GRANCHI, RONDINI

José Lezama Lima



Eugenio Sofonisco, fabbro, dedicava la domenica mattina alla riscossione dei crediti del lavoro del ferro. Usciva dall'aurea assiduità della sua fucina ed entrava con distratta obliquità nelle case dei personaggi piú in vista del villaggio. Non si riusciva a sapere se fosse greco o figlio di greci. Raggiungeva la perfezione solo circondato dalla serenità incandescente del metallo. Custodiva in sé un oblio che lo portava a essere irregolare, e tuttavia irriducibile, nel riscuotere i crediti. Arrivava sempre fischiettando, ma arrivava sempre e non dimenticava. Doveva recarsi a casa del filologo che gli aveva commissionato un morso per il puledro del figlio della propria amante, e mentre il maggiordomo gli veniva incontro, Sofonisco si convinceva che il filologo doveva affidare alla mano del maggiordomo i pagamenti che arricchivano le domeniche. Per lui, riscuotere in moneta sonante significava conservare l'eternità reciproca che il suo lavoro esigeva. Mentre forgiava il ferro, le scintille lo trattenevano nell'oro istantaneo, nel luccichio stellare. Quando riceveva le monete, gli pareva che gli restituissero quelle scintille congelate, affettate come il pane.
Acuto e loquace, gli piaceva mostrarsi lamentoso e piagnucolante. La domenica in cui si recò a casa del filologo entrò con risolutezza senza farsi notare, obliquo come al solito, e attraversando il lungo cortile che doveva percorrere per bussare alla prima porta, vide nel mezzo del cortile una sella che recava incisi i nobili arabeschi di una lingua straniera. Nobilitò i propri polpastrelli percorrendo il tepore di quella pelle e il gelo dei ghirigori in argento di Lisbona. Sostenuto dalla propria distrazione, avanzava sicuro, quando la voce del maggiordomo del filologo riempi il cortile, la piazza e la città. - Insolenza, - diceva, - arrivare quando non si è chiamati, ci serpeggia nelle orecchie con gli acuti dei suoi fischi e si mette ad accarezzare la sella che non ha bisogno della sua voluttuosità. Orosmes, malvagio soffio. Non vieni mai e oggi che ti salta in mente di venire, il mio padrone, il filologo, è andato a colazione a casa dello zio di un meteorologo delle Bahamas qui di passaggio, e non c'è, punto e basta. Voi venite a riscuotere e non ad accarezzare l'argento delle selle che non vi appartengono. Comincia col far male le cose e poi accarezza la propria incapacità. Un fabbro che si diletta con la morosità. Ti travesti da distratto amante dell'argento, ma ti si vede stretto in pugno il fascio delle fatture, i foglietti con le meticolose addizioni. Fai il distratto e intanto accarezzi, ma il tuo unico scopo è quello di riempirti il fazzoletto di sabbia ancor piú sporca e di monete, su cui riposare e arricchirti. Non voglio piú vederti da queste parti, presentati solo quando ti si chiama, allunga la mano e vattene. Lascia stare l'argento delle selle -. La voce tacque, scomparvero i carri di quell'Ezechiele, e Sofonisco passò dalla distrazione a una ritirata lenta, dissimulata.
La domenica seguente si alzò con una voglia incontenibile di tornare a casa del filologo a riscuotere. Provava vergogna per gli strepiti del maggiordomo, ma era incerto, e parlò alla moglie dell'urgenza di quel credito e del malessere che lo tormentava anche in casa. La moglie di Sofonisco si cambiò le scarpe, si lisciò le vesti mentre s'incamminava verso la casa del filologo. Dimenticò di accarezzare la sella prima che la sua mano ricadesse tre volte sul battente.
Non le venne incontro il maggiordomo, bensí la moglie del filologo. Insignificante e sempre in disparte quando il marito era in casa, assumeva un ruolo di comando quando questi era assente, e durante i viaggi del marito pretendeva di cambiare e umiliare il maggiordomo. Gli aveva ordinato di aiutare a lavare i piatti, che lasciasse perdere il piumino e pure i suoi insistenti riferimenti alla benché minima insinuazione sulla sua presenza, colma di affettate titubanze. Aveva visto l'umiliazione inflitta alla nobile distrazione di Sofonisco, sgomento dalla crudeltà degli strilli del maggiordomo. E ora voleva aprirle la strada della riconciliazione.
