VICTORIA
- Brano tratto dal racconto Victoria e gli Staveney
che fa parte della raccolta Le nonne -
Doris Lessing
Un
buio freddo calava già sul cortile, dove le voci di due gruppi di bambini
indicavano a chi arrivava al cancello grande dove dirigere lo sguardo: era già
difficile distinguerli. Per una specie di empatia, i bambini del gruppo più
numeroso erano in grado di individuare tra le persone che arrivavano chi era lì
per loro, e da soli o a coppie schizzavano fuori per essere presi in consegna
e accompagnati a casa. Al centro dello spazio, circondato da muri alti con sopra
cocci di vetro, c'erano due bambini isolati. Facevano chiasso. Un bambino tirava
calci e pugni nel vuoto e urlava: "Si è dimenticato, te l'avevo detto
che se lo dimenticava", mentre una ragazzina cercava di consolarlo e calmarlo.
Lui era un bambino in carne, lei magra, con due codini puntuti legati da nastri
rosa umidi e flosci. Era più grande di lui, ma non più alta. E tuttavia
era con la sicurezza dei suoi due anni di più che lo ammoniva: "Insomma,
Thomas, non fare così, non strillare, adesso vengono". Ma non c'era
verso di tranquillizzarlo. "Lasciami, lasciami andare... No, se l'è
dimenticato." Al cancello arrivarono nello stesso momento varie persone,
tra cui un ragazzino alto e biondo di circa dodici anni, che si fermò a
scrutare nell'oscurità. Spiò il fratello Thomas, che era incaricato
di prelevare, mentre altri già tendevano le mani e avanzavano. Era una
piccola scena di tumulto e confusione. Il ragazzino alto, Edward, afferrò
Thomas per la mano e rimase lì fermo mentre il bambino continuava a dimenarsi
e a lamentarsi. "Ti eri dimenticato di me; sì, ti eri dimenticato"
e guardava i compagni sparire in strada. Si girò e scomparve insieme a
Thomas. Faceva freddo. Victoria non era vestita a sufficienza. Adesso che non
aveva il bambino recalcitrante a tenerla in movimento, tremava. Se ne stava in
piedi con le braccia strette intorno a sé, piangendo. Il custode della
scuola emerse dal buio, tirò il cancello e lo chiuse a chiave. Non l'aveva
vista. Lei portava dei pantaloni marrone scuro e una giacca nera, ed era un punto
nero nel buio vorticoso del cortile: si stava alzando il vento. L'orrore della
giornata, cominciata con la zia che veniva portata di corsa all'ospedale e culminata
in quell'abbandono, adesso le tagliava le gambe e la faceva oscillare, gli occhi
pieni di lacrime, serrati, fino a che la paura di essere sola glieli fece riaprire
e fissò il grande cancello nero chiuso. Le sbarre erano larghe. Cauta,
come se fosse intenta a qualche nefandezza, si avvicinò al cancello per
vedere se riusciva a infilarcisi in mezzo. Era magra, e le dicevano spesso che
non aveva abbastanza carne addosso da saziare un gatto. Quello era stato il verdetto
di sua madre, e il pensiero della mamma morta la faceva piangere e gemere. Pochi
minuti prima aveva fatto la parte della bambina grande di fronte a quell'infante
di Thomas, ma adesso era lei a sentirsi piccola, e i suoi nove anni si stavano
sciogliendo in lacrime. E poi era rimasta incastrata lì, tra le sbarre.
Sul marciapiede la gente le passava davanti senza vederla, tutta ingobbita sotto
gli ombrelli; il cortile alle sue spalle era vasto, buio e minaccioso. Dall'altra
parte della strada, il negozio di dolci e giornali di Mr Patel era tutto un luccichio.
