LENI E MARIANNE
Anne Seghers
(
) La fattoria, come pure la montagna, era avvolta da una tremolante foschia,
non sapevo se fosse per il pulviscolo di sole o per la mia stanchezza, che annebbiava
tutto al punto che le cose vicine evaporavano e quelle lontane si rischiaravano
come una Fata Morgana. Mi alzai, la stanchezza mi angustiava, per un po' la foschia
davanti ai miei occhi svanì. Uscii dalla palizzata di cactus attraverso
una spaccatura e girai attorno al cane che se ne stava completamente immobile
come un cadavere a dormire sulla strada con le gambe distese. Era prima della
stagione delle piogge. Le radici scoperte di alberi spogli s'attorcigliavano aggrappandosi
al pendio nell'atto di pietrificarsi. Il muro bianco si avvicinava. La nube
di polvere o anche di stanchezza, che per un po' si era diradata, si andava facendo
adesso più spessa nell'incavo dei monti, non era scura come lo sono invece
le nubi, ma splendente e tremolante. Avrei creduto ch'era così perché
avevo la febbre, se un leggero e caldo soffio di vento non avesse disperso verso
altri pendii le nubi come brandelli di nebbia. Dietro il lungo muro bianco
s'intravedeva del verde. Probabilmente c'era una sorgente o un ruscello isolato,
che irrigava più la fattoria che il paese. Dalla casa in basso, che non
aveva finestre sulla parte della strada, si intuiva che era disabitata. L'unica
luce di ieri sera, se non era stata un'allucinazione, era probabilmente del guardiano
del cortile. Il cancello a lungo inutilizzato e malandato era divelto nella parte
che faceva da porta d'ingresso. Nell'arco sovrastante c'erano tuttavia ancora
i resti di uno stemma corroso da innumerevoli stagioni di pioggia. I resti dello stemma
mi riportavano a qualcosa di familiare, come le mezze conchiglie su cui poggiava.
Entrai nella porta divelta. Adesso sentivo con stupore venire dall'interno un
leggero e regolare crepitare. Avanzai ancora un passo. Ora potevo sentire l'odore
del giardino che diventava sempre più fresco e rigoglioso quanto più
a lungo m'affacciavo con lo sguardo. Il crepitare divenne presto più chiaro
e tra il cespuglio sempre più fitto e odoroso vidi il regolare andare su
e giù di un'altalena o di un dondolo. Adesso la mia curiosità era
a tal punto risvegliata che attraversai di corsa la porta verso l'altalena. In
quello stesso istante qualcuno gridò "Netty!" Nessuno più
mi aveva chiamata con questo nome dal tempo della scuola. Avevo imparato a prestare
orecchio a tutti i nomi, buoni e cattivi, con i quali amiche e nemiche avevano
l'abitudine di chiamarmi, i nomi che mi si erano aggiunti via via in molti anni
in strade, assemblee, feste, stanze incui trascorrevo la notte, interrogatori
di polizia, titoli di libri, articoli di giornale, protocolli e passaporti. Quando
ero malata e priva di coscienza, qualche volta avevo proprio sperato in quei vecchi
nomi di un tempo, tuttavia rimaneva come perduto il nome che credevo per autosuggestione
potesse risanarmi, farmi essere di nuovo giovane, ridarmi piacere, pronta ad affrontare
con i compagni di un tempo la vecchia vita, che era irrimediabilmente perduta.
Al risentire il mio nome di allora rimasi sconvolta e mi aggrappai alle trecce
chiudendole nei pugni, sebbene in classe mi avessero sempre presa in giro per
questo gesto. Mi meravigliai che potessi aggrapparmi alle mie grosse trecce: allora
non era vero che nell'ospedale me le avevano tagliate. Dapprima anche il tronco
d'albero al quale era inchiodata l'altalena sembrava stare in una densa nube,
che tuttavia si diradò e rischiarò presto in ricchi cespugli di
biancospino. Subito a uno a uno brillarono i ranuncoli nel vapore che si sprigionava
dalla terra tra l'erba alta e folta disperdendosi fino a lasciare distinguere
in disparte denti di leone e gerani. In mezzo c'erano anche cespugli di gramigna
brunorosati che tremavano al solo guardarli. Ad ogni estremità del
dondolo sedeva a cavalcioni una ragazza, le mie due migliori amiche di scuola.
