TEMPESTA DI TENEBRE
- Brano tratto dal saggio autobiografico
Un'oscurità trasparente -
William Styron
Quando
mi resi conto per la prima volta che la malattia mi aveva messo a terra, sentii
fra l'altro il bisogno di formulare un'energica protesta contro la parola depressione.
La depressione, come molti sanno, venne originariamente definita col termine malinconia,
una parola che in inglese compare nel 1303 e che viene usata più di una
volta da Chaucer; il quale nell'adoperarla sembra perfettamente consapevole della
sua sfumatura patologica. "Malinconia" sarebbe probabilmente ancor oggi
un termine molto più adeguato e suggestivo per rendere l'idea degli aspetti
più cupi della malattia, ma purtroppo fu soppiantata da una parola assai
più vaga e piatta, usata indifferentemente per descrivere una fase di recessione
economica o un abbassamento del livello del terreno, insomma una parola davvero
banale per una malattia così grave. Lo scienziato generalmente considerato
responsabile della diffusione di questo termine in epoca moderna è lo psichiatra
Adolf Meyer, svizzero di nascita, della Johns Hopkins Medical School; certo è
possibile che quest'uomo, peraltro oggetto di giusta venerazione, non avesse un
orecchio abbastanza sensibile al più raffinato ritmo dell'inglese e pertanto
non fosse consapevole del danno semantico che arrecava nel proporre l'uso del
termine depressione per una malattia così violenta e terribile.
In ogni caso, da oltre settantacinque anni questa parola scivola innocua come
una lumaca fra le pieghe del linguaggio, lasciando dietro di sé solo una
traccia sottile della sua intrinseca "malignità" e impedendo,
proprio perché tanto insipida, una consapevolezza generale della tremenda
intensità di questa malattia quando non è sotto controllo. Dato
che io stesso ne ho sofferto fino quasi a morire e ne sono uscito per raccontarne
la storia, desidero schierarmi a favore di una definizione davvero incisiva. Brainstorm
(tempesta mentale), per esempio, presenta lo svantaggio di essere già
stata usata per designare scherzosamente lo stato di ispirazione intellettuale.
Ma occorre muoversi in questa direzione. Se si dicesse che i disturbi emotivi
di una persona si sono trasformati in una tempesta, in un autentico uragano cerebrale
(in effetti spesso non c'è immagine più adeguata per descrivere
lo stato patologico della depressione), anche i profani in materia mostrerebbero
simpatia con parole come: "E allora?", oppure: "Ti passerà,
vedrai", o: "Abbiamo tutti le nostre giornate storte". L'espressione
"collasso nervoso" sembra essere giustamente in declino perché
suggerisce una certa fragilità di carattere. Dunque, pare proprio che siamo
destinati a tenerci "depressione" finché non verrà ideato
un nome migliore e più efficace. La depressione in cui sprofondai non
era di tipo maniacale, cioè quella che si presenta accompagnata da accessi
di euforia e che si manifesta di solito in un periodo precoce della vita. Avevo
già sessant'anni quando la malattia mi colpì la prima volta, e lo
fece nella forma "unipolare", quella che trascina direttamente giù.
Non saprò mai che cosa "causò" la mia depressione, e nessun
altro potrà mai saperlo per quanto lo riguarda. Arrivare a questo genere
di comprensione probabilmente si dimostrerà impossibile, data la complessa
mescolanza di fattori chimici, comportamentali e genetici. Mi limiterò
a dire che di norma nella genesi della depressione sono coinvolte diverse componenti,
tre o quattro, se non di più, che si combinano fra loro in modo imperscrutabile.
Ecco perché il più grosso errore che si può commettere quando
ci si interroga sui motivi del suicidio è quello di credere che esista
una sola e immediata risposta (o più risposte, strettamente legate). L'inevitabile
domanda "Perché l'ha fatto?" conduce di solito a ipotesi stravaganti
e per la maggior parte infondate. Le cause immediatamente addotte per spiegare
la morte di Abbie Hoffman furono: la sua reazione a un incidente automobilistico,
il fiasco del suo ultimo libro, la grave malattia della madre. Per il poeta Randall
Jarrell si trattava invece del declino della sua carriera artistica, crudelmente
sintetizzato da una violenta stroncatura e dall'angoscia che gli aveva procurato.
Primo Levi, si disse, era esasperato dal dover prendersi cura della madre paralitica,
che per il suo spirito era un fardello più gravoso dell'esperienza di Auschwitz.