All'urgenza del desiderio di riscuotere, rispose, con molti salamelecchi, che suo marito persisteva nelle visite domenicali al meteorologo delle Bahamas, giacché molto avevano da discutere riguardo all'influenza della letteratura birmana nel secondo secolo dell'Era Cristiana. Lei non aveva denaro in casa, ma si sarebbe data da fare per saldare in qualche modo il debito. La sorprese un vago cenno. - Ah, seguitemi, - disse. La precedette lungo i corridoi finché giunsero a un'oasi di frescura. Erano nella ghiacciaia della casa. Le mostrò, appesa, una bella coscia di manzo. - E vostra, - disse, - ve la offro in cambio della ricevuta. Per ora non posso pagarvi in altro modo. Può darsi che la prossima settimana vi consegni alcune monete che mi darà mio marito il filologo. Ma no, - disse come per un'illuminazione, - preferisco pagarvi io, subito. È vostra, portatevela via come credete, ma non trascinatela, esige due buone spalle. Andate a chiamare vostro marito. Le porte resteranno aperte, cosí non avrà più fastidi. Scusate, addio.
Giunto a casa, il fabbro posò la coscia di manzo accanto al baule, incerto sulla collocazione definitiva del nuovo monumento che svettava in camera da letto. Possedeva alcuni abiti eleganti, mai usati, in attesa di cerimonie mai giunte; li incartò e li portò fuori, all'angolo della strada, dove il pacco si apri in un cromatismo giallastro. Sollevò la coscia e la sistemò in rispettosa elevazione, a un'altezza che tuttavia non impediva l'agevole affettare quotidiano, e uscì a prendere aria; l'odore penetrante della carne gli aveva causato una respirazione piú profonda, che richiedeva la presenza di alberi nell'aria che si accingeva a inalare.
La moglie si slacciò le vesti attendendo il ritorno del fabbro per coricarsi. Nuda, si avvicinò alla coscia dell'animale e la contemplò accarezzandola con lo sguardo, da lontano: la carne trasudò una specie di goccia di sangue che cadde per andare a scoppiare sul suo seno. Ma non scoppiò; il colpo duro della goccia di sangue sul seno le fece venir voglia di oscurare la camera prima che tornasse il fabbro. Ebbe paura di vedersi il seno e di vedere il marito. Il sonno, l'uno accanto all'altra, li allontanò lungo due strade che conducevano entrambe a una porta di ferro, con scritte illeggibili. Chiaro, lei era analfabeta; lui, aveva cominciato a leggere in greco da bambino, a contare le dracme lustrando scarpe a Smirne e aveva battuto faville nella fucina del borgo di Jagüey Grande. Quando dormiva, dopo aver penetrato con il proprio corpo quello della moglie, i suoi sogni prendevano strade diverse, gli capitava di ricevere un messaggio da Lagasch, sindaco di Mesopotamia, che voleva comprargli tutte le capre. Alla fine del sogno, sognava di trovarsi all'inizio della notte, nel luogo in cui aveva inizio l'iscrizione dei soffi benefici.
Al risveglio, la moglie trovò il coraggio di guardarsi il seno. Era sbocciata una protuberanza di colore carminio che cercò dapprima di nascondere, poi il suo accrescersi la indusse a parlare a Sofonisco della nuova vergogna comparsale sul corpo. Lui non le disse cosa dovesse fare. Era dubbioso, ma poi considerò l'apparizione come qualcosa di sacro, quindi il suo rispetto verso la moglie aumentò, e smise di toccarla. Tutti i vicini le fecero il nome del negro Tomás, il cui padre aveva raggiunto un'età tale che tutti gli anziani del villaggio ricordavano di averlo visto già vecchio nella loro infanzia. Aveva curato le vesciche del vaiolo, camminando appoggiato a un lungo ramo d'arancio, quando diventavano nere, unendosi ad altre bianche. Ci andò e il negro le parlò a lente sillabe, di imprescindibile memoria: - Il fabbro è persona amabile, e mi rallegro di restituirgli la moglie come un metallo. Prima bisogna scavare il tunnel e poi si troverà l'uscita. Io ho l'olio per il tunnel, ma non so prevedere l'uscita, perché Dio ci deve aiutare. C'è un olio di noci di Ipuare, in Brasile, che è caldo e apre la breccia e inizia il percorso. Con questa dinamite oleosa, quella vostra bilia scomparirà, cioè non scompare: entra dentro e cerca una via d'uscita. Applicatelo per una settimana, lasciando cadere una goccia di olio bollente nello stesso punto in cui è caduta la goccia di sangue. Quindi tornate. Qualcosa deve accadere. Ormai non ci si aspetta piú che accada nulla. Prima, quando battevano alla porta, si pensava che avrebbe potuto essere Dio. Oggi si pensa che potrebbe essere un creditore e non si apre. Durante il trattamento con l'olio bollente, vostro marito deve toccarvi tutti i giorni. Il tunnel l'avete. Ora attendete l'uscita.
