominanti nel
sistema erano, tranne pochi casi (per esempio Galvano Della Volpe), tutti abbondantemente
crociani. Non è un caso che l'opinione allora prevalente riguardo alle
avanguardie fosse, né più né meno, che le avanguardie erano
sepolte e superate. E d'altra parte il tema dell' impegno dello scrittore
ingombrava ancora i percorsi del discorso letterario. In proposito era diffusa
una carenza teorica di cui si era reso conto anche Elio Vittorini, in una lettera
del 20 dicembre 1963, resa nota solo di recente, a Italo Calvino: In
questi ultimi anni (tre ultimi, quattro ultimi) noi ci siamo persuasi, a ogni
buon conto, che anche l'impegno storico-sociale, lo storicismo, l'ideologismo
eccetera, eccetera, cui ci eravamo applicati da poco prima della guerra non servono
minimamente a rompere e modificare la condizione minorata della letteratura e
anzi radicalizzano il carattere culturalmente subalterno di essa se li assumiamo
(da fuori, e così come sono fuori) entro le nostre invariate strutture
ingenue (…). Certo si è potuto giungere, in questa assunzione ingenua dello
storico-sociale a punti di poesia culturalmente avanzati e significativi, ma l'insistervi
è a poco a poco a poco diventato un disastro, ha prodotto creature ripugnanti
(…). Il guaio non deriva dall'interesse storico-sociale in sé, ma dal modo
fasullo in cui è stato assunto, né può esservi salvezza nel
tornare a assumerlo, se non salviamo le strutture stesse del discorso letterario
dall'ingenuità che le depotenzia e non le rendiamo capaci di elaborare,
a livello con le scienze e le tecniche oggi più avanzate, un
senso anche storico-sociale che risulti strutturalmente suo proprio. (3)
I termini di questo problema, che tanto arrovellava Vittorini, noi li avevamo
già da tempo ribaltati: anzitutto era evidente che non esisteva nessuna
contraddizione di principio tra impegno e avanguardia, e che solo riconoscendo
il primato delle strutture linguistiche era possibile alla letteratura confrontarsi
con la realtà. Nell'introduzione ai Novissimi (1961) si poteva
leggere: Nessuno
di noi vuole dimostrare o limitarsi a denunciare alcunchè: ognuno ha coltivato
senza pietismi la propria capacità di contatto con le forme linguistiche
della realtà. Suppongo sia chiara in noi una vocazione a conoscere, leggibile
in ciò che scriviamo e non presunta in ciò che proclamiamo di voler
scrivere. (…) Tutti noialtri ci siamo fatti un problema di verità, di rinnovamento
strutturale, non di realismo coatto. (…) Se conveniamo che, in quanto “contemporanea”,
la poesia agisce direttamente sulla vitalità del lettore, allora ciò
che conta in primo luogo è la sua vitalità linguistica. (…) E nei
periodi di crisi il modo di fare coincide quasi interamente col significato
. (…) Per noi è pacifico che una posizione errata verso i problemi
del linguaggio non si spiega facilmente con la desolazione della società.
Storicamente, esiste sempre una posizione giusta, anche se questa, proprio perché
“giusta”, possa forse condurre a un destino “sperimentale”. (4)
E Angelo Guglielmi: Ogni
ponte tra parola e cosa è crollato. La lingua in quanto rappresentazione
della realtà è ormai un congegno matto. Tuttavia il riconoscimento
della realtà rimane lo scopo dello scrivere. Ma come potrà effettuarsi?