Leni si spingeva con forza con i suoi grandi piedi, infilati in scarpe a punta
chiuse da bottoni. Mi sovvenne che a lei venivano sempre passate le scarpe di
un fratello più grande. Il fratello era poi caduto nell'autunno del 1914
nella prima guerra mondiale. Mi meravigliai nello stesso tempo di come il viso
di Leni non riportasse alcuna traccia delle terribili vicende che avevano sconvolto
la sua vita. Il suo viso era liscio e puro come una mela fresca, non gli restava
il benché minimo segno, né la minima cicatrice dei colpi che la
Gestapo le aveva inferto durante l'arresto, quando si rifiutò di dare informazioni
sul conto del marito. Nel dondolare, la sua pesante treccia si staccava di netto
dal collo. Con le sue folte sopracciglia aggrottate aveva sul viso tondo quell'espressione
decisa, alquanto energica, che assumeva da piccola di fronte a tutte le imprese
difficili. Conoscevo bene il solco sulla sua fronte, sul suo viso tondo e liscio
come uno specchio, lo assumeva in ogni situazione, nei momenti difficili delle
partite a palla, nelle gare di nuoto, durante i compiti in classe e più
tardi anche nelle assemblee concitate e quando distribuiva i volantini. Avevo
visto quello stesso solco tra le sue sopracciglia l'ultima volta al tempo di Hitler
poco prima della fuga definitiva nell'ultimo incontro con i miei amici nella mia
città natale. Lo aveva sulla fronte anche quella volta, quando il suo uomo
non era venuto all'ora concordata nel luogo concordato, per cui si era dedotto
che era stato arrestato nella tipografia vietata dai nazisti. Sicuramente aveva
aggrottato sopracciglia e bocca quando lei stessa era stata arrestata. Quel solco
sulla fronte, che un tempo si stagliava soltanto in particolari occasioni, era
diventato un segno caratteristico quando nel campo di concentramento femminile
nel secondo inverno di questa guerra, lentamente ma premeditatamente, la si era
lasciata morire di fame. Mi meravigliai di come avessi potuto dimenticare per
un momento la sua testa ombreggiata dal largo nastro che le teneva la treccia,
quantunque ero sicura che nella morte aveva ancora conservato il suo viso a forma
di mela con quell'incavo sulla fronte. All'altra estremità del dondolo
era accovacciata Marianne, la più carina della classe, le gambe lunghe
e sottili incrociate sull'asse davanti a sé. Aveva le trecce biondocenere
legate a crocchia sopra le orecchie. Il suo viso, così nobile e regolare,
intagliato come i volti delle statue medioevali del duomo di Marburgo, non suggeriva
che allegria e dolcezza. Le si leggevano crudeltà, colpa e mancanza di
cuore quanta se ne può vedere in un fiore. Dimenticai quasi subito tutto
quanto sapevo di lei, ero felice di vederla. Per il suo corpo dritto e sottile
correva ogni volta un fremito, quando, senza che si desse slancio, aumentava l'oscillazione
dell'altalena. Si avvertiva come se potesse prendere il volo senza il minimo sforzo,
il garofano tra i denti e la blusa che le si stringeva sul seno piccolo e sodo.
