IL CAMPOSANTO DI MAGGIANO Massimo
Lencioni
Il cimitero
si apre con un fischio nella poca campagna. Poca, perché a monte dopo qualche
passo il sentiero che s'inerpica per il bosco, dove s'andava a far castagne, incontra
l'autostrada che ci fu fatta vent'anni or sono. Si rimane a mezz'aria a vederne
la stenta ascesa, sbarrati dal viadotto. Di là, a valle, c'è invece
la strada per dove si viene: ed è un merito della piccola ansa di canne
e fuscelli se di qua si sta come isolati nel silenzio, mentre a pochi metri sfrecciano
le macchine verso Viareggio. Ad ogni modo, qui ci si viene con la sola eco dei
propri passi sulla strada sterrata, così predisposti in una specie di intimidimento
come ad entrare in chiesa. Qui, raramente disturbi qualcuno. Tanto che sarebbe
un ottimo posto per venirci a pensare, o anche solo ad oziare, a baloccarsi tra
il ronzio degli insetti. Eppure non manchi di entrarci a passetti, sulle punte,
e col cuore sospeso. Ma non è che sia paura, quella cosa che ti capita
di pensare in luoghi come questo, no: perché il cimitero di Maggiano bisogna
conoscerlo. Sorge su una collina rasa, dove comincia a montare il Quiesa, con
un muricciolo basso che sembra un pollaio. La casa di mia nonna è qui vicino,
e io da sempre lo conosco, ché, di là, lo vedevo dopo qualche campo,
dalla spallierina d'edera: là, in pieno sole, appena un po' più
alto degli altri prati, come un castelletto senza cime. Era il limite dei funghi,
cioè: là sapevo che i prataioli non riprendevano a nascere, allora
perché andarci? In verità avevo, sì, un po' di paura, che
è normale a quell'età: ma più la sera, quando proprio di
lassù, come per incanto, si svegliava una brezza fresca senza origine,
perché tutto era buio. Solo ora so che era brezza di mare, che viene da
Viareggio, di là dal monte. Ma allora, tanto bastava a un brivido per ricacciarmi
in casa. Oppure, uno strano sentimento mi metteva quella acquerugiola che veniva
giù di là e scorreva per la Canabbia, il fosso che tra i pollai
scendeva verso Maggiano, il paese, e s'avvizziva al ponte del Sartino, quello
dove alla guerra ci passavano i soldati. Quella roba era, come dire, succo del
castelletto, acqua dei morti: ma non cose tetre, macabre, no: pensavo però
fosse proprio quello che era, acqua che passa accanto a loro, a quel muretto,
e che so, magari le affidano i propri pensieri, qualche cruccio, qualche sospiro.
E dicevo, vedi come ci crescono le ortiche nel fosso? sono loro che se lo proteggono,
non ci devo andare. Ma di giorno, no: quel campo era proprio quello che era, un
altro campo, se pure più sfortunato, senza funghi e senza fiori veri, di
quelli nati sulla terra: perché quanto a fiori, quelli ce li aveva, ma
finti, o tagliati e portati a macerare nelle fiale d'ottone o di rame, ritti con
un senso di magia. Ecco perché gli stava bene il nome, camposanto.
Allora, oggi, quando vengo qui, vengo al camposanto, e non al cimitero che, a
dispetto del suo primo significato, suona male e fa stringere i denti. Vengo qui,
perché ci ho anch'io i miei morti, qualche Lencioni, qualche Puccetti,
e ci verrei a visitarli, così come mi hanno insegnato, e a parlarci, se
loro mi rispondessero qualcosa: solo che loro se ne stanno ormai assorti, con
un fare dispettoso e anche un po' vanitoso, nella migliore foto, e non sono mai
come li ho conosciuti: non fanno più errori, non battono ciglio, fan mostra
di esser saggi. Poco male, mi dico, io ho fatto il mio dovere. Ahimè, però:
perché questo, al camposanto di Maggiano, è vero fino a un certo
punto. Qui, stai tranquillo che dopo un po', finisce che non pensi più
a niente, vano e distratto come uno che ha fatto tutto e si riposa: altro che
il luogo dove riposano i morti, qui ci si viene a oziare da vivi! Quale giornata
che sia, basta un sole anche appena velato che qui, tra quattro mura, ci nasce
un tepore cordiale, gentile, senza un alito, un'aria di serra e di solario. E
diventi, avvolto da questa inaspettata e pagana pace, un botanico senza scienza,
cullato dal piccolo calore, stretto nel tuo cappotto a gongolare se è inverno,
illuminato nella tua pigrizia da quella luce buona e ferma che mandano i marmi
tutt'attorno. Il camposanto ha la sua flora e la sua fauna, muschi sui muri e
le brecce, erba buona d'aiuola, malerbe, persino qua e là dei papaveri,
al tempo, e poi quei suoi fiori senza radice: e formiche e lucertole, e grilli,
e passeri e finte colombe di gesso su qualche altarino più vecchio. E a
volte c'è qualche storiella, un po' triste e retorica, scritta su qualche
pietra-silice, di bambini malati o di sposi sfortunati. Su questa si posa sempre
la cavolaia, bianca, grossa farfalla di campagna, ben nutrita, e mi distrae dalla
lettura: finché esce di là dal muro, per altri campi. Ma mi
accorgo che è tardi, è ora di andare a mangiare, e l'odore ne arriva
fin qua. Mi segno, rivado col cuore più aperto, richiudo col fischio il
cancello. Addio allora, i miei cari: anche oggi non vi ho ritrovato.
Massimo
Lencioni fa il traduttore di professione. Vive a Maggiano, provincia di Lucca.
Precedente Successivo
Copertina
|