Sentiva di essere penetrata, ma la penetrazione era in una fase tanto irrisoria del suo cammino che lei non avvertiva dolore. Il topo seguito dalla donnola, il formichiere legato a una lunga catena la percorrevano. Cercavano un'uscita mentre lei sentiva che la protuberanza rosso carminio cominciava ad affondare nel pozzo del suo corpo. Un giorno trovò l'uscita: la protuberanza precipitò da una carie. Da quel giorno cominciò a tremare; bere acqua - orinare - bere acqua, divenne il terribile esercizio delle sue notti. Era convinta di essere guarita. Non aveva forse visto con i propri occhi la protuberanza cadere al suolo e sparire come una nuvola che non si è mai riusciti a vedere? Dovette tornare dal negro Tomàs. - Il tunnel e l'uscita ci sono stati, - le disse, - e l'uscita l'avete trovata da voi. Io non potevo prevedere che una carie avrebbe fatto da porta. Ora non vi serve piú l'olio che brucia, bensí quello che apre lo sguardo. Non potevo certo vedere una porta in una carie, ma conosco quest'olio dal calore naturale che si sta impossessando di voi come un gatto trasformato in nube. Andate dal negro Alberto e lui, che ormai non balla piú in maschera come un diavoletto, vi offrirà i colori dei vostri ricordi, le combinazioni che serviranno al vostro sonno. Siete stata attraversata da animali lenti, dalla millenaria andatura oscillante. Ora andate. Con i vostri passi seguite la lezione che vi detterà lo sguardo. Dovrete trasformare in una fune da equilibrista tutto ciò che calpesterete.
Andò dal negro Alberto. Viveva in una casa patrizia di Marianao, la nobile dimora dei Marchesi di Bombato era andata lentamente in rovina. Nel 1850 i Marchesi davano feste notturne nelle quali si malediva il giungere dell'alba. Nel 1870 era diventata la grande casa grigia dell'esattoria. Nel 1876 era il palazzotto di un casato nobile di Marianao. Ora sullo stemma sopra una porta di mogano si riponeva il mozzicone di sigaretta buono da fumare dopo tre ore. Il fonte battesimale riceveva quotidianamente la materia che rende abominevoli le voliere. Il negro Alberto stava seduto su una poltrona che univa la finezza tecnica di una poltrona di Voltaire alla finezza simbolica di una poltrona di Flaubert. Vedendola si alzò per dispensarle i primi correttivi.
- Il tunnel si è già aperto? - chiese con giocosa solennità. Con quell'elasticità matura che conservava l'impronta dei suoi gesti.
- Si è già aperto e una carie ha fatto da porta. Eppure, anche se ho visto bene, ero perfettamente sveglia, la bilia rossa rimbalzare sul pavimento che lucido tutti i giorni, non mi sento bene e soffro.
In giovinezza Alberto aveva ballato mascherato da diavoletto. Da adolescente ballava nudo, ma col passare degli anni era aumentata la sua collezione di tuniche. Da quando si era ritirato, mostrava la collezione a coloro che il negro Tomás gli mandava affinché li curasse. Passava il tempo a disegnare costumi che ormai non poteva indossare in nessuna festa, e sua moglie, sarta, li copiava come se in ciò consistesse la sua fedeltà. Alcuni si complicavano in labirinti di fili, sete e passamanerie che ricordavano Nijinsky rivisto da Jacques Emile Bianche. Altri si avventuravano fra i segreti pericoli del contrasto di due colori, con lentezza di trireme. Cominciò a dispiegarli dinnanzi alla moglie di Sofonisco. Le cinghie con campanelli che gli serravano braccia e gambe erano invariabilmente sciolte e seguivano le venature d'oro sul fondo verde scuro del rame. Le piú contorte combinazioni lasciavano indifferente la moglie del greco. Ormai pareva che Alberto sarebbe giunto alla fine della sua collezione senza diventare irrequieto e senza che la visitatrice mostrasse la serenità che era venuta a riscattare. Alla fine, le mostrò, fra le ultime tuniche, quella lilla, che aveva sulla schiena una colomba dipinta. I bracciali che gli cingevano le braccia e le gambe ormai non conservavano piú la forma circolare. Nel becco della colomba non c'erano spighe o rametti d'ulivo; il rosso becco mostrava, aperto, il suo duplice rossore. Alberto annotò freddamente nella memoria: bianco, rosso e lilla. Come colui che al risveglio scosta i drappi che il sonno gli tende, la moglie del fabbro disse: - Sono giunta a riva.