Riconobbi la voce della nostra anziana maestra, la signorina Mees, che ci cercava,
proprio dietro il muretto che divideva il cortile dell'altalena dalla terrazza
del caffè. "Leni! Marianne! Netty! ". Non mi afferrai più
le trecce per lo stupore. La maestra non mi poteva chiamare con nessun altro nome
ora che ero insieme alle altre. Marianne tirò giù le gambe dall'altalena
che subito s'inclinò dalla parte di Leni e per farla scendere con comodo
pose i piedi saldamente sull'asse. Poi le mise il braccio intorno al collo e con
delicatezza le sfilava l'erba dai capelli. Adesso mi sembrava impossibile pensare
a tutto quello che di loro mi era stato raccontato e scritto. Come Marianne, che
con tanta attenzione teneva ferma l'altalena per Leni e con altrettanta amorevolezza
e amicizia le sfilava l'erba dai capelli finanche cingendole il collo col suo
braccio, potesse poi in seguito con tanta asprezza rifiutarsi di fare a Leni un
favore. Era impossibile che dalle sue labbra fosse uscita quella risposta e che
non si fosse presa cura di una ragazza, che in qualche tempo, da qualche parte,
una volta, per caso, aveva frequentato la sua classe. Un qualunque spicciolo,
speso per Leni e la sua famiglia, sarebbe stato buttato via, quasi una truffa
per lo Stato. I funzionari della Gestapo, che avevano arrestato uno dopo l'altro
entrambi i genitori, spiegarono ai vicini che la bambina di Leni, rimasta sola,
doveva essere affidata a un istituto d'educazione nazionalsocialista. In seguito
a ciò alcune donne raggiunsero la bambina che stava al campo giochi e la
tennero nascosta, pensando di poterla portare a Berlino dai genitori del padre.
Corsero da Marianne per avere in prestito i soldi del viaggio, avendola vista
nel passato qualche volta a braccetto con Leni. Ma Marianne si rifiutò,
aggiungendo che suo marito era un alto funzionario nazista e che Leni e suo marito
era giusto che fossero stati arrestati perché aveva trasgredito agli ordini
di Hitler. Le donne ebbero paura di essere denunciate anche loro alla Gestapo.
Mi venne da pensare che anche la piccola figlia di Leni avesse avuto la fronte
solcata come sua madre, quando erano andati a prenderla per trascinarla a forza.
Adesso Marianne e Leni si tenevano l'una l'altra venendo dal giardino dell'altalena,
appoggiandosi tempia a tempia con le braccia avvolte intorno al collo, ignare
che l'una avrebbe perso la sua bambina per colpa dell'altra. Io ero diventata
un po' triste, mi sembrava, come mi accadeva spesso al tempo della scuola, di
sentirmi esclusa dai giochi comuni e dall'affettuosa compagnia delle altre. Ad
un tratto entrambe si fermarono e mi presero in mezzo a loro.
(Tratto dal romanzo
La gita delle ragazze morte, Filema, Napoli, 2000. Traduzione di Eraldo
Cortese.)
Anne Seghers, pseudonimo di Netty Reilling (Magonza 1900 - Berlino-Est
1983), scrittrice tedesca. Moglie dello scrittore ungherese László Radványi, iscritta
fin dal 1928 al partito comunista tedesco, dal 1933 fu esule in Francia, Spagna
e Messico; nel 1947 tornó in patria, stabilendosi nella RDT. La sua produzione
narrativa, il cuo realismo programmatico è spesso ravvivato da toni d'intensa
drammaticità, nasce sotto il segno della Nuova oggettività, anche se la Seghers
ne corregge in parte il tono documentaristico con venature surrealistiche. Notevoli
il suo primo romanzo La rivolta dei pescatori di Santa Barbara e La
settima croce, uno dei pochi convincenti romanzi sulla Germania nazista. Ricordiamo
fra gli altri La via di Febbraio, Visto il transito e I morti non invecchiano,
un tentativo di cogliere la continuità della lotta rivoluzionaria in Germania
fra il 1918 e il 1945. Più vicine al realismo socialista ortodosso le ultime opere
della Seghers, come il romanzo La decisione e i racconti di La forza
dei deboli. Nel 1980 ha pubblicato Tre donne da Haiti. Nel 1990 è uscito
postumo Il giudice giusto, un testo risalente al 1983, amara confessione
per la mancata difesa dell'amico Walter Janka, arrestato dalla polizia segreta.
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