UN UOMO SOLO -
Brano tratto dal romanzo Un anno sull'Altipiano -
Emilio Lussu
Non
si parlava piú di nuovi assalti. La calma sembrava ridiscesa per lungo
tempo sulla vallata. Dall'una parte e dall'altra, si rafforzavano le posizioni.
I zappatori lavoravano tutta la notte. Il cannoncino da 37 continuava a darci
fastidi, sempre invisibile. Rimaneva dei giorni interi senza sparare un colpo,
poi, improvvisamente, apriva il fuoco contro una feritoia e ci feriva una vedetta. Il
mio battaglione era sempre in linea e attendevamo che il battaglione di rincalzo
ci desse il cambio. Io volevo poter dare indicazioni precise al comandante del
reparto che mi avrebbe sostituito. Giorno e notte, avevo un servizio speciale
di osservazione, nella speranza che il bagliore dello sparo o il movimento dei
serventi tradisse l'appostazione del pezzo. La notte precedente a quella del
cambio, poiché il servizio di vigilanza non ci aveva dato alcun risultato,
accompagnato da un caporale, io stesso m'ero voluto mettere in osservazione. Il
caporale era uscito molte volte di pattuglia, ed era pratico del luogo. La luna
rischiarava il bosco e, all'apparire di qualche raro razzo, la luce improvvisa
dava un'apparenza di movimento alla foresta. Era difficile capire se si trattasse
sempre d'una illusione. Potevano anche essere uomini che si spostassero, non alberi
che, per la velocità del passaggio della luce dei razzi attraverso i rami,
sembrassero muoversi. Noi due eravamo usciti all'estrema sinistra della compagnia,
nel punto in cui le nostre trincee erano piú vicine alie trincee nemiche.
Camminando carponi, eravamo arrivati dietro un cespuglio, una decina di metri
oltre la nostra linea, una trentina dall'austriaca. Un leggero avvallamento separava
le nostre trincee dal cespuglio, e questo coronava un rialzo di terreno dominante
la trincea antistante. Eravamo là immobili, indecisi se avanzare ancora
oppure fermarci, quando ci parve di notare un movimento nelle trincee nemiche,
alla nostra sinistra. In quel tratto di trincea, non v'erano alberi: non era quindi
possibile si trattasse di una illusione ottica. Comunque, noi constatavamo di
essere in un punto da cui si poteva spiare la trincea nemica, d'infilata. Un simile
posto non l'avevamo ancora scoperto, in nessun altro punto. Decisi perciò
di rimanere là tutta la notte, per essere in grado di osservare l'animarsi
della trincea nemica, ai primi chiarori dell'alba. Che il cannoncino sparasse
o tacesse, mi era ormai indifferente. L'essenziale era mantenere quell'insperato
posto di osservazione. Il cespuglio e il rialzo ci mascheravano e ci proteggevano
così bene che decisi di ricollegarli alla nostra linea e di farne un posto
clandestino d'osservazione permanente. Rimandai indietro il caporale e feci venire
un graduato dei zappatori al quale detti le indicazioni necessarie al lavoro.
In poche ore, tra il cespuglio e la nostra trincea, fu scavato un camminamento
di comunicazione. Il rumore del lavoro fu coperto dal rumore dei tiri lungo la
nostra linea. Il camminamento non era alto, ma consentiva il passaggio al coperto,
anche di giorno, ad un uomo che avesse camminato strisciando. La terra scavata
fu ritirata indietro nella trincea, e dello scavo non rimasero tracce appariscenti.
Piccoli rami freschi e cespugli completarono il mascheramento. Addossati al
cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire
a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l'alba ci compensò
dell'attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti,
indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la corvée
del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri
com'erano di non esser visti, ché le trincee e i traversoni laterali li
proteggevano dall'osservazione e dai tiri d'infilata della nostra linea, Mai avevo
visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi
a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne
provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo
alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli
era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente
trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi.
Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così
viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate,
come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili.
Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci,
gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come
noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano
il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa,
i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla
mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero
dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che
prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato
il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere
e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore? Ci
erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra
due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto,
si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello
spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero piú grande degli altri,
perché v'era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo
d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva
scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente,
era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare.
Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora piú
giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati
si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del
caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale. Io
facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare
abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era
molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente
il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava
al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza
una volontà precisa, ma cosí, solo per istinto, afferrai il fucile
del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati
per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che
avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio,
nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro
a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità
per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare. L'ufficiale
austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò
un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il
bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle
sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato.
Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava
il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare. Certo,
facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente.
La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri
militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma
alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili,
della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo
dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti.
Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo
che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene,
se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale?
Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito
che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la
guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di
tirare. E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non
ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo
dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso,
non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere piú calmo,
in una camera di casa mia, nella mia città. Forse, era quella calma
completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale,
giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei
potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che
premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che
la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte
un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso.
La luce dell'alba si faceva piú chiara ed il sole si annunziava dietro
la cima dei monti. Tirare cosi, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale! Cominciai
a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini,
o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo,
staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: "Ecco, sta' fermo, io ti sparo,
io t'uccido " è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare
la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere
un uomo, cosí, è assassinare un uomo. Non so fino a che punto
il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile
e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualità,
una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: "Eh! non sarai tu che ucciderai
un uomo, cosí! " Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei
ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto
che io, oggi, non vedo piú chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato
a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso
non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra,
infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio
del fucile e gli dissi, a fior di labbra: - Sai... cosí... un uomo solo...
io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: -
Neppure io. Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già
distribuito e lo prendemmo anche noi. La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione
di rincalzo ci dette il cambio.
(Brano tratto dal romanzo Un anno sull'Altipiano. Einaudi editori, Torino,
1945.)
Emilio
Lussu (Armungia, Cagliari 1890 - Roma 1975) combatté durante la Grande
Guerra come ufficiale di fanteria della Brigata Sassari. Fondatore del Partito
Sardo d'Azione (1919). Fu deputato nel 1921 e 1924 e partecipò alla secessione
aventiniana. Antifascista, nel 1929 fuggì da Lipari con Carlo Rosselli
e Fausto Nitti, coi quali a Parigi fondò il movimento "Giustizia e
Libertà". Fu tra i dirigenti della Resistenza e, nel dopoguerra, senatore
nelle prime tre legislature
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