La lingua che ha fin qui istituito rapporti di rappresentazione con la realtà,
ponendosi nei confronti di questa in posizione frontale, di specchio in cui essa
direttamente si rifletteva, dovrà cambiare punto di vista. E cioè
o trasferirsi nel cuore della realtà, trasformandosi da specchio riflettente
in accurato registratore dei processi, anche i più irrazionali, del formarsi
del reale; oppure, continuando a rimanere all'esterno della realtà, porre
tra se stessa e questa un filtro attraverso il quale le cose, allargandosi in
immagini surreali o allungandosi in forme allucinate, tornino a svelarsi. Questa
è l'operazione essenziale del nuovo sperimentalismo. (5)
Renato Barilli, polemizzando nel 1960 con Calvino a proposito degli intellettuali
italiani: Quando
poi, in questo dopoguerra, essi hanno avvertito la necessità di uscire
dalla lunga clausura e di partecipare, di assumere un pubblico impegno, hanno
preteso riportarsi nel vivo della corrente, di colpo, senza passare attraverso
pazienti mediazioni. Si sono allora precipitati a qualificarsi nel modo che appariva
essere il più radicale e perentorio: si sono qualificati circa la ragion
pratica, la ragione etico-politica, dimenticando del tutto gli altri aspetti dell'orizzonte
culturale: aspetti psicologici, gnoseologici, concezioni del vedere, del percepire,
del sentire, che pure per un artista costituiscono la via principale per integrare
il suo primo nucleo poetico e prendere a partecipare a una cultura. (6)
Fausto Curi: In
quanto avverte se stessa come parte integrante di una metodologia, è naturale
che oggi l'arte d'avanguardia abbia di sé non una conoscenza ontologica,
ma una conoscenza tecnica, strumentale, procedurale, e che il suo impegno massimo
sia da un lato un impegno di relazionalità, dall'altro un impegno di funzionalità,
di efficienza tecnica e di efficacia operativa. Ma converrà sttolineare
anche l'importanza della coscienza negativa (e dunque dell'impegno negativo) che
essa ha acquisito di sé. Aver scoperto che l'arte non può salvare
l'uomo né mutare il mondo né identificarsi con la vita o, peggio,
essere sostituita a essa; aver deciso che l'arte non è un modo di consolazione
o di evasione, che, anzi, non sussiste un diritto di consolazione o di evasione
per chi ha scelto quella forma di presenza nel mondo che è l'arte; aver
negato che esista per essa un orizzonte privilegiato di verità, che essa,
ancora sia la Verità e l'Innocenza; essersi liberato sia dell'orgoglio
che della vergogna dell'arte: tutto ciò è, se non altro, indiscutibile
merito dell'artista d'oggi. (7)
Questi brevi flash testimoniano una situazione di ricerca, idee e fervori che
portò quasi naturalmente alla nascita del “Gruppo 63”.(8) Se la nostra
sigla riprendeva quella delle riunioni tedesche, le nostre intenzioni erano in
buona parte ludiche: ci piaceva portare allo scoperto una sfida che fino a quel
momento era soltanto implicita nei nostri primi libri, negli articoli che apparivano
nel “Verri” e nelle nostre perpetue discussioni, che ai quei tempi avvenivano
anche per via epistolare. Ci avrebbe fatto molto comodo un luogo dove ritrovarci
di tanto in tanto in seduta plenaria, per litigare proficuamente tutti insieme.
La prima occasione ci fu offerta nel
1963 da Francesco Agnello, che guidava la “Settimana internazionale Nuova Musica”
di Palermo, prestigiosa manifestazione dei giovani compositori d'avanguardia.
Dal 2 al 9 ottobre il programma comprendeva i nomi di Ligeti, Evangelisti, Clementi,
Pousseur, Donatoni, Cardew, Nono, Stockausen, Berio, Bussotti, Kagel, Chiari,
Schnebel, Feldman… Invitati a partecipare in qualità di scrittori che seguivano
un itinerario di rinnovamento parallelo a quello dei musicisti, oltre alle nostre
reciproche letture di lavori in corso (a porte chiuse), organizzammo un mulinello
di undici atti unici, messi in scena alla Sala Scarlatti del Conservatorio, e
partecipammo a un movimentato ciclo di conferenze a più voci su teatro,
teatro musicale, musica, pittura, poesia, narrativa. L'insieme suscitò
un inaspettato frastuono che rimbalzò sulle pagine di quotidiani e settimanali
e i cui echi il paziente lettore potrà orecchiare nel resoconto di Pietro
Buttitta alla fine di questo libro. Ciò che a noi interessava in quel momento
non era certo il “frastuono”, ma l'aver messo in campo una “disposizione morale”.
Il clima del nostro incontro è stato così vivacemente descritto
da Umberto Eco: Dato
che c'erano fratture, ogni lettura fatta non riscuoteva il consenso generale.
