L'OCCHIO
Gabriele
Bianchi
Durante. Poco
lontano dalle tre case del borgo, ai confini del bosco dove le piante prendono
il posto delle persone, stava il piccolo capanno di Davi. I mattoni a vista, la
sciarbatura distratta e le travi di legno del tetto grezzo lo rendevano ancora
più selvaggio e solitario di quanto già non fosse, con le due stanze,
una più piccola, di servizio, e l'altra, spaziosa, più adatte alle
bestie che alle persone. Qualcosa più di una stalla, perché aveva
muri veri e finestre, ma sicuramente meno di una casa. La stalla vera stava più
giù, vicino alla strada, ed era l'odore ovale di sterco e terra e foglie
umide a guidare verso di essa. Davi stava ritto sulla porta: i capelli grigi
arruffati, gli occhiali sudici, la sigaretta accesa all'angolo della bocca. Ogni
tanto la muove, pare masticarla e risputarla. Le mani - enormi e callose - stringono
l'una il coltello e l'altra la mola, che si strusciano violenti come sciabole.
Per un attimo si ferma, raggruppa gli arnesi in una mano e con indice e pollice
dell'altra afferra la cicca consumata per l'ultimo tiro a occhi chiusi, con le
guance che rientrano inspirando. Dice qualcosa tipo ora si comincia, tossisce
grasso e fa un passo verso la piccola corte dinanzi a sé, barcollando un
poco sull'erba infangata del mattino. La bestia a terra lo attende, e pare
fissarlo con un occhio stralunato, stanco, aperto ma non troppo, con il dubbio
che rimane poiché pare un occhio umano, scuro scuro come il lago d'inverno.
Un raggio di sole intercetta il vetro spesso del bicchiere posato sul tavolo,
proiettando un lampo di luce nell'occhio dell'animale, che pare muoverlo; così
parve anche a Davi, che per un attimo solo smise di avanzare, e se solo ripensa
a quell'istante sorride marcio e tossisce, incredulo. Chissà la notte cosa
sogna. Chissà se sogna. Le mani di Davi sembrano più antiche
ed esperte del corpo che le ospita, mentre veloci guidano il mannello a togliere
le setole bruciate dal fuoco. E la pelle pallida emerge lentamente, passata dopo
passata, con la lama che per ora non ferisce. La fiamma, al nuovo passaggio, strina
i peli rimasti e anche un po' di scorza, la più esterna, alzando un fumo
grasso e insopportabile che prima inzuppa i vestiti e poi vola via. Quando
il fuoco brucia il buco del culo del maiale, le battute e le bestemmie rauche
di Davi si mescolano alle risa degli altri, facendo ricordare l'allegra sfrontatezza
verso la natura di un mondo antico, in cui il maiale era una ricchezza e la sua
uccisione una festa a cui partecipavano famiglie intere. Anche papà raccontava
di quand'era piccolo e delle urla del maiale sgozzato in via Manzoni, appeso sotto
al mento con il gancio, con il sangue che colava giù e il coltello che
l'apriva in due per il lungo. Loro - bambini - aiutavano i grandi nei compiti
meno importanti, ma diamine quello era il bello: per un giorno sentirsi adulti
prima del tempo, con il sangue che aiutava a lavare via l'infanzia, ma senza macchiare. Ora,
invece, l'immagine era quella del porco issato in alto col paranco per le zampe
dietro e legato come un cristo a una croce di legno. Gli occhi crudi degli uomini
che l'avevano sollevato (tutti tranne Davi) si erano posati insieme sulla bestia
per un attimo soltanto, giusto il tempo di ammirare la nudità ripulita
e fredda dell'animale, che come gesù pareva chiedere perché. Uno
di loro pensò anche che l'unica differenza era che il maiale stava a testa
in giù e il cristo no. Davi s'era fatto serio e, avvicinandosi, aveva
afferrato il coltello molato in precedenza. Il filo della lama incideva preciso
la pelle, come seguisse una linea invisibile tracciata sul ventre della bestia,
affondando per tre quattro dita nel grasso bianco, per giungere sino al petto.
A destino, avrebbe riposto il coltello nella tasca posteriore dei pantaloni, sbuffando. Se
è vero che la parte più nascosta di ogni organismo vivente è
anche la più perfetta, ed è nascosta perché nulla possa impedire
agli ingranaggi di funzionare, come avesse a che fare con un forziere Davi conficcò
le prime due falangi delle dita nel taglio praticato, penetrando nelle carni con
una calma decisa, e spingendo poi con forza in direzioni contrapposte, sino a
scoprire le viscere ancora calde dell'animale: anche se la vita pareva non esserci
più, la perfezione rimaneva intatta e tutti gli organi permanevano in un
misterioso e fatidico equilibrio verticale, forse solo per il tempo di essere
osservati. Quell'enorme vagina si apriva con il suo carico di colori e di odori,
con il ragazzino che stupefatto fissava quella scena incredibile. Un tubo umido
e verdastro come le gronde di rame si snodava infinito nelle viscere, raggomitolandosi
e contorcendosi su se stesso, per il dolore e lo stupore di essere stato scoperto.
