ALL'IMPROVVISO

Silvia Persicone



Erano passati tre anni. L'ho rivista. All'improvviso. Quasi per caso. Ma il Caso non esiste, l'ho imparato proprio in questi tre anni: dal mio analista. Lo sospettavo da sempre: da quando volevo iscrivermi a filosofia e invece mi sono ritrovato a economia e commercio per seguire la fidanzatina del liceo, oggi mia socia, vero squalo dello studio, che spesso mi liquida dicendo che "un commercialista romantico è una contraddizione in termini che non si può sentire".
Un bar appena inaugurato, una mattina di sole, il bisogno dei ricordi. L'ho rivista. All'improvviso. Lei era come l'avevo lasciata, come "mi aveva" lasciato. Scarpe da ginnastica, panta-jazz e maglioncino, giallo quella volta, rosa questa. Solo che le scarpe costavano più di trecento euro, i panta-jazz e il maglioncino poco meno: stava sempre con lui.
Questa consapevolezza non mi ha contratto lo stomaco. "Buon segno!" ho pensato, ma appena ha alzato lo sguardo dal suo cappuccino ho capito che era stato tutto inutile, una corsa col fiato corto nella direzione sbagliata.
Sono entrato in quel bar perché mi trovavo in zona per lavoro e non avevo fatto colazione. Prima coincidenza.
Di solito ingurgito la prima cosa commestibile che trovo, appena alzato; il mio metabolismo subisce delle impennate notturne e mi sveglio ogni mattina con la fame chimica. È sempre stato così, ma nei due anni che siamo stati insieme non facevamo mai colazione prima delle dieci. Appena svegli c'era la tabella: corsa di riscaldamento intorno al quartiere, 10 min., jogging vero e proprio fino al fiume e ritorno, 30 min., stretching sul tappeto del salotto, 10 min., doccia fredda e frizioni. E finalmente, meritata colazione al bar: due cappucci e quattro pezzi dolci. Poi lei andava a fare lezione e io cominciavo il giro dei clienti.
Il bar aveva una veranda, che quella mattina brillava al sole. Si vedevano dentro i tavolini, le panche, il bancone in legno, tazze, bicchieri e boccali, e tutta quella marea di quadri e di targhe. Il tipico posto per lei: un pub inglese in piena Roma. Seconda coincidenza.
Dall'altra parte della strada c'era una grossa insegna. Campagna abbonamenti della palestra più in della capitale, la palestra frequentata da tipi come lui e, quindi, da istruttrici come lei. Terza fottuta coincidenza.
Da qualche parte del mio cervello avevo registrato tutti questi elementi e li ho piegati al mio volere per darmi una rivincita, una possibile verifica della mia guarigione, una probabile opportunità per un nostro incontro. O sono stati loro a piegare me ed ha farmi fermare proprio lì? Nessuno può dirlo, comunque non io, l'uomo che non si accorge mai di niente, che non si era accorto di niente e che un martedì sera si è trovato una Lamborghini nera sotto casa e lei che si è portata via pure Amelie, il biguol scelto insieme solo poche settimane prima.
Sono entrato dirigendomi direttamente alla cassa: "un cappuccio e un pezzo dolce". Poi mi sono voltato verso la parete più interna, dove si trovavano i tavoli più grandi e più riservati.
Lei era seduta, al centro di un gruppetto di persone che non avevo mai visto in vita mia. Quattro altre donne e tre uomini per essere precisi. L'attenzione alle asimmetrie è una abitudine che non riesco a perdere.
Sorrideva e girava il cucchiaino fra la schiuma. Il tipo alto e abbronzato al suo fianco stava tenendo banco, sotto lo sguardo estatico di una biondina col capello appena fatto, una quarta antigravitazionale e turgide labbra al botulino. Gli altri ascoltavano con facce fra l'interessato ed il cortese, qualche risata Durbans (non si sa mai dove si nascondano i paparazzi) e, pur essendo solo le dieci del mattino, tutto ricordava molto la Milano da bere di una vecchia pubblicità.
