LA MIA GENERAZIONE Alessandro
Cascio
La mia generazione era appena andata a fuoco, l'avevo bruciata sperando che la
cenere generata avrebbe fatto almeno da concime alla terra. Tanta di quella
musica che non avrebbe potuto mai ascoltarla tutta, tante di quelle parole che
non avrebbe potuto mai leggerle tutte, tante di quelle immagini che non sarebbe
mai stata in grado di guardarle tutte. La mia generazione era alle mie spalle,
scoppiettante mentre mi allontanavo da lei. Il fumo provocato era più delle
fiamme che l'attorniavano, accompagnata, come suo solito, da sirene e dissennate
grida. Avevo con me un sassolino nella scarpa ed un borsone in pelle marrone
poco pesante, una cuffia e il cd con la voce di lei a cantarmi nelle orecchie
alla Hall of Fame di Leicester. Ma nonostante dessi l'impressione di aver
perso tutto, avevo appena realizzato di avere acquistato, invece, ciò che
da tempo noi ragazzi avevamo smesso di cercare, ciò che a noi tutti serviva:
il nulla. "Di che parla la tua canzone?" le chiesi. "Di
un contadino e un Re". Mangiavo cereali incrostati di frutta secca e
viscosa che otturava le naturali scavature dei denti dandomi la piacevole sensazione
di insensibilità durante lo scontro tra un molare e l'altro. Torpidi sbattimenti
di dentiera si alternavano ad un: "Che contadino? Che Re?" Il naso
di lei sniffava nitroglicerina, deflagrante esplosivo per la testa: cocaina a
strisce finissime e così poco alte che il vento non avrebbe trovato alcun
appiglio per spazzarle via, ci fosse stato. La testa scrollata, la mucosa
bruciata: "Un giorno un povero contadino lottò per il suo popolo contro
un Re distratto che si scordò del pane ai sudditi e dell'acqua ai somari
per inseguire i sogni di un reame smisurato, ottenne appoggi e gloria, vincite
su vincite, cariche ed onori e in fine l'Impero, diventando Re". Le gengive
non reggevano il contraccolpo dei miei denti a prova d'urto e si infiammavano
sanguinando rosse striature ai bordi dei canini: "Che Re?" "Un
Re distratto, che si scordò del pane ai sudditi e dell'acqua ai somari
per inseguire i sogni di un reame smisurato, ma un giorno
" Spolverai
il tavolo con un tiro che mi assopì il naso e mise in tensione la mia fronte
aggrovigliandola in piccoli rotoli di pelle aggrottata: "
un povero
contadino lottò per il suo popolo
" "Già"
rispose lei. La mia generazione scriveva d'amori persi in diari aperti al
mondo, con artificio e vittimismo, attorniando le parole di lucenti stelline,
glitter e tristi smile giallastri e incongruenti, ma le loro parole e le loro
espressioni non differivano, e la disperazione perdeva singolarità rendendola
piatta, come se lo stesso giovane combattuto e dannato avesse girato il mondo
facendo soffrire allo stesso modo ogni amante che scriveva in quei diari. La
mia generazione era un passo dietro alla scarpata, ma la sua fortuna stava nel
fatto che s'era fermata e aveva smesso di camminare. Per questo, il fumo che avevo
dietro imbrattava i muri, ma non loro, non me, che sembravo assuefatto al biossido
di carbonio, come alle droghe leggere e avevo imparato a fare a meno dell'ossigeno.
Feci due passi ancora, mille miglia verso il punto di partenza, che non avrei
trovato, ma che non mi sarei stancato mai di cercare. Trovare equivale a morire.
Cercare è l'unica vita che io abbia mai conosciuto. E allora via da
lì, via da quella casa ereditata dai miei per cui non avevo lottato, via
dal perché delle guerre e dai "troviamo un accordo politico",
via da giardini troppo uguali ad ogni giardino del mondo: la mia casa ero io,
in quel momento, l'unica casa che conoscessi eccetto la piccola Maria. Mi
avvicinai all'imponente Chiesa di Santa Lucia. Stavo dietro le sbarre che separano
il mondo dei bambini da quello degli adulti, le sbarre più imponenti del
mondo, verdi e apparentemente fragili, ma pronti a ricoprirsi di ruggine e spine
rampicanti alle prime piogge. I bambini giocavano nel parco ed io cercavo di scovare
mia sorella tra tante possibili piccole sorelle che cantano e giocano. Un
ritornello, come un ticchettio martellante di un orologio donava sorrisi a chi,
di quella filastrocca, ne era incosciente. Piccoli bimbi miei, sarà la
vostra terra che cadrà in quel: giro giro tondo, quant'è bello
il mondo, casca la Terra, tutti giù per terra... Tutti. Giù.
Per terra. Un pazzo un giorno compose una filastrocca e la mise i bocca
al figlio, poi gli disse di diffonderla, e come il morbillo quella si diffuse,
ma come la peste non andò via. Ridendo strozzavano le loro ugole e
davano sazio alle loro risa. Piccoli bimbi miei, la gente grande non lotta
perché questa filastrocca finisca, ma paga le tasse, lavora e piange da
sola, mandando a quel paese i pedoni quando è in auto e le auto quando
è pedone. Non cantate più questa filastrocca, piccoli bimbi
miei, che un giorno, conoscendone il significato, le vostre risa diventeranno
pianto. "Ciao Babbuccia mia", dissi, "sono venuto per salutarti."
