JANS JANSEN



Anne Seghers

 


Nessuno sa se Jans Jansen quel giorno cadde perché gli girava la testa, o se la testa gli girava perché era caduto. Inciampò, cadde, e subito balzò di nuovo in piedi. Si toccò la testa, sul dito non c'era traccia di sangue, e corse sul ponte, come faceva tutti i pomeriggi. A cavalcioni sulla spalletta se ne stavano seduti un paio di ragazzi, e anche Jans si arrampicò. Eppure oggi non era più così straordinario starsene a cavalcioni sulla spalletta del ponte. Restò seduto solo perché non sapeva spiegarsi come mai non fosse più così straordinario. Ma il ponte e l'acqua e la riva, tutto oggi era ricoperto di una sottile polvere di noia. Due, tre ragazzi si calarono con attenzione dal lato più pericoloso della spalletta, passarono fra le travi sotto il ponte e risalirono dall'altra parte. A mezzogiorno, quando il sole brillava tra le fenditure, si poteva vedere nell'acqua scura, sotto l'arco del ponte, un ponte riflesso, e tra i suoi piloni, incerti e scintillanti, si arrampicavano svelti i ragazzini che l'estate scorsa erano annegati facendo quel gioco, senza per questo rinunciarvi. Chi invece ce la faceva a risalire, tornava dai compagni riportando negli occhi certe macchioline scure per la paura sconfitta, e nella faccia sudata lo splendore dell'avventura che solo laggiù si poteva trovare. Eppure Jans oggi non aveva la minima voglia di quello splendore, provava invece nostalgia, una nostalgia straziante che gli serrava la gola - strano, perché la casa dove abitava era distante meno di dieci minuti, un casermone torvo sul fiume in fondo al vicolo. Jans riusciva a distinguere la finestra della cucina con i vasi di gerani.
Jans scivolò giù e a passi lenti si avviò verso casa. Il portone era tanto pesante e la scala tanto ripida. Dal cortile dove si trovavano i bidoni della spazzatura, veniva un odore estivo di marcio e stantio. Jans lo sentiva sulla lingua. Salì più svelto, e a un tratto di nuovo gli girò la testa e i gradini ondeggiarono. La maniglia della porta di casa, più gialla delle altre su quel pianerottolo, luccicava in modo così ripugnante che non sapeva decidersi ad abbassarla. Alla fine ci riuscì e rimase fermo sulla soglia. Aveva sette anni, indossava pantaloni rossi, le scarpe erano scalcagnate, le gambe nude piene di lividi tondi e di graffi sulle ginocchia.
Tutto in lui aveva il colore dorato e maturo dell'estate, la pelle, gli occhi tondi scintillanti, i capelli che dall'attaccatura ricadevano in folte ciocche arruffate. La madre, che stava ai fornelli e rimestava in una pentola, al suo arrivo si voltò sorpresa perché era tornato prima.
I genitori di Jans erano ancora giovani. Si erano sposati presto e avevano la stessa età. Ma se Martin Jansen, col suo mento rasato e la tuta blu da operaio, continuava a somigliare a un ragazzino mite e allampanato, Marie si era fatta una giovane donna robusta. Cosa mai si era aspettata prendendosi quel Martin, piovuto dal cielo con un po' di tenerezza e allegria nella stanza soffocante, spaventosamente strapiena di genitori e fratelli? Per il quale stirava il vestito bianco ogni domenica, e che a volte le comprava un mazzolino di viole nel chiosco all'inizio del ponte? Cosa credeva di trovare nella nuova stanza dove non vedeva l'ora di andare a vivere, se non un soffitto, quattro pareti e un pavimento? Non immaginava che quel poco di allegria esaltata dall'attesa si sarebbe consumata presto e quei pochi gesti di tenerezza avrebbero fatto la fine dei passi di lui, che un tempo lei aveva atteso con impazienza, mentre adesso era diventata un'abitudine sentirli risuonare puntualmente, due volte al giorno, su per le scale?