Certamente è possibile che ciascuno di questi fattori fosse una spina conficcata
nel fianco dei tre uomini, la goccia che fa traboccare il vaso, e pertanto non
vanno ignorati. Gran parte della gente, però, sopporta senza battere ciglio
l'equivalente di un danno fisico, di una carriera in declino, di una brutta stroncatura
e della malattia di un familiare. La stragrande maggioranza dei sopravvissuti
di Auschwitz ha reagito abbastanza bene. Pur feriti e provati dalle ingiurie della
vita, quasi tutti gli esseri umani proseguono faticosamente il loro cammino, invulnerabili
alla depressione. Per scoprire il vero motivo che conduce alcuni e non altri nella
spirale della malattia, bisogna spingersi al di là della crisi manifesta
evitando di formulare ipotesi avventate. La tempesta che mi trascinò
in ospedale a dicembre era cominciata in giugno, sotto forma di una nuvola non
più grande di un calice da vino. Sì, perché la nuvola (la
crisi manifesta) aveva a che fare con l'alcol, una sostanza di cui abusavo ormai
da quarant'anni. La dipendenza dall'alcol, talvolta letale, di moltissimi scrittori
americani è ormai divenuta talmente leggendaria da lasciare dietro di sé
un vero e proprio fiume di studi e di libri, e anch'io usavo l'alcol come una
bacchetta magica che mi aprisse la dimensione dell'euforia e della creatività
ed esaltasse l'immaginazione. Non sento il bisogno di scusarmi o di pentirmi per
la mia confidenza con questo liquido confortante e spesso sublime, che in effetti
ha dato un grande contributo al mio lavoro di scrittore. Peraltro, posso dire
di non aver mai steso una riga sotto la diretta influenza dell'alcol; piuttosto
l'usavo (spesso congiuntamente alla musica) come un mezzo per consentire alla
mia mente immagini e visioni cui non si può accedere quando si è
sobri. L'alcol era un fratello maggiore insostituibile per il mio intelletto,
un amico del quale ogni giorno cercavo l'assistenza e che, lo comprendo solo ora,
mi aiutava anche a calmare l'angoscia e il terrore incipiente che ero riuscito
a tenere nascosti per tanto tempo nelle insondabili profondità del mio
spirito. Cosa accadde all'inizio dell'estate di cui sto parlando? Un tradimento.
Fu perpetrato alle mie spalle all'improvviso, quasi da un giorno all'altro: non
riuscii più a bere. Era come se il mio corpo si fosse ribellato e avesse
cospirato di comune accordo con la mia mente per rifiutare un ristoro quotidiano
che aveva accolto fino a quel momento con tanta buona grazia e del quale, forse,
ormai non poteva più fare a meno. Molti bevitori in età avanzata
hanno sperimentato questa improvvisa intolleranza. Sospetto che la crisi sia stata
almeno in parte legata a problemi di metabolismo (il fegato si rivolta, grida:
"Basta, basta!"), ma in ogni caso scoprii che anche una minima quantità
di alcol, come un semplice sorso di vino, mi provocava nausea, uno stordimento
terribile, la sensazione di sprofondare e infine una ripugnanza vera e propria.
L'amico che un tempo mi confortava ora mi aveva abbandonato, ma non in modo graduale,
con riluttanza, come dovrebbe fare un vero amico, bensì di colpo: mi aveva
piantato in asso ed ero solo. Non ero diventato astemio per scelta né
per volontà: la situazione mi appariva sconcertante, ma anche traumatica,
e faccio risalire lo stadio iniziale della mia depressione proprio a questo momento.
Secondo logica, un uomo dovrebbe rallegrarsi oltre misura per il fatto che il
suo corpo ha abbandonato in modo così sbrigativo una sostanza che stava
minandone la salute: era come se il mio organismo avesse generato una sorta di
enzima "antiabuso" che ora mi avrebbe consentito di proseguire felicemente
per la mia strada e fosse soddisfatto che un trucco della natura mi avesse salvato
da una schiavitù dannosa. Invece, cominciai a percepire un vago senso di
malessere, come se nell'universo domestico nel quale mi ero trovato fino ad allora
perfettamente a mio agio cominciasse a esserci qualcosa di storto, di assurdo.
La depressione non è certo una reazione sconosciuta a chi smette di bere,
ma generalmente in questi casi si mantiene entro limiti poco preoccupanti. Generalmente.
Ma non bisogna mai dimenticare che questa malattia varia enormemente da individuo
a individuo. All'inizio non credetti di dovermi mettere in allarme, dato che
il cambiamento era quasi impercettibile. Ma non potei fare a meno di notare che
le cose intorno a me tendevano certe volte ad assumere sfumature insolite: le
ombre del tramonto sembravano più cupe, i risvegli mattutini meno allegri,
le passeggiate in campagna non più così invoglianti e, soprattutto,
c'era un momento nella mia giornata di lavoro, il tardo pomeriggio, in cui senza
preavviso mi sentivo invadere da una strana ondata di angoscia mista a panico.
