LAURINHA
Rubem Fonseca
Quando mia moglie Teresa è morta, ho pianto tanto. Non mi vergogno a dirlo.
Tutte le volte che mi emozionavo piangevo, anche al cinema. Anche mio fratello
Manoel era così, piangeva per qualsiasi cosa. È una caratteristica
della mia famiglia, abbiamo il cuore tenero, qualsiasi cosa ci fa riempire gli
occhi di lacrime, un uccellino morto, un cagnolino abbandonato, un bambino povero
che chiede l'elemosina, qualsiasi cosa. Al funerale di Teresa io e Manoel
abbiamo pianto tanto. Della mia famiglia, oltre a noi due, era rimasta solo Laurinha,
mia figlia, che aveva a quel tempo, cinque anni. Laurinha non capiva bene ciò
che stava succedendo. Non che si meravigliasse di vedere il padre e lo zio che
piangevano, c'era già abituata, ma questa cosa di dirle che la sua mamma
era andata in cielo la lasciava molto confusa. Ma tornerà dal cielo,
la mamma?, Laurinha domandava. E io rispondevo di sì, con un singhiozzo.
Laurinha cresceva e assomigliava sempre più alla madre. A dieci anni era
una ragazzina bellissima. Era la gioia della mia vita e di quella di Manoel che
non si era mai sposato e mai si sposerà, aveva un labbro leporino mal operato
e il suo viso aveva una smorfia permanente molto brutta, lui lo sapeva, e le ragazze
scappavano via. Così, la famiglia di Manoel eravamo io e Laurinha.
Poi, è successo tutto. Io andavo sempre a prendere Laurinha all'uscita
di scuola, ma quel giorno non andai. Quando non tornò a casa mi preoccupai
e andai a scuola. Laurinha era uscita in orario, disse la preside. Io e Manoel
rimanemmo a cercarla nei dintorni. Scendeva la notte e non la trovavamo. La
trovarono il giorno dopo. Morta, in un campo abbandonato. Il suo corpo fu portato
all'Istituto di Medicina Legale. Io e Manoel andammo là con uno sbirro
a identificare il corpo. Si prepari a qualcosa di molto scioccante, disse
il medico legale. Lo stupratore l'ha picchiata con molta violenza, le ha rotto
i denti e il naso e poi l'ha strangolata, la bambina ha ecchimosi su tutto il
corpo. Il medico legale tirò fuori una cassa di metallo dove si trovava
il corpo di Laurinha. Il viso era deformato dai colpi violenti che aveva ricevuto.
Sembrava una maschera, una caricatura grottesca. È lei, è mia
figlia, dissi, singhiozzando. Manoel svenne, e si riprese solo dopo un po'.
Sappiamo già chi è stato, disse il poliziotto, è un tipo
chiamato Duda. Sarà difficile penderlo. Abita nelle favelas.
Quando lo prenderete, rimarrà dentro?, chiese Manoel. Allora, siccome
non è stato colto sul fatto, il commissario dovrà chiedere al giudice
il carcere preventivo, e solo se il giudice accetterà Duda potrà
essere arrestato, altrimenti sarà processato a piede libero. Interessante,
disse mio fratello. Dov'è che si trova questo Duda? Lo sbirro disse
il nome della favela. Penso che sia del giro del traffico. Interessante,
disse Manoel. Uscimmo dall' Istituto di Medicina Legale, andammo alla banca
e prelevammo tutti i soldi che avevamo, anche i nostri risparmi. C' incamminammo
verso la favela. Fermammo la macchina in una strada ai piedi della collina.
Dei brutti ceffi ci osservavano, uno di questi si avvicinò, camicia aperta,
che lasciava intravedere una pistola. Che c'è?, chiese. Non vogliamo
cocaina, cerchiamo un tizio chiamato Duda. Paghiamo bene. Spiegai bene il motivo.
Quanto?, chiese il tizio. Io dissi la cifra. Aspetta qui, rispose.
Rimanemmo in macchina ad aspettare. Non ci volle molto perché il trafficante
si rifacesse vivo con quel Duda. Era un tipo grasso con i baffi, sulla trentina,
con le mani legate dietro le spalle. Questo è il tipo che ha ucciso
la bambina, disse il trafficante, la polizia lo sa ed è già venuta
qui a cercarlo. Mettilo nel bagagliaio, gli dissi. Andammo alla mia casa
di campagna ad Araruama. I coltelli sono affilati? Ti ci puoi fare la
barba, rispose Manoel. Durante il viaggio io e Manoel non scambiammo una parola.