I lampioni emanavano aloni gialli lattiginosi, e proprio mentre Victoria decideva
di cercare di nuovo di liberarsi, Mr Patel uscì sul marciapiede a prendere
delle arance dalle cassette di frutta esposte fuori e la vide. Lei passava per
il negozio ogni giorno di scuola, ma di solito in mezzo a branchi di altri ragazzini,
e sapeva che lui doveva starle simpatico, perché la zia, e anche la mamma,
prima di morire, avevano detto: "E una brava persona, quell'indiano". Mr
Patel alzò la mano per bloccare il traffico, che consisteva solo in una
macchina e una bicicletta, e corse verso di lei. Quando la raggiunse, lei a forza
di contorcersi si liberò e gli cadde fra le mani, grandi e buone, che la
sorressero. "Victoria, ma sei tu?" Salva, si abbandonò alla
disperazione. Lui la prese in braccio e di nuovo alzò la mano - solo una,
con l'altra la reggeva - per fermare un'altra macchina e una moto. Raggiunto il
caldo luminoso del bar, Mr Patel la mise a sedere sul bancone e chiese: "Allora,
piccola, cosa ci fai qui tutta sola?". "Non lo so" rispose piangendo,
e davvero non lo sapeva. In classe le era arrivato un messaggio che diceva che
qualcuno sarebbe andato a prenderla in cortile con Thomas Staveney, che lei quasi
non conosceva, perché era due classi indietro. C'erano dei clienti che
aspettavano, e Mr Patel si guardò intorno in cerca di aiuto e vide due
ragazze sedute a un tavolino. Erano studentesse più grandi che si prendevano
un momento di pausa prima di tornare a casa. "Sentite, date un occhio a questa
creatura per un minuto" disse rivolto a loro; la sistemò con cura
su una sedia lì accanto. Le ragazze certo non avevano voglia di occuparsi
di una mocciosa, ma le fecero grandi sorrisi e dissero che doveva smettere di
piangere. Victoria continuava a singhiozzare. Mr Patel non sapeva cosa fare. Mentre
serviva dolci, focacce e apriva altre bibite per le ragazze, come sempre facendo
venti cose insieme, pensava che forse doveva chiamare la polizia, ma all'improvviso,
sull'altro marciapiede, comparve, come un fantasma che ha perso la memoria, il
ragazzo alto che aveva trascinato via il fratellino recalcitrante. Si guardò
intorno agitato, e poi, afferrandosi con entrambe le mani alle sbarre superiori
del cancello, sembrò sul punto di issarsi in cima. "Scusa," gridò
Mr Patel precipitandosi alla porta, "vieni qui", ed Edward rivolse il
viso afflitto verso di lui e le luci accoglienti del bar e, senza guardare se
ci fossero veicoli in arrivo, attraversò d'un balzo la strada, schivato
per un pelo da una moto e insultato dal guidatore. "Una bambina,"
ansimò Edward, "sto cercando una bambina." "Eccola qui,
sana e salva." Mr Patel rientrò e rimase vicino al bancone, tenendo
d'occhio il ragazzino alto, che si era seduto accanto a Victoria e le asciugava
il viso con dei tovagliolini di carta disposti a ventaglio in un portasalviette.
Sembrava sul punto di sciogliersi anche lui in lacrime. Le due ragazze, decisamente
troppo cresciute per lui, si produssero comunque in manifestazioni di femminilità,
protendendo petto e labbra. Ma non le notò. Victoria piangeva ancora e
lui stesso era in uno stato di estrema tensione emotiva. "Ho
sete" sbottò Victoria, e Mr Patel le porse una spremuta d'arancia,
con un gesto che indicò a Edward di non sognarsi nemmeno di pagare. Edward
le resse il bicchiere, e ne fu indignata - lei, una bambina grande, trattata come
un'infante - ma grata, perché in quel momento avrebbe tanto voluto esserlo. Edward
stava dicendo: "Scusa. Dovevo venire a prendere anche te, con mio fratello". "Ma
non mi hai visto?" chiese lei, accusatoria. A quel punto Edward si fece
paonazzo ed ebbe un fremito. Era questo il cuore bruciante della sua autoaccusa:
in effetti aveva visto una bambina nera, ma gli era stato detto di andare a prendere
una bambina e basta, e per qualche ragione non aveva pensato si trattasse di quella.
Poteva trovarsi ogni genere di scuse: la confusione degli altri bambini che correvano
verso il cancello, il baccano, il cattivo comportamento di Thomas, ma il fatto,
il nocciolo vero della questione era che in realtà non aveva visto Victoria
perché era nera. Tutto questo non sarebbe importato a molte brave persone
che entravano e uscivano da quel grande cancello, ma Edward era figlio di una
famiglia di sinistra, e viveva un momento di grande immedesimazione con le sofferenze
del Terzo mondo. Nella sua scuola, assai migliore di questa, che pure molto tempo
prima aveva frequentato, lui e i compagni venivano "illuminati" con
iniziative di ogni tipo. Raccoglieva soldi per le vittime dell'Aids e della fame,
scriveva temi su questi e molti altri mali del mondo, e sua madre Jessy era impegnata
in ogni sorta di buona causa. Non c'erano scuse per quello che aveva fatto, e
si vergognava da morire. "Ci vieni a casa con me, adesso?" chiese
mortificato alla povera bambina, e lei, senza una parola, si alzò e tese
la mano per farsi accompagnare. "Poverina" disse con aria partecipe
una delle ragazze. "Mah, alla fin fine sta bene" disse l'altra. "Non
è lontano" disse Edward alla bambina, alta la metà di lui.