Andò a pagare i magnifici servigi del negro Alberto. Rammentò quanto fosse stato orribile andare a riscuotere, portarsi a casa quell'enorme coscia di manzo. Pensò che pagare era come lanciare una maledizione a un volto che non l'aveva provocata.
- Non indagate, - le disse Alberto, - prendete l'osso della coscia e sotterratelo. Ricordatelo, ma non guardatelo. L'ironia del tunnel è la colomba, che trova sempre una via d'uscita. Pensavo di dovervi svegliare, mentre il vostro stesso sangue vi ha fatto posare la mano su un corpo bianco. La colomba bianca e la lingua rossa ripongono il vostro sguardo nella quotidianità del mattino.
- Tuttavia, - rispose lei, - il negro Tomás mi aveva detto che Sofonisco doveva toccarmi, ma io avevo capito che lui mi temeva. Mi accadevano cose strane e lui mi sfuggiva. Mi abbracciava, ma nel fondo dei suoi accertamenti carnali mostrava indifferenza, come se io mi fossi tramutata in un'immagine separata dalla carne. Ora mi ricorderà con piú precisione e troverò di nuovo posto in lui senza spaventarlo -. Ciò detto, si tolse dal seno un filo che il negro Alberto, sempre all'erta, prese a tirare, e quando tutto il filo fu dipanato, lo raccolse da terra e lo gettò in grembo alla moglie, che continuava a cucire, ripetendo mansueta i suoi disegni.
Erano passati gli anni che già aveva il figlio di Sofonisco e il sette pitagorico si mostrava con il ritmo della palla che rimbalzava a terra. La sua foga lo induceva a colpire la palla tanto rapidamente che a volte pareva che la palla stessa cercasse la sua mano come se fosse un muro, con la certezza di venir sempre interrotta. Altre volte, dopo essere caduta a terra, la palla si sollevava come se volesse raggiungere l'altezza di un fantasma impossibile. La madre osservava con languida perplessità la frenesia del figlio. La frenesia aumentava, lui diventava rosso, come il padre quando dava colpi di martello tra le scintille. Sembrava cieco, nell'istante in cui la palla colpiva il suolo, e poi, quasi con indifferenza, non ritrovava l'orgoglio dello sguardo alla vista dell'altezza raggiunta. Conquistando un'altezza incredibile per la forza della piccola mano, raggiunse una quota misteriosa che non avrebbe piú superato. La palla oscillò, imboccò un canale invisibile e infine si fermò addormentata sopra lo schermo di spesso cartone che copriva la lampadina. La madre del piccolo Sofonisco si mise in moto lieta per dare al figlio la gioia del ritrovamento. Come se avesse inventato il modo di riempire l'aria di pesci, usci in cortile e prese il bastone che teneva i fili per stendere il bucato sospeso il piú lontano possibile dalle macchie di fango. Diede un colpetto alla palla per farla rotolare giú dal paralume. Non poteva prevedere la vertiginosa velocità che la palla avrebbe acquistato, molto superiore a quella delle sue gambe. La colpi sulla nuca. Il bimbo nascose la palla per poter dedicare a quel gioco, il giorno seguente, lo stesso tempo. Il fabbro andò a dormire, i muscoli, induriti dalla razione quotidiana di martellate, avevano bisogno del balsamo morbido del sonno. Il bimbo doveva nascondere qualcosa per riuscire ad addormentarsi. Lei tornò al proprio ruolo: coricarsi senza svegliare colui che le stava accanto. Sognò di essere senza gambe e, simile a un cerchio, di muoversi senza poter definire alcun percorso. Con una lentezza secolare, sognò che le spuntavano germogli, quindi prolungamenti e infine gambe. Quando si rese conto di poter camminare si trovò all'ingresso di un tunnel. Sapeva già tutto, il sogno era di facile interpretazione, accompagnato dai ricordi, e avverti la fatica di una noia senza fine.