E Marie non era stupida, era abbastanza svelta per capire tutto al volo. Presto ebbe una storiella d'amore con un bel ragazzo del piano di sotto. Ma prima che le obiezioni di Martin sortissero qualche effetto, l'altro, a sua volta, aveva intrecciato una relazione con una giovane domestica del vicinato, e ben presto i due non si fecero scrupoli a starsene avvinghiati sul pianerottolo mentre Marie passava col suo cesto. Prima sentì delle fitte al cuore, ma dopo non gliene importò più nulla. Lo vide com'era, buono e tenero e indifferente, proprio come suo marito, uno valeva l'altro, né meglio né peggio. - Avrebbe preferito vedere Jansen rabbioso e insofferente, avrebbe trovato in lui qualcosa che suscitava orrore e ripugnanza, invece eccolo lì, placidamente seduto con quelle gambe lunghe, sorridente, il più delle volte un po' imbarazzato. E infatti per lui non c'era bisogno di cambiare nulla, non capiva l'amarezza di Marie. Avrebbe continuato a fischiettare tranquillo le sue canzonette e a comprare i suoi mazzolini di viole. Certo, per come stavano adesso le cose, anche lui avrebbe preferito vedere Marie, a sua volta, un po' smunta e sfiorita. L'avrebbe lasciata alla sua amarezza dietro la finestra della cucina e se ne sarebbe andato per i fatti suoi. Ma come poteva andarsene per i fatti suoi se Marie se ne stava seduta lassù, giovane, odorosa, sana?
Le ultime settimane prima che nascesse il bambino furono in assoluto le più terribili. L'estate era torrida e il lavoro duro per il corpo appesantito di Marie. Jansen era molto turbato da quella donna estranea, dalla voce cambiata e dai lineamenti sfocati. E Marie si sentì quasi sollevata quando finalmente lui cominciò ad andarsene per i fatti suoi a bere, e lei ebbe un motivo concreto per disprezzarlo.
Poi arrivò il bambino. Se ne stava lì disteso e strillava. In realtà non era che un corpo in più nella minuscola stanza. Ma se anche le pareti si fossero pian piano richiuse intorno a lei come una bara, non gliene sarebbe importato nulla. Era finita con le grandi speranze e i mille piccoli desideri. Aveva qualcosa da amare, aveva raggiunto tutto! Non solo quando si scopriva il seno per il bambino, anche quando si scioglieva le trecce solo per sé stessa o raccoglieva le foglie appassite dai vasi di gerani - che aveva tenuto solo nelle prime settimane di matrimonio e poi aveva tolto di mezzo - , lo faceva col sorriso costante e indefinito degli amanti. Quando entrava il marito, spaventata copriva il seno e il bambino con lo scialle, oppure tirava la tenda della culla.
Se solo si fosse data la briga di rivolgere uno sguardo al marito, non l'avrebbe più riconosciuto. Il suo giovane viso impassibile si era fatto da qual-che tempo pallido e smunto prendendo l'aria afflitta di chi rimugina, e negli occhi aveva la luce radiosa dei sognatori. Adesso non capiva la tranquillità di Marie, come prima la sua amarezza. Lui, che ormai riusciva a capire tutta l'amarezza, la rabbia, le speranze del mondo, e addirittura a provarne di più. Per lui non era finito niente, per lui in quella stanza nuda, stretta, che odorava di minestra e di bucato, era entrata la speranza col suo abito scintillante. Gli bastava sfiorare il bambino con lo sguardo perché il cuore gli si riempisse di progetti assurdi e intricati, di desideri splendidi e avventurosi. Quando il suo piedino sbucava dalla coperta con le dita serrate, lo assaliva una voglia di tenerezza che avrebbe potuto competere con quella di cento Marie nel suo periodo di più grande passione. Ma si teneva tutto dentro. Solo quando Marie usciva di casa, con l'indice imprimeva una fossetta nelle tenere carni del bambino. Oppure la sera riponeva un giocattolo tra i cuscini, e la mattina Marie lo trovava e lo fissava sospettosa e ingelosita.