Lei era al centro di un quadro che, nonostante i suoi occhi truccati e il braccialetto di diamanti, continuavo a pensare non le appartenesse sul serio. Sono stati proprio quegli occhi mascherati a riaprire le mie vecchie ferite, con una facilità quasi imbarazzante. Ha sollevato le ciglia dalla tazza e per un breve attimo ha lasciato i suoi accompagnatori per girovagare fra quadri di vecchi fari e improbabili pesci imbalsamati. Sotto la lanterna blu c'ero io. È stato solo un momento, una pausa nel traffico della vita, e poi è scappata di nuovo dentro quella schiuma soffice e rassicurante.
I suoi occhi: un prato verde dove mi sono perso per sempre. Non li ha più spostati da quei sette volti innocui. Sorrideva rispondendo con sicurezza alle battute degli altri. Poi la rossa con un fisico da culturista, eccetto i seni grossi e sodi ed i glutei estremamente femminili, ha guardato l'ora. Sincronicamente hanno preso le borse che avevano ai piedi. Ed in quel momento non ho potuto che provare dolore, solo dolore.
Non c'era più la rabbia di quel martedì sera, il disgusto di quando ho saputo che lo ha fatto per i soldi, la delusione di vederla sulla barca dell'industriale su fetide riviste di gossip, l'ictus che ho sfiorato il giorno che quello stronzo mi ha chiesto se gli tenevo la contabilità, il rancore per averle permesso di rubarmi l'anima in cambio di un sorriso, che mi ha fatto, come se niente fosse, la prima volta che l'ho incontrata.
Festival del fitness di Rimini, estate del 2002. Ero in ferie con Lorenzo, l'amico di sempre, l'unico che davvero mi è rimasto accanto anche nei periodi peggiori. Lei era al palazzetto con un'amica con cui insegnava in una piccola palestra dall'altre parte di Roma, vicino alla stazione di Ottavia: praticamente dall'altra parte del mondo.
Stavamo guardando una dimostrazione di funk. Un ballerino di colore che girava ad ore sulla testa, bloccandosi nelle posizioni più impensate, mentre un esercito di ballerine si muovevano a velocità della luce intorno a lui. Lei era emozionata e felice, come una bambina sulle giostre.
"Chissà che emicrania la sera!" aveva buttato là Lorenzo, primo come sempre a prendere l'iniziativa.
"Gliela farei passare io l'emicrania" aveva risposto senza problemi Daniela.
Hanno provato a stare insieme ma non è andata. Però si sentono ancora e si considerano amici.
Linda, come fa spesso, non ha parlato per un buon quarto d'ora. I quindici minuti più lunghi della mia vita. Mi guardava con quello sguardo di giada. Mi sentivo peggio che durante l'esame di Maturità. Poi si è avvicinata e mi ha sussurrato: "gli angeli del Paradiso ballano tutto il girono così" e, di fronte alla mia aria perplessa, ha voluto farmi dare un'occhiata a come passano il tempo in Paradiso ed ha sorriso. E' vero, io lo posso confermare: gli angeli del paradiso sono quasi tutti neri e ballano funk tutto il giorno. Io e lei ne parlavamo spesso.
In quell'occasione le ho regalato una borsa da palestra viola e nera della Freddy e la settimana dopo si è trasferita a casa mia.
Passandomi accanto, con la borsa, ormai logora e sformata, della Freddy sotto il braccio, si è fermata e mi ha detto, come se nulla fosse successo: "Ciao Michele, hai più notizie degli angeli del Paradiso?"
Avevo solo voglia di piangere ma ho risposto col sorriso più neutrale che sono riuscito a tirare fuori dallo stomaco: "Sai i tempi non sono più facili, anche gli angeli devono preoccuparsi dei contributi e delle tasse, c'è poco da ballare".
Il tempo di battere le ciglia e lei era già fuori, leggera e pronta per un'ora di GAG o di chissà cosa. Gli altri stavano attraversando la strada ed ecco pararsi due fotografi con i loro obiettivi da cartone animato. La rossa si è sistemata i capelli ed il decolté, poi con la dovuta attenzione e l'aria sorpresa, si è riparata dietro il bagnino biondo di Bay watch. Io mi sono lasciato affogare nella crema del cappuccino e nel suo retrogusto di cenere.