Uscì. dal sogno nell'istante in cui stava per entrare nel tunnel, ma risvegliandosi si portò una mano alla nuca e senti di nuovo la protuberanza rosso carminio. - Eccola qui, - disse, come chi trova ciò che si aspetta.
È tornato come al solito, - rispose Sofonisco aprendo gli occhi, - a fare del male, e il peggio è che dobbiamo tirare avanti lo stesso. Chi si ferma senza aspettare l'altro fino all'ultimo, fino all'ingresso, è colui che potrà ricordare.
Bisogna controllarlo, seguirlo, è già la seconda volta e ora viene per distruggere, come chi se la prende con un corpo abbandonato, privo di prolungamenti che possono attrarre o rifiutare. Porta, tunnel, carie, la colomba trova la via d'uscita, tutto ciò non ha piú importanza. Non so neppure se il negro Tomás, vedendo questa nuova cosa nella stessa persona, non cercherà di sottrarsi, fingerà di tendere un agguato per riposare. Io stessa ho cancellato la possibilità della sorpresa che il mio corpo appena lavato può offrire. Mi vedo obbligata a percorrere una strada di desideri già esauditi.
Sí, - disse Sofonisco, ormai non piú circondato dall'aureola delle scintille, - ma tutto questo accade davanti a me e non posso stare a guardare uno spettacolo tanto terribile mentre dormo e sento che ti corichi accanto a me.
- Allora, - disse lei, - devo difendere la tua salute e sebbene mi sia già tramutata in cristallo, devo andarmene affinché i tuoi occhi non si offuschino.
- Tutt'a un tratto, quando giunge il granchio, - disse il fabbro tremante, - mi vedo costretto a retrocedere e non riesco piú a toccarti. Quando tu lotti con queste contraddizioni che ti sono state imposte, io mi affaccio e vedo che ciò che prima mi era chiaro scompare, che dovrò ritrovarlo dopo una parentesi pericolosa. Sebbene tu non abbia piú alcuna curiosità, io devo riuscire a comprendere la tecnica, la forma che tu assumi per affondare in questa tua separazione dal mio corpo. Quella monotonia che tu abbozzi, quell'impertinenza nel verificare i tuoi desideri, rivela un indurimento che io giustifico, poiché lungo i percorsi che ti imporranno, hai bisogno di una grande opacità, perché la luce ti potrebbe rimpicciolire, sorprendendoti in un momento in cui nessuno sarebbe in grado di riconoscerti.
- Ah, tu, - sentenziò la moglie, - ti svegli ora che non c'è piú bisogno che mi tocchi. Ora che mi spunta sul corpo questo scorpione, tu ti arrovelli sugli sforzi che io faccio per togliermelo di dosso. Ma quando vedrai che non potrò piú sbarazzarmene, allora comincerà per te la maturità -. Il giorno dopo, col fiore sul seno andò dal negro Tomás.
Attraversò la baia. Il negro la fece fermare tra un angolo di strada e un lampione, distante cinque metri. In gran fretta le consegnò il flacone con l'olio e poi si rese invisibile. La moglie del fabbro distinse cerchi e case. Il semicerchio tracciato dalla spiaggia, i cerchi dei caroselli da cui partivano scintille di fosforo e colpi di frusta, e piú sopra le case dipinte di rosa dalle porte arancioni e i cancelli color panna. Negri travestiti da diavoletti avanzavano dalla spiaggia in direzione dei caroselli e lí sparivano. Cominiavano a stirarsi, stesi al suolo, quasi fossero stati abbandonati là dalle onde. Si stiracchiavano, eccoli in piedi e ora lanciano grida acute come uccelli decapitati. Poi iniziano le litanie e quando raggiungono i caroselli le voci si fanno dure, unite in un coro che deve farsi udire. I danzatori dei caroselli, come se masticassero il fango dell'oltretomba, tagliano le maschere che hanno sul volto con coltellate che lasciano una falce di luna cosparsa di fuliggine e di zucca. La zucca è stata frutto e ora è una maschera e si è cambiata d'abito dinnanzi ai nostri occhi come se la carne si tramutasse in osso e per un raggio di sole notturno lo scheletro si rivestisse di cuscini nuziali. Quelle case, muovendosi, paiono fuggire, e ci colpiscono il costato. E il desiderio inappagabile; i diavoletti avanzano verso i caroselli e questi li respingono di nuovo verso la spiaggia. I soldati