La cosa durava pochi minuti ed era accompagnata da una sensazione fisica di nausea.
In effetti, un malore del genere era quantomeno allarmante. Nell'esporre in modo
ordinato questi ricordi, mi rendo conto che avrei dovuto capire benissimo che
mi trovavo già nella morsa di un disordine mentale, ma allora ero assolutamente
ignorante in materia. Quando riflettevo su questa curiosa alterazione della
mia coscienza (la mia perplessità di fronte al fenomeno mi induceva a riflettere,
perlomeno), davo per scontato che tutto questo derivasse in qualche modo dalla
mia astinenza forzata dall'alcol. Il che, naturalmente, fino a un certo punto
era vero. Ora però sono convinto che l'alcol mi giocò un brutto
scherzo nel momento in cui ci dicemmo addio: benché questa sostanza, come
tutti dovrebbero sapere, tenda ad avere effetti depressivi, durante la mia carriera
di bevitore non mi aveva mai procurato crisi di depressione vera e propria, anzi
aveva agito come uno scudo contro l'angoscia. Con la sua improvvisa scomparsa,
il grande alleato che per tanto tempo aveva tenuto a bada i miei demoni lasciava
loro via libera ed essi cominciavano a sciamare attraverso il subconscio: mi ritrovavo
nudo, sul piano emotivo, vulnerabile come mai prima d'allora. Senza dubbio la
depressione aveva covato in me per anni, aspettando il momento giusto per colpire.
E ora mi trovavo al primo stadio della più cupa tempesta mentale... uno
stadio premonitore, come il palpito di un lampo diffuso, quasi impercettibile. Mi
trovavo a Martha's Vineyard, dove ho trascorso buona parte della mia vita a partire
dagli anni '60. Quell'anno l'estate era particolarmente bella, ma io avevo cominciato
a provare una certa indifferenza ai piaceri offerti dall'isola. Mi sentivo opaco,
snervato, e soprattutto stranamente fragile, come se il mio corpo fosse diventato
realmente debole e ipersensibile, e al tempo stesso in qualche modo disarticolato
e goffo, privo della sua normale coordinazione. In breve tempo mi trovai afflitto
da un'ipocondria diffusa. Non c'era nulla che fosse in completa sintonia col mio
Io corporeo: spasmi e dolori, talora intermittenti, spesso continui, sembravano
presagire ogni sorta di atroci infermità. (In base a questi sintomi, si
capisce come mai già nel diciassettesimo secolo - stando agli scritti dei
medici dell'epoca, ma anche alle intuizioni di John Dryden e di altri - malinconia
e ipocondria fossero messe in relazione. Spesso i due termini risultavano intercambiabili
e tali rimasero fino al diciannovesimo secolo anche in scrittori così diversi
fra loro come Walter Scott e le sorelle Brontë, che pure collegavano la malinconia
alla preoccupazione per le malattie fisiche.) È facile vedere in che modo
questa condizione fa parte dell'apparato di difesa della psiche: poiché
rifiuta di accettare il proprio crescente deterioramento, la mente si sforza di
convincere la coscienza che il vero problema sta nel corpo, nei suoi difetti in
fondo quasi sempre rimediabili... e non nella mente, preziosa e insostituibile. Nel
mio caso, l'effetto d'insieme era decisamente preoccupante, contribuendo ad aumentare
l'angoscia che ora non era mai del tutto assente nelle ore di veglia e ad alimentare
un altro strano comportamento: una sconsiderata irrequietezza che mi impediva
di restare fermo e sconcertava i miei familiari e gli amici. Sul finire dell'estate,
durante un viaggio in aereo per New York, commisi l'errore di bere un whiskey
e soda, il mio primo alcolico da mesi e mesi, che ebbe su di me un effetto immediato
e disastroso, causandomi un senso di malessere e di rovina interiore così
orribile che il giorno dopo mi precipitai da un internista di Manhattan per sottopormi
a una serie di esami. Quando, dopo tre settimane di costosissimi test clinici
a tecnologia avanzata, il dottore mi comunicò che ero perfettamente sano,
sarebbe stato naturale da parte mia sentirmi soddisfatto, esaltato addirittura;
e in effetti fui davvero felice per un giorno o due... finché non ricominciò
quell'erosione quotidiana, quel misto di angoscia, agitazione, paura indefinita. Ero
tornato nella mia casa in Connecticut. Era ottobre, e non potrò mai dimenticare
uno dei segni della malattia di allora: l'aria sinistra, quasi palpabile, che
cominciò ad assumere ai miei occhi la vecchia casa di campagna che era
stata mia fedele e amata dimora per trent'anni. Accadeva soprattutto nel tardo
pomeriggio, quando il mio umore toccava invariabilmente il punto più basso.