Le settimane sono passate e ho immediatamente recuperato l'insonnia che avevo impiegato un buon anno e mezzo di terapia per sconfiggere. E poi, martedì scorso, quella cartolina e quella scrittura tonda, con le lineette corte corte, appena accennate.
Una riproduzione di qualche putto raffaelliano: tre angioletti rubicondi che si affacciano dalle nuvole, in un cielo limpido, di un azzurro confetto. E una sola frase: "Se fossi una donna che torna è qui che tornerei, Linda". Anche io che non ho mai ascoltato musica, neppure durante la turbolenta adolescenza, so che quelle parole appartengono a un cazzo di canzone degli anni 60, 70, 80 o giù di li. Le parole più belle che siano mai state scritte.
E adesso continuo a non dormire, il buio della notte mi accompagna come un amico fedele, al quale far vedere anche le parti più brutte di me. L'aggressività che ho provato verso di lei non c'è più, e questo mi fa sentire uno schifo. Tutte quelle sedute da quello stronzo del mio analista, tutti i nostri bei discorsi sull'autonomia, sulla mia paura dell'abbandono, sull'autostima. La rabbia verso di lei, che ho imparato a esprimere, mi ha tenuto vivo in questi tre anni e adesso dov'è finita? La sto cercando ma non ne trovo traccia, c'è solo una incredibile voglia di averla, di tenerla fra le braccia, di sentirle dire che mi ama. Si può passare sopra al dolore, alla delusione, al rancore e in un semplice battito di ciglia?
Il mio analista direbbe di no. E ci credo, altrimenti a che servirebbero lui e tutti i suoi colleghi? Così continua a ripetermi che la determinazione che metto nel lavoro non è che la sublimazione della mia libido e che se non trovo un canale più adatto alla sua soddisfazione finirò sotto Prozac. Ma io non mi fido del mio analista, perché ha cinquanta quattro anni e si è sposato quattro volte, l'ultima con una studentessa di venti tre anni. Non mi pare che la sua visione della libido lo aiuti a vivere in modo funzionale ed equilibrato il suo mondo affettivo. Sapevo che non ci dovevo andare, ma era lo zio di Lorenzo e mi pareva brutto dire di no ad un amico, e poi sempre meglio che passare questi ultimi tre anni a commiserarmi da solo.
Comunque dubbi, tachicardia, affanni e sudorazioni scandiscono i secondi interminabili delle mie notti e quella scrittura tonda e un po' compressa mi si è incisa nel ventricolo destro. Lo sento ogni volta che respiro, è come una piccola fitta che mi rende gli occhi lucidi. E continuo a chiedermi se è quell'addio che aspettavo e che non c'era stato, o se Linda mi sta chiedendo di fare qualcosa per permetterle di tornare da me. Bella cosa vivere dopo il signor Sigmud Freud!
E intanto la ricordo attorno a quel tavolo nella Milano da bere, mentre a me diceva che avrebbe voluto vivere in un paesino dell'Umbria, la immagino in quella palestra dove aiuterà l'ultima velina a tonificare il grande gluteo, quando mi confessava che da grande avrebbe voluto fare il pediatra. La vedo su quella barca, a pensare che nel mondo esiste altro oltre alla Costa Smeralda.
E intanto si fa giorno. Faccio un giro di corsa fino al fiume e torno indietro. Stretching sul tappeto, nuovo, del salotto. Una bella doccia fredda. Le frizioni.
Alle dieci, eccomi davanti a quel bar.



Silvia Persicone: è nata a Firenze nel 1974, dove vive insieme al marito, al figlio e un pancione e lavora come maestra. Dopo la laurea in filosofia, il master in gestione e sviluppo delle risorse umane e alcuni corsi di scrittura, sta terminando il secondo anno della scuola triennale di formazione per consulenti coniugali e familiari.
Il suo primo romanzo "Dillo a Camilla" è stato pubblicato nel 2004 da Edizioni della Meridiana. Suoi i brevi racconti "Più ciliegia che bordeaux" e "Casa straniera", già pubblicati da Sagarana. Il suo secondo romanzo è in fase di pubblicazione. Per saperne di più: www.dilloacamilla.it




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