Le biancastre venature nervose sullo stomaco formavano un reticolo fitto, sovrastato
dallo stupefacente rosso cupo del fegato. Le mani scavavano lente in quel bordello,
brandendo e recidendo con l'aiuto del coltello gli ultimi legami.
Prima. L'omicidio
si basa sull'inganno, l'inganno dell'assassino verso la vittima, e Davi lo sa
bene: egli vi entra in contatto, la osserva distante, ne carpisce le mosse; nel
frattempo studia come uccidere per divenire implacabile. Poi il contatto. Attirato
in un piccolo recinto dalla mano che l'ha nutrito negli ultimi mesi, l'animale
china il capo per mangiare. Come la scìa di una cometa, il luccichìo
dell'acciaio balena poco sopra l'occhio, che fa appena in tempo a ruotare all'insù
per controllare cosa stia realmente accadendo, prima che il punteruolo schizzi
veloce nel cranio. Il contatto è un attimo, un attimo soltanto, breve quanto
un battito di ciglia o uno schioccare di dita nel silenzio; lungo solo i tre centimetri
che affondano nel cervello, ma sufficiente a far perdere all'animale la cognizione
del dolore. Dieci dodici mani lo afferrano per tenerlo fermo (poiché ancora
ciondola e si dimena come un gigante ubriaco): la fine è nota e il copione
sta tutto scritto sulla punta del coltello che gli buca il cuore. Che brutto
morire adagiati in questo pastone merdoso, fatto di terra e di sangue, che tra
poco si seccherà al sole come niente fosse. Gli altri animali - forse assuefatti
- nemmeno urlano, e alcuni si avvicinano lenti per leccare il sangue al suolo.
Il sapore della morte è anche questo, e si amalgama all'ultimo respiro
caldo della bestia, distesa sul fianco, con gli occhi socchiusi a disegnare un'espressione
curiosa, rassegnata ma sognante. Chissà se le bestie sognano, poi... Dopo. Il
mondo a testa in giù. Il cielo di sotto. La terra in alto, che emana
l'odore forte e rugginoso del sangue non ancora rappreso. Il sole si riflette
nella piccola pozza, regalando alla bestia una tenue eco rosastra. Il ragazzino
si avvicina al muso del maiale per osservarlo bene, per capire dove siano finiti
tutto il calore e la forza di poco prima. Il suo sguardo si avvicina alle larghe
narici, le scruta come fossero boccaporti di una nave alla deriva; poi la pelle,
incredibilmente bianca. Infine l'occhio. Il particolare più nascosto
si fa vivo ed emerge inaspettato solo quando lo sguardo lo illumina. La goccia
di sangue corre ripida dal petto dell'animale verso il muso, superando veloce
il collo e aggirando le orecchie, per giungere improvvisa sulla palpebra dell'animale.
Il sole fa luccicare il rivolo sino all'occhio, che si inonda di rosso per un
istante; e per un istante la palpebra ritrova vita, cedendo e scoprendo all'improvviso
il bulbo nero che fissa implacabile il giovane. Indietreggia di colpo, non
sa se urlare perché solo le donne urlano, ma trattiene a stento le parole
e la paura voltandosi d'istinto verso Davi, cercando in lui una qualunque spiegazione,
un minimo conforto. Davi lo fissava da poco prima: ora annuisce, pare sorridergli.
Un barlume di speranza per il futuro. Sacerdote di un rito ancestrale che si ripeteva
invariato nel tempo, con valori diversi ma con gesti immutati, con gli occhi trasmette
lui il segreto di quei gesti, in uno sguardo gli infonde la tecnica millenaria
nascosta nelle radici delle sue mani callose. Distolto rapido lo sguardo dal
moccioso, si raschia la gola e sputa, quasi a scacciare via da sé l'emozione
del momento per tornare alla dura vita quotidiana, per rendere questa morte "più
uguale" a tutte le altre. Dicono che qui, in un tempo non lontano, ci
fossero gli Etruschi...
Gabriele
Bianchi, nato a Milano nel '77, vive e lavora in Toscana dove si è
trasferito "per amore". Laureato in economia e appassionato di letteratura,
negli ultimi anni si è dedicato alla scrittura di racconti brevi.
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