mummificati resistono a quella lava. Uno sguaina la propria arma e come per incanto spunta un gluteo battuto come un tamburo. Un piccolo negro di sette anni, figlio di Alberto, quello delle tuniche, vestito da marinaio veneziano, fa volare un aquilone per celebrare la coincidenza dell'arma con il gluteo. La moglie, portatrice del granchio, abituata alle scintille del fabbro greco, retrocede dall'angolo fino al lampione. Quando i demoni vengono respinti verso la spiaggia, lei avanza cauta verso l'angolo. Quando i diavoletti giungono quasi dinnanzi al carosello, lei si ritira verso il lampione. Provò terrore e la voce le saliva quasi volesse rompere gli argini, ma il granchio che portava sulla nuca faceva da tappo. Le grandi pressioni concentrate nei cori dei negri avvertirono una vaga tristezza vedendo che riuscivano a spostarla solo dall'angolo al lampione. E alla limitazione, all'assedio del suo panico opponevano l'acutezza delle loro voci in un crescendo infinito di maree. Piú tardi seppe che un poeta ceco che assisteva alla scena per far colore, abituato ai crepuscoli danzanti dell'Albaicin, aveva cominciato a tremare e a piangere, tanto che un poliziotto aveva dovuto proteggerlo con il proprio mantello e condurlo in cella perché potesse dormire senza diavoli. Il giorno dopo le pagine del suo quaderno risplendevano come petali idioti tra il petrolio e la gelatina delle formiche tambochas, restituite da pescatori eruditi alle acque morte della baia.
E oltre i caroselli, le case, affollate fino a scoppiare, con i lucernari chiusi per evitare che la luce suddivida i corpi. Ballando davanti agli angoli, ai santi, al fango tirato sui muri, in ognuna delle strette case si ripete la camminata della spiaggia verso i caroselli. D'un tratto, un corpo avvolto in uno straccio arancione viene lanciato oltre le porte, i soldati impazziti sparano pallottole come razzi, ma le case chiuse, piene fino a scoppiare, disdegnano il fuoco artificiale. - Qui ti incontrai e qui ti uccisi -. E la coltellata... Ah... La moglie del fabbro sente che le inchiodano la testa e retrocede verso il lampione. Passa sopra di lei, come in un assalto, tutto il trofeo della festa. Riceve il chiarore, il mattino comincia ad accarezzarla. Comincia a sentire, a riprendersi e si stupisce poiché il flacone dell'olio del Brasile ribolle e vuole esplodere. Crede di dover ancora separare i gruppi, chiede permesso e non c'è nessuno. La scialuppa che la riporta, unico membro dell'equipaggio, le permette un sonno duro che galoppa sul petrolio. Scende dalla lancia a passi rapidi, come se dovesse risalirvi. Quando giunge a casa sente il marito e il figlio rispettosi delle abitudini di sempre. E si porta alla nuca l'olio ribollente. - Ha già imboccato la strada, - le ripete il negro Tomás quando lo consulta, - e uscirà oltre il tunnel -. Al mattino la protuberanza rosso carminio schizza via di nuovo. Ora è uscita dal tunnel dell'orbita dell'occhio sinistro. Ma l'ansia che persiste dentro di lei è insopportabile. Il marito, distante da lei nella sua solitudine raddoppiata, si porta continuamente l'indice alle labbra. E anche quando è solo e lontano da lei, ripete quel gesto, che il vicinato commenta e ripete a sua volta. Il figlio, sempre piú selvatico, prima di addormentarsi pone dinnanzi a sé tali ostacoli che la palla rotola come se fosse acqua stagnante o uno scarafaggio disprezzato, il cui volo è osservato con indifferenza.
- Cosa vi succede? - dice dopo il dolce, lanciando la palla al figlio, che la lascia cadere, senza interessarsi al suo movimento.
Sei in vacanza, - ora si rivolge al marito, - per vedere se ha piú fortuna, - e non fai niente, e la ferraglia sta riempiendo la casa di una tale sporcizia che sarà impossibile ripulire quando dovremo traslocare.
Noi traslocheremo, - le risponde quasi a voler peggiorare la situazione, - e i ferri resteranno, ormai non servono nemmeno piú a fare una scintilla. Preferisco guardare una lucciola di notte che strappare una scintilla a questi ferri di giorno.