Così ciascuno esponeva il proprio punto di vista, e nel modo più
impietoso. Non ci si dichiarava perplessi: ci si diceva contro. E si diceva il
perché. Quali fossero i perché non conta. Conta che in questa società
letteraria l'unità si stava realizzando a poco a poco attraverso due implicite
assunzioni di metodo: 1) ogni autore sentiva necessario controllare la sua ricerca
sottoponendola alle reazioni altrui; 2) la collaborazione si manifestava come
assenza di pietà e di indulgenza. Correvano definizioni da levare la pelle
agli animi meno sensibili. Espresso pubblicamente nell'ambito della società
letteraria apollinea, ciascuno di questi giudizi avrebbe segnato la fine di una
bella amicizia. Si sarebbero aperte le cateratte polemiche sui fogli noleggiati
ad hoc; si sarebbero denunciati i vergognosi moventi del dissenso critico, le
spose prese a prestito, le cattedre nascoste nella manica, il premio letterario
occultato sotto il cappello e passato sottobanco al figlio naturale. A caratterizzare
il comportamento degli utenti di questo ponte di San Luis Rey palermitano, stava
invece l'accettazione, la richiesta del gioco. Dunque il gruppo esisteva,
ed esisteva la poetica comune: più che un progetto di operazione estetica
era una disposizione morale, una constatazione storica. Si constatavano i pericoli
di un lavoro letterario soltanto individuale, la necessità di una ricerca
collettiva, anche là e proprio là dove le prospettive e le soluzioni
divergevano. (9)
E fu proprio il dibattito col quale si aprì la settimana che, mettendo
a confronto le diverse e a volte contrastanti posizioni, ci rassicurò sulla
vitalità dei nostri intenti. Ecco alcuni tratti delle prospettive a cui
eravamo arrivati. Per Alfredo Giuliani:
Il tipo
di letteratura che chiamiamo tradizionale accetta l'esistenza della lingua colta
corrente nelle sue strutture semantiche e sintattiche e ne accetta l'esistenza
come una garanzia. Al contrario, il tipo di letteratura che chiamiamo d'avanguardia
non accetta l'esistenza della lingua colta corrente come una garanzia e non considera
le sue strutture come razionali, ma semplicemente come storiche. (...) Per dirlo
in una maniera molto sintetica, penso che la letteratura d'avanguardia sia caratterizzata
dall'esibire la propria struttura arbitraria e maniaca quale forma eteronoma rispetto
alla percezione del mondo: mostrando immediatamente i tralicci e sapendo di essere
letteratura, essa rimanda all'apparenza reale in una maniera diversa dalla letteratura
comune, che è sempre un tipo di letteratura mimetico, o esplicativo, o
semplicemente razionale nel senso illuministico o naturalistico della parola.
In un certo senso potremmo definire la nozione in modo allegorico, dicendo che
si ha letteratura d'avanguardia là dove la delucidazione del linguaggio
si presenta come enigma o interrogazione oltre la mistificazione dei falsi enigmi,
cioè senza prendere per buona, fino in fondo, nè l'apparenza reale
nè la letteratura in quanto tale. Di qui il suo grande margine di rischio,
le sue buffonate e anche la sua 'sublimità'.
Per Angelo Guglielmi: La
linea 'viscerale' della cultura contemporanea in cui è da riconoscere l'unica
avanguardia oggi possibile è a-ideologica, disimpegnata, astorica, in una
parola 'atemporale'; non contiene messaggi, nè produce significati di carattere
generale. Non conosce regole (o leggi) nè come condizione di partenza,
nè come risultato di arrivo. Suo scopo è quello di recuperare il
reale nella sua intattezza: ciò che può fare sottraendolo alla Storia,
scoprendolo nella sua accezione più neutra, nella sua versione più
imparziale, al grado zero. Gadda, Robbe-Grillet, Pollock colgono le cose al di
qua (prima) di ogni possibile interpretazione, di ogni loro (delle cose) compromesso
con una qualsiasi situazione di valore, non in quanto indicazioni di realtà,
ma quali esemplari di realtà, campioni di materia.