La luce evanescente del tramonto (sorella al famoso "declivio di luce"
di Emily Dickinson, che alla poetessa parlava di morte, di gelida estinzione),
senza nulla della sua consueta bellezza autunnale, mi serrava nella morsa di un'oscurità
soffocante. Mi domandavo com'era possibile che questo luogo amico, brulicante
di tanti ricordi, di "Ragazzi e fanciulle" (è ancora la Dickinson),
di "risa e sospiri e malizia, / e riccioli e morbide vesti", potesse
sembrarmi ostile e minaccioso in modo così tangibile. Non ero affatto solo,
in senso fisico. Come sempre, Rose era presente e ascoltava con infinita pazienza
la litania dei miei lamenti. Eppure, mi sentivo immensamente e dolorosamente solo.
Non riuscivo più a concentrarmi durante le ore del pomeriggio che per anni
erano state le più produttive e l'atto stesso di scrivere divenne sempre
più difficile, stancante, fino a incepparsi e poi ad arrestarsi del tutto. Arrivarono
attacchi d'angoscia improvvisi e spaventosi. In una bella giornata di sole, mentre
passeggiavo attraverso il bosco con il mio cane, udii il grido di uno stormo di
oche canadesi che volava alto sopra gli alberi accesi di foglie; il volo degli
uccelli - un suono e una visione che normalmente mi avrebbero rallegrato - quel
giorno mi inchiodò lì dov'ero, terrorizzato, indifeso, tremante,
per la prima volta consapevole che non ero in preda ai meri spasimi dell'astinenza
ma a una grave malattia di cui ammettevo, ora, l'esistenza e il nome. Tornando
a casa, non riuscivo a togliermi dalla mente quel verso di Baudelaire, emerso
da un passato remotissimo, che da parecchi giorni attendeva dietro le quinte:
"L'ala della follia mi ha sfiorato". L'esigenza di noi moderni, forse
comprensibile, di smussare gli spigoli più taglienti di molte malattie
ereditate dal passato ci ha indotti a bandire certi vecchi termini un po' crudi
come manicomio, ospizio, demenza, malinconia, matto, pazzia. Tuttavia è
impossibile dubitare del fatto che la depressione, nella sua forma estrema, è
una forma di pazzia. La pazzia è il risultato di un processo biochimico
aberrante. Ormai si è stabilito con ragionevole certezza (superando la
strenua resistenza opposta fino a non molto tempo fa da molti psichiatri) che
tale forma di pazzia è indotta, per via chimica, dai neurotrasmettitori
cerebrali ed è probabilmente il risultato di uno stress sistemico dell'organismo,
che per cause ancora ignote provoca una deplezione di noradrenalina e serotonina,
e al tempo stesso l'aumento di un ormone, il cortisolo. Con questi sconvolgimenti
nei tessuti cerebrali, l'alternarsi di imbibizione e impoverimento, non c'è
da meravigliarsi che la mente cominci a sentirsi provata, colpita, e che i processi
di pensiero, intorbidati, registrino la stessa sofferenza di un organo in preda
al parossismo. Talvolta, benché raramente, un cervello così disturbato
arriva a concepire pensieri violenti nei riguardi degli altri; di solito, tuttavia,
i depressi, con la mente penosamente ripiegata in se stessa, sono un pericolo
solo per la propria incolumità. Il tipo di pazzia che chiamiamo depressione
è, in linea generale, l'antitesi della violenza. È una tempesta,
certo, ma una tempesta di tenebre. Per prima cosa compare un rallentamento, vicino
alla paralisi, delle risposte agli stimoli, dovuto a un abbassamento prossimo
a zero dell'energia psichica. Quindi la malattia finisce per coinvolgere direttamente
il corpo, che si sente spossato, prosciugato. Quell'autunno, mentre il malessere
prendeva pieno possesso del mio organismo, cominciai a concepire l'idea che la
mia mente fosse come uno di quei vecchi centralini telefonici di provincia, un
centralino che veniva gradualmente sommerso da un'inondazione: a uno a uno, i
circuiti erano inghiottiti dall'acqua, con il risultato che alcune funzioni del
corpo e quasi tutte quelle dell'istinto e dell'intelletto venivano lentamente
disinnestate. Esiste una tabella di riferimento, molto conosciuta, di alcune
fra queste funzioni e dei loro guasti. Le mie si erano inceppate secondo lo schema,
molte di esse seguendo il modello degli attacchi depressivi. Ricordo in modo particolare