Maria era lì con un grembiule blu e quel nastro bianco che copriva
i colori dei vestiti che Francesca aveva scelto per lei quella mattina e che lei
aveva scelto per se stessa in qualche negozio della città. Mi allunga
una mano: "Allora vai via, fratellone?" mi disse, e in quel frangente
lei sembrò l'adulto ed io un piagnucolante poppante. Non è vero
quello che dicono dei bambini, loro non sono come noi gli imponiamo di recitare
nei film, loro non piangono per chi va via, piangono solo per chi li abbandona.
"Sai che tornerò presto, piccola mia, lo sai, non è così?"
"Sì" abbassò la testa, certa di non potermi mai perdere,
"lo so." E stetti in silenzio aspettando che lei dicesse l'ultima
parola. Maria viveva con Francesca e Filippo, due amici che s'erano presi
cura di lei da sempre. Francesca adesso stava male, aveva qualcosa alle ovaie,
qualcosa di grave e che le impediva di avere bambini. Così, Maria per loro
era diventata una figlia, ed io potevo esserle fratello senza rischiare di dover
essere anche un padre, un pessimo padre. Preferivo essere un buon fratello. Le
volevo così bene che non c'era stato altro che amore per lei nella mia
vita o forse, lei era una scusa per non dovermi impegnare, lei non mi avrebbe
mai lasciato. "E adesso dammi un bacio Babbuccia" e me lo diede
tra le sbarre proprio mentre la maestra cominciò ad urlare come un motorino
snervante in giro per la città. L'avrebbe rimproverata di lì a poco
per aver parlato con uno sconosciuto, ma lei avrebbe preso il rimprovero mantenendo
il segreto d'aver incontrato il fratello sbandato. "Adesso vado"
mi disse, matura com'era a soli otto anni. "No, aspetta" risposi
io
e ne avevo quindici in più. Le diedi la mia collana, gliela misi
in tasca e andai via: "Tornerò presto amore mio." In casa
del vecchio Popper, l'aria sa di gelsomini piantati in giardino che la moglie
Matilde raccoglie e mescola in acqua ed alcool a fuoco lento per crearne l'essenze
di cui è riempita. Sa di famiglia felice, di Whisky e di vecchiaia, di
malattia e di ricordi nelle foto a colori sbiadite dal tempo. Sa di torta alle
mandorle e di pere lesse. Sa di vita lenta e di maniacalità del senso dell'ordine
ch'è spesso disordine nella mente di chi lo mantiene. "Cosa vuoi
farne figliolo?", mi chiede Popper scendendo in cantina e porgendomi i fusti
da due litri con la scritta Oil sbiadita dal tempo, nemico dei colori come l'autunno.
"Voglio riempirli di benzina e dare fuoco a casa dei miei. Poi dar fuoco
alla mia scuola, al comune e alla villa, all'antenna TV, ai centri sociali, agli
asili, a tutto il paese
e poi andar via". Popper è chino
su un fusto e balbetta suoni privi di senso per chi non sa sentirli. Una E, una
A, e chissà cosa ancora, che stanno cercando di trovare il posto giusto
in una frase che prima o poi uscirà da quella vecchia bocca tremante. Io
aspetto. Poi sorrido per aiutarlo. "Brutto mascalzone, per poco non ti
avevo creduto con quel viso serio" e sorrise anche lui, anche se il suo sorriso
non era bello come il mio, come quello disimpegnato e alcolico della mia generazione.
I sorrisi di Popper, nelle foto in bianco e nero, non avevano altri termini oltre
a "spensierato". Eppure nei cieli volavano aerei carichi di bombe ed
arcaici supereroi in calzamaglia che li aiutavano a credere in loro stessi ma
a non scordare le proprie debolezze. "Ciao vecchio mio" "Ciao
figlio mio" Legai un fusto all'altro e aspettai Martina all'incrocio
di Via Lenin. Arrivò col furgone, strafatta, trascinandosi dietro un gatto
investito e penzolante dalla marmitta e un mucchio di ricordi. Lei che canta
da piccola e gli applausi dei genitori. Lei al primo saggio. Lei al concerto del
paese. Lei con in bocca il sapore di un pene sudicio in erezione in uno studio
televisivo, unta di sperma e di sete di successo. Lei in TV, lei alla Hall of
Fame di Leicester. Lei nella camera di un amante, pezzo grosso, ubriaco. Lei in
strada con i suoi cd ed un occhio nero. Lei che pensa se stessa pensare che i
sogni non esistono più. La mia generazione brucia dietro me con i suoi
giornali di lotta politica al centro di discussione e stampa "Falcone-Borsellino".
La mia generazione scoppietta con i fili elettrici dell'antenna TV. E' maestoso
fuoco fumante, cenere imbrattante, porte smaltate e incandescenti al centro "Guerra
alla guerra". La mia generazione è senza casa, senza scuola, senza
baretto, adesso. Dalla collina dei meriggi alcolici, un tempo Collina Cesarò,
possiamo vedere le stelle, possiamo vedere conigli farfalle notturne e lucciole,
ma non ci frega nulla. Che cadessero gli astri, si estinguessero gli animali tutti,
bruciassero le farfalle a contatto col culo delle lucciole. La città
brucia, e con essa, una parte della mia generazione. "Me la canti la
canzone del Re e del contadino?" "Aspetta che finisca di piangere,
almeno" Ed io aspetto. Non ho nient'altro da fare fino a domattina.
Alessandro
Cascio, 30 anni, Siciliano, vive da 10 anni all'estero. Sceneggiatore e autore
di romanzi, ha studiato con Mario Monicelli, Francesca Marciano, Daniele Costantini
e i fumettisti Wallnofer e David alla scuola Internazionale Comics di Roma. Tra
i suoi lavori, diverse collaborazioni con riviste letterarie italiane ed estere
e romanzi pubblicati con Montedit, KVP e Il Foglio. E-Mail alexcascio@inwind.it
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