A questa visione si opponeva Sanguineti: Io
non credo che ciò che caratterizza l'avanguardia sia questa assunzione
privilegiata del linguaggio contro l'ideologia, ma la ferma consapevolezza che
non si dà operazione ideologica che non sia, contemporaneamente e immediatamente
verificabile nel linguaggio. Ed è anche troppo evidente che per il linguaggio
non si ha da intendere, con una sorta di riduzione materica, la mera superficie
stilistica dell'opera, ma la sua struttura espressiva, in generale. (...) L'avanguardia
esprime quindi, in generale, la coscienza del rapporto fra l'intellettuale e la
società borghese, portata al suo grado ultimo, ed esprime contemporaneamente,
in generale, la coscienza del rapporto tra ideologia e linguaggio, e cioè
la consapevolezza del fatto che ciò che è proprio dell'operazione
letteraria in quanto tale è l'espressione di un'ideologia nella forma del
linguaggio. E' insomma chiaro che, nelle strutture fondamentali dell'ideologia
borghese, si è costituita una normalità, anche a livello linguistico,
che l'avanguardia si rifiuta di accettare, a prezzo di apparire di fronte alla
normalità borghese costituita, immediatamente come pura patologia. (...)
Per essere autenticamente critica, e autenticamente realistica, l'arte deve energicamente
uscire dai limiti della normalità borghese, cioè dalle sue norme
ideologiche e linguistiche.
Mentre per Renato Barilli: C'è
un altro modo di intendere la nozione di ideologia. Una 'visione del mondo' non
ha da rispondere solo sul piano sociale, cioè proporre una teoria – poniamo
– sulle classi sociali, proporre un sistema economico, un sistema politico. Una
visione del mondo coerente deve rispondere su tanti altri punti: ci sono tutti
i punti che, sempre kantianamente, si potrebbero dire della ragion pura; ma non
spaventi questo termine, non sembri troppo astratto; si sa che per Kant la ragion
pura riguarda la percezione, il conoscere, lo spazio, il tempo. Ora questi sono
problemi altrettanto fondamentali per una visione del mondo quanto i problemi
del gruppo economico-politico. E invece che cosa è avvenuto, specialmente
in questo dopoguerra? E' avvenuto che i problemi della ragion pura, cioè
i problemi relativi al conoscere, i problemi di ordine psicologico, gnoseologico,
epistemologico, antropologico in genere sono stati sistematicamente depressi a
favore di problemi etico-politici, mentre si dà il caso che le arti visive
e la letteratura siano molto più prossime ai problemi appunto di ordine
gnoseologico, cioè in genere conoscitivo, percettivo, antropologico, che
non ai problemi di ordine politico-economico.(10)
Dopo la settimana di Palermo, il fantasma del Gruppo poteva tranquillamente fingere
di esistere. Avevamo scoperto che per ottenere uno spazio temporaneo, una volta
l'anno, anziché sognare riunioni private, collettivamente impraticabili,
era molto più facile smuovere sindaci, assessorati alla cultura, aziende
di turismo. E finchè ci piacque così fu.
Nel 1964 andammo a Reggio Emilia e qui gli scontri furono più pungenti:
i proseliti crescevano, scendevano in motocicletta da Udine, risalivano la penisola
in comitive. Letterati, dalle province e dalle città, chiedevano come
ci si iscriveva al Gruppo 63. Un simpatico inviato del “Messaggero”, tradizionalista
di ferro, s'era annotato alcuni spezzoni della discussione e ne riportò
una filza senza commento: “turpiloquio cosmico” (pare la voce inconfondibile del
Manganelli), “letteratura farmaceutico-viscerale”, “prosa caratterizzata dal complesso
d'inferiorità”, “racconto che si racconta e non è raccontato”. Questi
erano i rischi di un laboratorio praticato in pubblico.
L'anno dopo, tornati a Palermo, discutemmo del romanzo con rinnovati e proficui
contrasti. Eco andava dicendo che ormai il disaccordo interno era il nostro “sport
statutario”. Giancarlo Marmori, garbatissimo e lievemente impressionato, notava
su “L'Espresso” che l'incompatibilità o complementarità delle posizioni
teoriche (chi vuole l'avventura, chi il romanzo ideologico, chi vuole “normalizzare”
l'avanguardia e chi la vuole spingere al “grado zero”) animava una discussione
interminabile e sottile che proseguiva “ovunque era possibile farsi sentire, a
tavola, nei bar, sui marciapiedi. Era cominciata anzi a bordo degli aerei che
dal Nord volavano verso Palermo, o tentavano di decollare, inchiodati a terra
negli aeroporti, dirottati per schivare l'uragano, mantenuti in volo perché
le piste d'atterraggio erano fradice”.