Si chinò, per dirglielo. E lei si allungava verso l'alto, tanto era convinta
di doversi comportare da grande, mentre il respiro le siintoppava e gli occhi
fissavano quella faccia contratta dalla preoccupazione per lei. "Ciao,
Victoria" disse Mr Patel, con un tono austero, ammonitorio, rivolto al ragazzino
bianco, che gli ricordava quegli insetti estivi tutti zampe e antenne chiamati
zanzaroni. "Ci vediamo do-mani!" gridò loro dietro, perché
gli venne in mente di non sapere nulla di questo ragazzo, e di doverlo avvertire
che Victoria non era senza amici. Ma i due erano già in strada, dove i
loro passi procedevano sicuri tra foglie spiaccicate e pozzanghere. "Dov'è?
Dove andiamo?" piagnucolava la bambina, ma con una voce così fioca
che lui non la sentiva: continuava a chinarsi per rivolgerle sorrisi senza rendersi
conto di quant'erano tormentati. Proprio quando Victoria pensava che avrebbero
scarpinato fino a non sentire più i piedi, svoltarono in un cancello e
puntarono a una casa con le finestre sfolgoranti di luce, che insieme ad altre
case simili formava come una muraglia. Qui Edward infilò la chiave nella
toppa e si ritrovarono in un ambiente grande che a Victoria sembrò una
specie di negozio, di quelli che le facevano sgranare gli occhi nelle strade importanti.
Colore, luce e caldo: aveva ancora freddo per le raffiche taglienti; in un grande
specchio montato su una base in cui c'era Edward tutto arruffato per il vento,
c'era anche lei, sì, quella era lei, Victoria, quella creatura impaurita,
con la bocca aperta e gli occhi sbarrati, e un attimo dopo Edward le toglieva
la giacca e la lanciava sul bracciolo di una sedia rossa. Poi procedette e lei
gli corse dietro lasciandosi se stessa alle spalle nella cornice dello specchio.
Adesso erano in una stanza più grande di tutte quelle che aveva mai vi-sto,
a parte l'atrio della scuola. Edward prese un bollitore, che riempì in
un lavello, e Victoria pensò che quella parte della stanza fosse come una
specie di cucina. In giro c'erano dei giocattoli. Le venne in mente che qui ci
abitava Thomas, ma allora dov'era? "Dov'è?" sussurrò,
ed Edward che armeggiava con tazze e piattini si paralizzò nel tentativo
di capire cosa intendesse. "Ah, Thomas? E andato a dormire da un suo amico"
rispose. "Adesso siediti qui." Quando lei non lo fece, la sollevò
e la depositò su una poltrona che era come un abbraccio, tanto era morbida
e calda nell'avvolgerla. Lei si guardò intorno, cauta per paura di vedere
più di quanto fosse alla sua portata. Era una stanza così grande
che ci stava dentro tutto l'appartamento della zia. E poi, mentre sgranava gli
occhi in preda allo stupore, crollò addormentata: era troppo. Edward,
che era abituato ai bambini piccoli - e tale considerava ancora Victoria, così
minuscola e magra - non fece altro che adagiarla sui cuscini perché stesse
comoda, e poi cominciò a fru-gare in un grande frigorifero in cerca di
qualcosa da mangiare. Non sapeva dove fosse sua madre, ma avrebbe voluto che fosse
lì. Si era organizzato per uscire e trovarsi con dei compagni di scuola,
ed eccolo bloccato da quella bambina, a cui aveva riservato un trattamento così
incredibilmente indegno... bisogna precisare che era sulla soglia di un'adolescenza
tremendamente consapevole, tormentata, accusatoria verso il suo mondo, segnata
da un'appassionata ammirazione per qualsiasi cosa non fosse la Gran Bretagna,
devota a ogni buona causa. Un'adolescenza che lo rendeva così rabbioso
verso la madre, che in qualche modo vedeva come l'incarnazione di tutte le forze
reazionarie, e così disgustato verso il padre, che rappresentava la frivolezza
e l'indifferenza al dolore - perché il suo buon umore non poteva significare
altro -, che al termine di quel periodo, otto anni dopo quella sera, Jessy Staveney
gli disse, e così tutti quelli che all'epoca lo frequentavano: "La
tua maledetta adolescenza, mio Dio, mio Dio, mi ha tolto vent'anni di vita". Edward
si sedette alla sua maniera, come se non avesse proprio tempo per stare lì
a ciondolare, mangiò uno yogurt - magro, con aggiunta di vitamina D - e
rimuginò sulla questione Victoria. Che continuava a dormire. Quando
sognava - soffriva di incubi e sonnambulismo - poteva apparirle la madre morta,
sorridente, ma sempre fuori dalla sua portata, e in fuga dalle braccia tese di
Victoria. Era morta da cinque anni. Victoria aveva conosciuto degli zii ma nessun
padre, almeno che la madre si sentisse di identificare. Non si presentò
nessuno "zio" a chiedere di lei o ad assumersi le proprie responsabilità.