un fastidioso calo di voce: la voce subì una strana trasformazione e si
fece flebile, affannosa e discontinua; un amico osservò, in seguito, che
era la voce di un novantenne. Anche il desiderio sessuale, un lusso decisamente
superfluo per un corpo instato di emergenza, ebbe un collasso prematuro, come
capita in quasi tutte le malattie gravi. Molti perdono del tutto l'appetito; il
mio era relativamente normale, ma ormai mangiavo solo per tenermi in vita: il
cibo, come qualsiasi altra cosa che rientrasse nella sfera delle sensazioni, mi
era assolutamente indifferente. I disturbi vegetativi più spossanti, però,
erano l'assenza di sonno e la completa mancanza di attività onirica. Sfinimento
e insonnia, combinati insieme, formano una tortura non comune. Le due o tre ore
di sonno che riuscivo a racimolare nel corso di una notte erano sempre subordinate
all'uso di un blando tranquillante, l'Halcion. Da qualche tempo numerosi esperti
in psicofarmacologia hanno lanciato un grido d'allarme: la famiglia dei tranquillanti
a base di benzodiazepina (fra cui Halcion, Valium e Ativan) può avere effetti
depressivi fino all'instaurazione di una depressione grave. Più di due
anni prima della mia crisi, un medico senza scrupoli mi aveva prescritto l'Ativan
come sonnifero, sostenendo con disinvoltura che potevo prenderlo tranquillamente
come un'aspirina. La bibbia dei farmaci, il Physicians' Desk Reference,
mi rivelò in seguito che: a) la medicina che avevo assunto era tre volte
più potente di quella normalmente prescritta; b) se ne sconsigliava l'assunzione
per più di un mese di fila; c) andava usata con particolare cautela in
soggetti della mia età. Nel periodo di cui sto parlando, per dormire non
ricorrevo più all'Ativan ma ero diventato dipendente dall'Halcion e ne
consumavo forti dosi. Probabilmente questo fattore ha dato un ulteriore impulso
ai guai che mi sono poi piovuti addosso. Di sicuro dovrebbe costituire un monito
per le altre persone. In ogni caso, le mie poche ore di sonno terminavano di
solito verso le tre o le quattro del mattino, quando, gli occhi spalancati nell'abisso
dell'oscurità, incredulo e convulso nella devastazione che stava consumando
la mia mente, aspettavo l'alba, che di solito mi concedeva qualche momento di
sonno agitato e senza sogni. Fu durante una di queste trance insonni, ne sono
certo, che fui colto dalla consapevolezza (una rivelazione misteriosa e sconvolgente,
paragonabile a quella di una verità metafisica rimasta a lungo nascosta)
che questo stato di cose, se continuava così, mi sarebbe costato la vita.
Doveva essere appena prima del mio viaggio a Parigi. La morte, come ho detto,
era ormai una presenza quotidiana, e il suo soffio gelido mi sfiorava di continuo.
Non avevo però una nozione precisa su come la mia fine sarebbe arrivata:
insomma, riuscivo ancora a tenere a bada l'idea del suicidio. Ma chiaramente questa
eventualità era dietro l'angolo, e ben presto me la sarei trovata di fronte. Avevo
cominciato a scoprire che misteriosamente, per vie lontanissime dalla normale
esperienza, l'orrore grigio e brumoso della depressione arriva ad assumere la
qualità della sofferenza fisica. Ma non si tratta di una sofferenza immediatamente
identificabile, come quella di una gamba spezzata. Sarebbe più corretto
dire che la disperazione, per una sorta di perverso inganno che la psiche ordisce
ai danni del cervello malato che la ospita, finisce per assomigliare sempre più
al diabolico tormento di trovarsi imprigionati in una stanza spaventosamente surriscaldata.
Non c'è un alito di vento che dia sollievo alla calura, non c'è
via di fuga da questa cella asfissiante: è del tutto naturale che la vittima
cominci a pensare senza posa all'oblio.
(Brano
tratto dal saggio autobiografico Un'oscurità trasparente, Mondadori, Milano,
1996. Traduzione di Raoul Venturi.)
William
Styron,
nato nel 1925 in Virginia, è considerato uno dei più importanti
romanzieri statunitensi contemporanei. Tra i suoi più celebri romanzi,
La scelta di Sophie e Le confessioni di Nat Turner.
.
Precedente Successivo
Copertina
|