Ecco, questa era la parte verace e intellettualmente genuina del Gruppo 63. Senza
volerlo, quasi per una intuizione di scrittore, Marmori aveva azzeccato una metafora:
a quei tempi noi si volava sopra le circostanze, a loro dispetto, utilizzandole.
Ci appassionavano i problemi della letteratura in quanto della letteratura e in
quanto, sempre, qualche cosa d'altro (storia, biografia, ricerca, consumo del
linguaggio). Nel 1966 andammo a La Spezia
e fu un incontro assai piacevole con bellissime feste e parecchi nomi nuovi. Però
cominciavamo a essere stufi della lettura dei testi. L'anno dopo a Fano, ultima
riunione ufficiale del Gruppo, lasciammo tutto lo spazio agli esordienti.
Il periodo degli esperimenti era concluso.
Il mondo stava cambiando, si avvicinava il Sessantotto. Sapevamo o sentivamo che
bisognava prepararsi uno “spazio” diverso, un “luogo” da gestire con le nostre
forze: nacque il mensile “Quindici”, che raggiunse rapidamente una grande diffusione,
arrivando a tirare più di 30.000 copie. Ma la sempre crescente politicizzazione
della rivista, travolta dagli avvenimenti europei e nostrani, esasperò
contraddizioni e spaccature tra i collaboratori; ciò determinerà
la sua chiusura nell'autunno del '69, data che può essere considerata quella
della fine della neoavanguardia come fenomeno (si fa per dire) organizzato.
Nonostante tutte le scemenze rovesciate addosso
al Gruppo 63 dai suoi deprimenti avversari, la neoavanguardia italiana non s'era
mai posta come una alternativa di potere; s'era presentata invece come un'alternativa
(discutibile fin che si vuole) di idee, di poetiche, di valutazioni. Non ha mai
programmato di diventare una cittadella, né di dare la scalata a nulla.
Ha goduto di qualche simpatia e di alcune cordiali ospitalità. Fino alla
libera e breve impresa di “Quindici”, la sua occupazione di certi spazi fu doverosamente
provvisoria. Così la neoavanguardia italiana non ha avuto alcun capo carismatico.
Qualcuno all'esterno ha creduto di identificarlo in Sanguineti, quanto meno come
“capofila”. In realtà Sanguineti non capofilava un bel niente, anche se
aveva il suo bravo prestigio, né Balestrini o Eco o Pagliarani, o altri,
capofilavano. C'era una specie di collettivo informale tenuto insieme dalla reciproca
convinzione che a dispetto dei dissensi si andava tutti contro la Letteratura
Costituita. Ci si divertiva, mentre i nostri avversari, quando ci capitava di
incontrarli ci guardavano imbronciati e addirittura cupi. Il Gruppo metteva la
serietà sotto il controllo del gioco: la carica di autoironia, la volontà
di sperpero gli hanno sanamentre impedito di programmare la propria sopravvivenza.
Tutto ciò spiega perché i “superstiti” non si sentano affatto orfani:
non hanno perso il Capo, non hanno perso la Mamma, non hanno tradito nessuna Ideologia.