Ci fu un momento in cui uno guardò negli occhi aridi dell'altro, dicendo
in silenzio che volevamo fare quello che stavamo per fare. La nostra casa
di campagna era in un luogo isolato. Se avessimo sparato un colpo di cannone nessuno
avrebbe sentito. Tirammo Duda fuori dalla macchina e gli liberammo le mani.
Manoel fece un caffé. Vuoi un caffé? Sì, grazie.
Mentre bevevo il caffè, chiesi, perché hai fatto quello alla bambina?
Non lo so, rispose, è stata una pazzia, quando l'ho vista camminare davanti
a me con quella gonna corta della scuola ho sentito una cosa e non ho saputo resistere.
Ma mi sono pentito. Molto pentito. Era proprio necessario colpirle il volto
e il corpo con tale violenza? Non so cosa mi è successo, disse Duda.
Sono molto pentito. Dio mi punirà. Dio, ma che vada a farsi fottere,
dissi. Spogliammo Duda e lo legammo al letto, con le braccia e le gambe ben
aperte. Mettemmo i coltelli sul comodino. Il ferro di cauterizzazione fu messo
sulla fiamma accesa. Per l'amor di Dio, non fatemi questo, chiese Duda.
Sei sicuro che la cauterizzazione eviti qualsiasi infezione? Non vogliamo che
muoia, vero? Certo che no, rispose Manoel, lo vogliamo vivo. Io taglio
e tu cauterizzi, dissi. Per l'amor di Dio, implorò Duda, io mi sono
pentito. Afferrai i ciglioni di Duda e li tagliai lentamente, ascoltando le
sue grida lancinanti. Presi il sacco scrotale con i testicoli e lo gettai nella
spazzatura. Le urla di Duda non cessavano e aumentarono quando Manoel, con
il ferro rovente, cauterizzò la ferita. Allora Duda svenne. Lasciammo
Duda legato al letto. Lo coprimmo appena con un lenzuolo. Hai fame?, chiese
Manoel. No. Nemmeno io. Passammo la notte seduti accanto al letto
di Duda. Si rinvenne solo la mattina. Senti che voce ha, Manoel, dissi.
È ancora presto. Ci vorrà una settimana, non accade dal giorno alla
notte. Lo lasciammo legato, imboccandolo con la pappina. Piangeva molto, chiedeva
perdono, diceva che voleva morire, con la sua voce normale. Passata una settimana
dissi a Manoel che forse la cosa sarebbe funzionata solo con un bambino, con un
adulto era diverso. Io e Manoel ci avvicinammo al letto e dissi a Duda, volevamo
che ti venisse una voce fine fine, come quella di una femminuccia. Ma non t'è
venuta, se fosse venuta ti avremmo liberato. Peggio per te. Che si fa? Deve
soffrire, dissi. La cosa migliore è rompergli tutte le ossa, a poco
a poco, fino a che non muore. Era così che si torturava la gente, una volta.
Prendemmo due spranghe di ferro in garage e un martello e tornammo in camera.
Scoprimmo il corpo di Duda. Cominciamo dalle caviglie, disse Manoel. Lentamente,
dissi, lenatamente, quello stronzo deve soffrire. Con le spranghe di ferro spezzammo
le caviglie di Duda. Aspettammo un po' e gli spezzammo l'osso dello stinco, quell'osso
che quando si gioca a pallone e ci si prende una botta fa un male cane. Gridava
come un pazzo. Un'altra pausa per farlo riprendere, non volevamo che svenisse
dal dolore, e allora gli sfracellammo le ginocchia, continuava a gridare e ora
defecava e urinava sul letto. Un'altra pausa. Poi, con le spranghe gli spezzammo
i gomiti, le costole e la clavicola, sempre con una pausa tra una cosa e l'altra.
Con un martello gli sfondammo tutti i denti. Allora cominciò a gridare
con voce stridula, con la voce che volevamo gli venisse quando gli avevamo tagliato
i ciglioni. Ma ora era troppo tardi, era già da più di tre ore che
gli spezzavamo le ossa. Lo stronzo morì ricoperto di merda, piscio
e sangue. Portammo il letto nel cortile sul retro, lo cospargemmo di benzina e
appiccammo il fuoco. Ci sono ancora wurstel e birra, disse Manoel. Tornammo
in salotto, mangiammo e bevemmo. Dalla finestra, vedevamo il fuoco che ardeva
in cortile.
(Racconto
tratto dalla raccolta Ela, Casa Editrice Companhia das Letras, São
Paulo, Brasile, 2006. Tradotto da Julio Monteiro Martins, insieme ai suoi allievi
della Laurea di Specializzazione in Lingua Portoghese dell'Università di
Pisa Sara Barboni, Ilaria Biagi, Barbara De Cagna, Elisa Del Cesta e Anna Maria
Landucci.)
Rubem Fonseca
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