La zia di Victoria, la sua zia vera, sorella della madre, non aveva figli. Aveva
da poco deciso che era una fortuna, che i figli sono una tale grana, quando si
ritrovò appioppata un'orfana quattrenne. Faceva l'assistente sociale. Abitava
in una casa popolare - camera, soggiorno, cucina, doccia - nei Francis Drake Buildings
in un complesso popolare (gli altri tre erano Frobisher, Walter Raleigh e Nelson),
dove i bambini andavano alla scuola di Victoria. Aveva fatto coincidere la propria
vita col lavoro, che amava, ma allora dovette prendersi cura di Victoria e lo
fece senza riluttanza, solo con una leggera stanchezza. Proprio quella mattina
era stata male. In ambulanza si era ricordata di Victoria, e aveva detto all'infermiere
che alla fine della scuola sarebbe rimasta in cortile ad aspettare che qualcuno
la andasse a prendere. Lui non era nuovo a questo genere di situazioni, e telefonò
alla scuola, cosa non facile, dato che la zia di Victoria continuava a svenire
per il dolore della malattia, di cui sarebbe morta non ancora cinquantenne. L'infermiere
si fece dare il numero dall'operatore, chiamò la segretaria e spiegò
il problema. Lei andò nell'aula dove Victoria stava copiando frasi dalla
lavagna, da brava bambina, apparentemente dimentica del baccano dei compagni,
privi di aspirazioni alla bontà. La maestra disse, o meglio gridò,
che non c'era nessun problema, Victoria poteva tornare a casa con Dickie Nicholls
e poi qualcuno sarebbe andato a prenderla. La segretaria disse che andava bene;
tornò in ufficio, cercò il numero dei Nicholls, chiamò, nessuna
risposta. Madre che lavora, diagnosticò lei, che lo era a sua volta. Tentò
coi numeri di varie altre mamme, e alla fine una rispose che non poteva essere
d'aiuto, ma perché non tentare con Thomas Steevey - lo pronunciò
così. La segretaria fece il numero degli Staveney e trovò Jessy
Staveney, che disse al figlio di prelevare anche una bambina, insieme a Thomas.
La segretaria non aveva detto che Victoria era nera, ma perché avrebbe
dovuto? A scuola c'erano più bambini neri o scuri che bianchi, e anche
lei era di pelle scura, dato che i suoi erano arrivati dall'Uganda quando gli
indiani erano stati cacciati. Dato che gran parte delle madri lavorava, tutto
questo telefonare e organizzare era così normale che la segretaria non
ci pensò più: Victoria era sistemata. Quando Victoria si risvegliò
da un sonno breve e agitato in quel luogo sconosciuto, Edward era seduto a un
tavolo molto grande, e all'altro capo era seduta una donna alta, coi capelli biondi
tutto intorno alla faccia, e le braccia appoggiate al tavolo. Victoria l'aveva
vista venire a prendere Thomas, in cortile. Victoria rimase muta per un po',
per la paura di rendere manifesta la propria esistenza, ma poi Edward, che l'aveva
tenuta d'occhio, esclamò: "Oh, Victoria, sei sveglia, vieni a mangiare.