Jans cresceva. Mangiava e dormiva e giocava. Quando sedeva a tavola tra i genitori e mangiava la minestra, non si accorgeva che loro a volte, per prendere il pane, si allungavano sul tavolo per riuscire a sfiorargli i capelli o il braccio nudo. Poi, quando la mattina usciva di casa insieme al padre, uno diretto in fabbrica, l'altro a scuola, era felice non appena terminava il tratto comune di strada e poteva scappare a gambe levate, mentre il padre si fermava di nuovo per seguirlo con lo sguardo, scosso ogni volta da un fremito per la separazione.
Con tutto ciò, Jans parlava a monosillabi, e neppure Marie brillava d'inventiva. D'altra parte, come avrebbe potuto esprimere il suo amore se non con una cartella di cuoio comprata grazie a qualche risparmio insieme a una matita rivestita di carta dorata, o con quella stoffa strana, di un rosso che saltava agli occhi, per i pantaloni nuovi di Jans? E Jans si faceva di giorno in giorno più colorito e robusto. Ma tra i compagni che sedevano a cavallo della spalletta del ponte, c'erano ragazzi coloriti e robusti come lui. Non aveva marchi a fuoco sulla fronte, in niente somigliava a un bambino cui sono legate speranze selvagge e attese disperate.
Quel pomeriggio, dopo essere rientrato, Jans si sedette a cavalcioni di una sedia e appoggiò la testa sopra la spalliera. Una zanzara, un puntino scintillante, si posò sulla sua mano, ma era troppo fiacco per scacciarla. Quella avanzò lentamente, e come gli si infilò silenziosa sotto la manica, a un tratto lui ebbe paura e gridò forte: mamma! La madre stava apparecchiando ed era sul punto di dire qualcosa quando sentì i passi di Jansen per le scale, e subito versò la minestra. Anche Jans sentì il padre attraversare il corridoio e si fece allegro e vivace. Adesso doveva accadere qualcosa di nuovo, adesso quell'insulsa giornata rovente, per qualche motivo assolutamente diversa da quelle vissute finora, sarebbe finita una volta per tutte.
Martin Jansen entrò col suo solito buonasera un po' impacciato e appese il berretto. Tutti si sedettero a tavola in silenzio. Jans stava per iniziare allegro e affamato come sempre, ma dopo aver ingoiato due o tre sorsi non poté più sopportare l'odore che saliva dalla minestra e appoggiò il cucchiaio al piatto. Jans stava guardando distrattamente verso la finestra al di là del tavolo, gli angoli della bocca rivolti tristemente all'ingiù; fu allora che Jansen guardò il figlio per la prima volta quella sera. E quando ne sorprese il viso con la bocca semiaperta gli occhi spenti che vagavano nel vuoto, gli si strinse il cuore dallo spavento e una paura indicibile gli serrò l'anima in una morsa.
Quante volte Jans era tornato a casa sanguinante e scorticato, oppure con la tosse e bagnato fradicio! Jansen non ci aveva mai fatto caso! La sua fiducia era sempre stata incrollabile. Che capitasse qualcosa a Jans era come pensare che la terra potesse esplodere, perché farsi venire pensieri così assurdi?
Ma adesso la terra era esplosa. Quella non era più la faccia rotonda di Jans, il luogo dov'era ancorato il suo futuro, il teatro dei suoi sogni, quella era una strana faccia sconosciuta contro cui s'infrangevano tutte le sue speranze.
Come faceva Marie a non accorgersi di niente e a starsene lì in quel momento terribile, e spezzettare il pane nella minestra? "Su, mangia" disse, e Martin triturò il pane fra i denti mentre il cuore allo stesso ritmo ripeteva: "Dio del cielo, aiutaci! Dio del cielo, aiutaci!". (...)






(Tratto dal romanzo Jans deve morire, Edizioni e/o, Roma, 2003. Traduzione di Marina Pugliano.)


Anne Seghers

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