Anzi, contrariamente a un ripetuto luogo comune, a loro si devono le opere poetiche
narrative e saggistiche più caratterizzanti gli anni 60. E ovviamente,
dato che erano tutti abbastanza giovani, anche nei decenni successivi hanno continuato
a scrivere mica male, e magari anche meglio. ---------------------------
Molti
dei testi inclusi in questa antologia sono stati letti nel corso degli incontri
annuali del Gruppo. Si tratta di poesie, brani narrativi o lavori teatrali (a
volte in forma di frammento). Una buona parte era già contenuta nel volume
Gruppo 63 pubblicato nel 1964. Alcuni testi sono di autori che, pur non
avendo partecipato agli incontri, si riconoscevano nell'iniziativa del Gruppo
e ne condividevano le motivazioni. Non abbiamo scelto alcun testo successivo al
1969, per non oltrepassare il periodo che ci sembra caratterizzato fortemente
dallo sperimentalismo. Nel decennio che qui viene documentato gli esperimenti
si succedevano tumultuosamente in una ebbrezza liberatoria dai canoni ormai usurati
della Letteratura Corrente. Ebbrezza lucida, stimolata dal desiderio di trovare
nuove strade alla realtà della scrittura. Che importa se non tutti i tentativi
dettero frutto? Anch'essi contribuiscono a disegnare i lineamenti di quel periodo
estroso e generoso. Ci sembra impossibile e probabilmente anche inutile individuare
negli scrittori qui presenti una poetica comune; possiamo però notare alcune
costanti nella formazione del loro gusto: anzitutto la rivisitazione delle avanguardie
passate (cosiddette “storiche”), magari sulle tracce di esperienze contemporanee,
per esempio il Teatro dell'assurdo di Ionesco e Beckett, il Nouveau roman di Robbe-Grillet
& Co., il Cut-up di Bourroughs… Osserviamo poi che sul piano della contemporaneità
ha agito su molti il confronto con le arti e la musica, il cui sviluppo novecentesco
sembrava lasciare indietro i metodi compositivi dei poeti e dei romanzieri, e
li stimolava al confronto. Nell'ambito di questa situazione di ricerca e
discussione, che aveva alle sue origini il lavoro del “Verri” e la sortita dei
Novissimi , si formarono spontanee aggregazioni che dettero vita a riviste
più o meno durature, ma molto caratterizzate: “Marcatrè” a Genova,
diretta da Eugenio Battisti; “Grammatica” a Roma, su iniziativa dei pittori Achille
Perilli e Gastone Novelli insieme a Alfredo Giuliani e Giorgio Manganelli; “Malebolge”
a Reggio Emilia. Ci furono i giovani narratori della “Scuola di Palermo” e il
fiorentino “Gruppo 70” di Pignotti e Miccini che si occupava attivamente di poesia
visiva. Il primo editore che sostenne gli scrittori del Gruppo fu Giangiacomo
Feltrinelli, che, oltre a pubblicare “Il Verri” dal 1962 al 1972, diede larga
ospitalità ai loro libri in diverse collane curate da V. Riva e N. Balestrini
( Le Comete, Materiali, Poesia ). Vanni Scheiwiller, fra il 1961 e il
1966, pubblicò una collana intitolata Poesia Novissima . L'editore
Einaudi, dopo la riedizione del 1965 dell'antologia I Novissimi , inaugura
con La figlia prodiga di A. Ceresa la serie italiana della Ricerca
letteraria , a cura di G. Davico Bonino, G. Manganelli, E. Sanguineti, prevalentemente
dedicata a autori del Gruppo. Frequenti i rapporti della neoavanguardia letteraria
italiana con analoghi movimenti stranieri di quegli anni, come il gruppo brasiliano
“Noigandres”, laboratorio di poesia concreta (il loro ambasciatore era l'infaticabile
Haroldo de Campos, appassionato di Dante e Leopardi). Gli scrittori francesi raccolti
intorno alla rivista “Tel Quel” avvertivano sintonie con ciò che accadeva
in Italia e pubblicavano testi di autori del Gruppo; due di loro, Pleynet e Thibaudeau,
parteciparono al convegno di Reggio Emilia. Il Literarisches Colloquium di Berlino,
diretto da Walter Höllerer, nel 1965 invitò autori del Gruppo 63 e
furono rappresentati e trasmessi in diretta televisiva due testi di Giuliani e
Sanguineti, allestiti da una compagnia italiana con regia di Piero Panza e scenografia