Ora, - le diceva qualche giorno dopo il negro Tomás, - non posso prevedere il duello tra la rondine e la colomba. Né in che modo vi parleranno. So che la rondine non può entrare in casa e conosco l'ombra della colomba. E tuttavia una rondine si ostinerà a cercare di penetrarvi, e la colomba le farà del male. Ogni volta che lottano rondine e colomba viene la malombra.
Cercava di fuggire dalla sua abitazione. Con un pacchetto con sé, in caso dovesse fermarsi nei parchi di notte, portava ancora sul seno il fiore. Accadeva spesso che il fiore rotolasse, cercando di sfuggirle, ma la sua indifferenza poteva ancora stendere la mano e riprenderlo. La sua attenzione indicò i carri di rondini che diradavano le nubi. Non era sua intenzione, fin dove poteva spingersi il suo sguardo, posare la mano sul collo di qualcuno di quegli uccelli. Il verso di Pitagora, domesticas hirundines ne habeto, che sconsigliava di portarsi in casa le rondini, per lei esisteva. Osservava i loro stormi perfetti, dall'obliquità interrotta e geometrica. Riuscí appena a compiere un gesto frenetico con la mano destra per scacciare una rondine che, lasciato lo stormo, era partita come una freccia destinata a conficcarsi nel suo viso. Respinta, tornò per un istante alla posizione di partenza, quasi per non perdere l'elasticità che l'avrebbe nuovamente scagliata, come il raggio di sole che si mostra mentre la nube retrocede. Terrorizzata, afferrò la rondine per il collo e cominciò a stringere. Quando sentí la freddezza delle piume, nauseata, aprì la mano per lasciarla andare. Intontito, l'uccello non trovava la forza per allontanarsi e le girava intorno a una distanza insulsa. Gesticolava e gridava per far fuggire la rondine, ma quella insisteva, come istupidita dalle carezze di un ubriaco. Dovette fuggire, volgendo il viso per assicurarsi che l'uccello non avesse piú la forza di inseguirla. Il mattino dopo, come sempre accade con la vergogna della coscienza, ripassò dal luogo dell'agguato. Accanto al pacchetto la rondine sfoggiava con soffocata lentezza l'ultimo gelo. Riuscí a sentire i commenti che giungevano dagli angoli, che narravano gli sforzi compiuti dalla rondine per avvicinarsi al pacchetto. Quella stessa notte fece un sogno, mentre il fabbro e suo figlio mantenevano da lei una distanza dettata dalla prudenza: la rondine era di cartapesta; la rugiada aveva inzuppato la carta del pacco e ammorbidito lo spago che lo serrava. Dentro, un bimbo gelatinoso, disossato in una fucina che lavorava con martelli ad acqua, offriva l'ombelico con una protuberanza color carminio per far abbeverare il becco di mogano della rondine.
Dopo tanto guerreggiare era tornata alle sue passeggiate crepuscolari. Si dilettò nell'associare due ricordi, mescolandoli e quindi separandoli con le sue pinze ironiche. Credevano di averla lasciata serena, non la sfuggivano piú, ma ormai attorno a lei nulla si metteva in marcia verso il suo destino. Pensava di ricordare le cose che le passavano accanto con la durezza di un graffio. Allontanava da sé il volto che le si avvicinava o la mano che le veniva tesa tanto che li vedeva come un'immagine confusa. Poteva ridurre il cielo alla dimensione di una tunica e la colomba che gettava ombra su quell'altra, immobilizzata con la sua lingua di un rosso contrastante, sulla tunica lilla. Godeva dell'ombra che le faceva la colomba che non si avvicinava mai quanto la rondine quando è inseguita. La luce cominciava a definirla e ormai il fabbro e suo figlio non avvertivano piú il passaggio del granchio sulla sua nuca o sul suo seno, che aveva sollevato con ritmica levità il fiore. Il granchio sentiva che gli avevano tolto quel corpo che attanagliava e che credeva suo. Gli avevano tolto quel corpo di cui aveva bisogno per sopravvivere, proprio come i tappeti, che reclamano i nostri passi con la loro riservata eleganza.



(Tratto da Racconti, Einaudi editori, Torino, 1987. A cura di Fabio Rodríguez Amaya, traduzione di Monica Molteni.)


José Lezama Lima (L'Avana 1910-1976), poeta, romanziere e saggista cubano, autore del romanzo Paradiso.




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