Questa è Victoria" annunciò alla madre, che rispose: "Ciao,
Victoria" e finì il discorso che stava facendo al figlio. Che una
bambina sconosciuta stesse dormendo nella sua cucina non era degno di nota. Gli
amici di Edward, e di Thomas, si riversavano dentro e fuori da casa sua a ondate,
e per lei erano sempre benvenuti. La vita sociale di Thomas, in particolare, dato
che aveva solo sette anni e non poteva andare e venire come il dodicenne Edward,
era un po' una corsa, articolata in una complicata rete di visite a questa o quell'attrazione:
planetario, museo, barca sul fiume, amici, nottate a casa d'altri, pranzi e cene
di qua e di là. Combinare tutto, bambini e tempi, era una vera impresa
organizzativa. Che la bambina fosse nera le faceva piacere, perché, come
non smetteva di rimproverare a Edward, i suoi amici erano tutti di gran lunga
troppo bianchi, adesso che eravamo in una società multiculturale. Perché
Thomas andava a una scuola di livello molto inferiore? Ideologia. In gran parte
del padre, Lionel, socialista vecchio stampo. Al momento opportuno Thomas sarebbe
senz'altro stato tolto da lì e piazzato in una delle scuole giuste, ma
adesso aveva la possibilità di farsi le ossa negli abissi più profondi.
L'espressione era di Jessy, che negli alterchi con l'ex marito urlava: "Notizie
dagli abissi più profondi", annunciando il morbillo o qualche avversità
che le impediva di pagare una bolletta. Ma traeva il massimo vantaggio da una
situazione che considerava deplorevole, perché poteva guardare dritto negli
occhi i suoi amici di più dubbi principi e dire: "Mi dispiace, ma
deve conoscere come vive l'altra metà della gente. Lionel insiste". Victoria
fu sollevata, sistemata su una sedia con il mento che emergeva a malapena dal
bordo del tavolo, ed Edward rimediò al-la situazione con dei grossi cuscini
ciccioni. "E adesso, cos'hai voglia di mangiare, Victoria?" Victoria
non era abituata alla domanda e dato che niente di quello che vedeva sul tavolo
le era familiare, sembrò smarrita, e persino pronta a scoppiare di nuovo
a piangere. Edward capì e le riempì un piatto con quello che lui
stava mangiando, che nella fattispecie era del thailandese preso al take-away
da Jessy, pomodori ripieni della sera prima e un avanzo di riso condito. Victoria
aveva fame, e fece un tentativo, ma solo il riso sembrava incontrare l'approvazione
del suo stomaco. Edward, che la guardava - be', come un fratello maggiore, come
avrebbe fatto con Thomas -, le offrì della torta. Quella andava meglio,
e la mangiò tutta. Jessy osservava in silenzio, il piatto intatto, la
tazza di tè nelle mani lunghe appena sotto la bocca, col vapore che le
velava il viso. Aveva gli occhi grandi e verdi e Victoria pensò che erano
occhi da strega. Sua madre parlava spesso di streghe, mentre la zia mai, e quella
voce cantilenante e incantatoria le era rimasta impressa nella mente a spiegare
le cose brutte che succedevano. E ne succedevano spesso. "Allora, che
ne facciamo di te, Victoria?" disse infine Jessy Staveney disinvolta, come
avrebbe fatto con qualunque dei bambini che capitavano lì e che doveva
gestire. Alla domanda gli occhi di Victoria si riempirono di lacrime, e cominciò
a piagnucolare. Questo era anche peggio degli occhi da strega. Da quando aveva
memoria, anche prima della morte della madre: "Cosa ne faccio, cosa ne facciamo,
cosa dovrei farne di Victoria" era il ritornello che segnava i suoi giorni
e le sue notti. Era stata così spesso un intralcio con gli zii della madre.
Era un intralcio quando la madre voleva lavorare, ma non sapeva cosa fare di lei,
della sua piccola Victoria. E lei sapeva che la zia Marion non l'aveva davvero
voluta, anche se era sempre gentile. "Povera bambina, è stanca"
disse Jessy. "Be', io devo andare. Al Comedy va in scena il primo spettacolo
di un mio protetto e devo esserci. Forse è il caso che Victoria si fermi
per la notte?" disse a Edward, che aveva anche lui gli occhi pieni di lacrime,
tanto si sentiva terribilmente, imperdonabilmente in colpa, per tutto. Victoria
stava seduta diritta, i pugni lungo i fianchi, la faccia rivolta al soffitto,
dove brillava una luce chiara e diretta che illuminava il suo scoramento. Singhiozzava,
gli occhi serrati. "Povera bambina" sintetizzò Jessy, e se
ne andò. (...)
(Brano
tratto dal racconto Victoria e gli Staveney che fa parte della raccolta
Le nonne, Feltrinelli, Milano 2004. Traduzione di Elena Dal Pra)
Doris
Lessing nel 2007 ha vinto il premio Nobel per la Letteratura.
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