di Toti Scialoja. Nel 1967 fu organizzato a Barcellona un incontro di tre
giorni con scrittori, artisti e architetti spagnoli, che si svolse nella Escuela
di Diseño (EINA), allora appena inaugurata in una vecchia casa ai piedi
del Tibidabo, un po' isolata e perfetta per un convegno non permesso dalle autorità
franchiste, reso molto agevole dalla cura organizzativa di Beatriz de Moura, oggi
a capo delle edizioni Tusquets. Parteciparono gli scrittori Carlos Barral, Jaime
Gil de Biedma, José Agustìn Goytisolo, Gabriel Ferrater, Juan Marsé,
Salvador Clotas, Gabriel Celaya; i critici Josep Castellet, Roman Gubern, Aleixandre
Cirici; gli architetti Ricardo Bofill, Oscar Tusquets, Federico Correa e Oriol
Bohigas; i pittori Antoni Tàpies e Albert Rafols Casamada; il regista Carlos
Saura. Da parte italiana: Luciano Anceschi, Nanni Balestrini, Renato Barilli,
Pietro Buttitta, Furio Colombo, Guido Davico Bonino, Gillo Dorfles, Umberto Eco,
Inge Feltrinelli, Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi, Germano
Lombardi, Giorgio Manganelli, Giulia Niccolai, Elio Pagliarani, Vittorio Gregotti,
Antonio Porta, Valerio Riva, Mario Spinella. NOTE
(1)
"Un discorso sulla narrativa italiana del dopoguerra muove necessariamente,
per quel che ci riguarda, dalla dichiarazione di un'insoddisfazione radicale,
totale, coinvolgente, che quasi non lascia luogo a eccezioni e a recuperi; per
chi scrive queste righe non vi può essere dubbio: essa è tutta 'sotto'
un certo livello di decenza e di consapevolezza, quale può essere richiesta
da un pubblico moderno."(Renato Barilli: Cahier de doléances sull'ultima
narrativa italiana , in “Il Verri” n. 1, febbraio 1960). "Il problema
da superare è questo: la realtà di nove decimi della poesia contemporanea
italiana è ancora crepuscolare, intimamente mediocre, personalistica, ingolfata
in una tematica confusa e sentimentale. Occorre più forza, più generosità,
più immaginazione. Il brutto per una poesia è di non agire, di essere
soltanto una parentesi tra i 'problemi': una poesia simile, se cambia il mondo
lo cambia solo in peggio." (Alfredo Giuliani: Poesia e errore ,
in “Il Verri” n. 3, giugno 1959). “Un crisi del linguaggio, quale io intendevo
stabilire e patire nei miei versi, trovava conforto e analogia in affini esperimenti
pittorici (e musicali), assai più che in esperimenti di ordine letterario",
scriveva nel 1961 Edoardo Sanguineti. ( Appuntamento con l'avanguardia ,
in “ L'approdo letterario” n.37, gennaio/marzo 1967). (2)
“Introduzione ai Novissimi” in I Novissimi, Edizioni
del Verri 1961, poi Einaudi 1965. (3)
Elio Vittorini: Cultura e libertà , Aragno 2001. (4)
“Introduzione ai Novissimi”, cit. (5)
Avanguardia e sperimentalismo, in “Il Verri”
n.8, aprile 1963, poi in Avanguardia e sperimentalismo , Feltrinelli
1964. (6)
Il mare dell'oggettività in “Il Verri”
n.2, aprile 1960, poi in La barriera del naturalismo , Mursia 1964. (7)
Tesi per una storia delle avanguardie, in “Il
Verri”, n. 8, aprile 1963, poi in Ordine e disordine , Feltrinelli 1965.
(8)
In un breve spazio di tempo, tra il 1963 e il 1964, usciranno
Fratelli d'Italia e La narcisata – La controra di Arbasino,
Capriccio italiano e Triperuno di Sanguineti, Come si
agisce di Balestrini, La scoperta dell'alfabeto di Malerba, Lo
sproloquio di Marmori, La scuola di Palermo di Perriera, Di Marco
e Testa, Barcelona di Lombardi, Hilarotragoedia di Manganelli,
Le donne matte di Colombo, L'oblò di Spatola, L'incompleto
di Leonetti, Aprire di Porta, Lezione di fisica di Pagliarani,
Nozioni di uomo di Pignotti, Povera Juliet di Giuliani, Pseudobaudelaire
di Costa, Variazioni belliche di Rosselli. (9)
Umberto Eco, La generazione di Nettuno, in Gruppo 63, Feltrinelli,
Milano 1964, ora in Sette anni di desiderio , Bompiani, Milano 2000.
(10)
Il dibattito è documentato nel volume Gruppo 63 , cit.
(Tratto
dal sito www.nannibalestrini.it/gruppo63; L'Antologia (con Alfredo Giuliani),
Testo&Immagine 2002.)
Nanni
Ballestrini
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