IL PICCHIO
Miljenko Jergovic'
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"Io, Mate Z., non ho mai avuto per le mani un libro sacro né tantomeno
mi è mai capitato sotto gli occhi il Corano. Ora non starò a spiegarne
il motivo, ormai la cosa non ha più importanza: ve lo dico solo affinché
sappiate di cosa parlo, stanotte, quando mancano cinque ore e una ventina di minuti
alla mia esecuzione, prima che i sette in uniforme, quelle uniformi che io non
so riconoscere, per conto di uno Stato sorto in nome di un'idea, conformemente
a una legge che nessuno ancora ha scritto, mi impicchino nel cortile del Sokol1
perché anch'io indosso un'uniforme, ormai a brandelli, e perché
in nome di uno Stato svanito com'è sorto, in osservanza di una legge che
nessuno osserva, avrei ucciso sette uomini, i quali, dicono, portavano anch'essi
un'uniforme. E io, dicono, ero sbronzo. Questa storia l'avevo già sentita
da bambino. La raccontavano i correligionari di coloro che avrei ucciso da ubriaco.
Si ripeteva di giorno in giorno, di anno in anno, tutte le volte che in città
qualche ubriaco ne combinava una. La narravano quelli che leggono il Corano, quelli
che lo sanno a memoria e anche quelli che, come me, non l'avevano mai avuto per
le mani. Ed è per questo che oggi, 17 agosto 1918, anch'io voglio raccontarvi
questa storia, l'ultima cosa che rimarrà di me a questo mondo. Io pure,
come gli altri, la riconduco al Corano, ma se per caso in quel libro non ci fosse,
chiedo scusa, anche a nome di coloro che l'hanno narrata prima di me. Ebbene,
in tempi remoti, quando la fede dell'Islam già regnava nel deserto e Maometto
il profeta era ancora tra i vivi, morì un povero ubriacone. I suoi lo gettarono
cosi, nudo e crudo, sottoterra, senza conforto, senza una preghiera o una dzenaza2.
Il fatto giunse alle orecchie di Maometto, il quale chiese agli uomini cosa avessero
combinato con quel defunto, il mejta, e perché non gli avessero fatto neanche
una dzenaza. Risposero: era un beone, un buono a nulla che non si curava della
legge di Dio, bensì ogni giorno si cacciava in corpo un litro se non due. Che
sia disseppellito, ordinò Maometto. E quelli disseppellirono il mejta. Che
in suo onore si faccia una dzenaza2, ordinò di nuovo Maometto, sempre reggendosi
su una gamba sola. Che fosse accovacciato, in ginocchio o eretto, Maometto
teneva a terra sempre un piede solo. Gliene chiesero il motivo. Troppi melek,
angeli, rispose il Profeta; quell'uomo era così buono che tutt'intorno
c'è una folla di angeli, e io temo che poggiando anche l'altro piede finirei
per calpestare qualcuno. Maometto non spiegò perché a suo dire
quel mejta fosse tanto buono, né perché sul suo mezar ovvero sepolcro
fossero scesi tutti quegli angeli. E gli altri si vergognavano e non chiedevano.
Ognuno sapeva che al di sopra delle norme e delle leggi vi sono norme e leggi
ben più alte. Non so se ho ucciso quella gente, a quanto ricordo non
li ho neppure visti, figuriamoci se li ho sfiorati con un dito. Eppure, dicono,
io sarei un farabutto cui tocca espiare sette vite. (...) Quale merito aveva
l'ubriacone sulla cui tomba erano scese tante schiere d'angeli, a migliaia? Dovevano
essere tempi simili a questi. Sulle torri si avvicendavano i vessilli - se mai
le torri e i vessilli sono esistiti. La gioventù correva da un capo all'altro
del campo di battaglia mentre i condottieri addormentati sognavano vecchi Stati
e nuovi morti. Così si è formato quel mondo che sarebbe durato mille
anni. In Oriente i mondi duravano sempre moltissimo. Da noi no. Da noi un mondo
dura meno di una vita umana. Da noi i mondi sono come il picchio, che la morte
stronca in un istante, tra due beccate contro un tronco. Tu guardi e pensi che
l'albero è reo di quella morte, che in quel tronco c'era qualcosa di venefico,
qualcosa che ha obbligato il picchio a passare dall'uno all'altro mondo lasciando
la sua opera incompiuta. Da noi ogni vent'anni spariscono dalla faccia della
terra mondi incompiuti, pertanto qui è difficile essere buoni. L'ubriacone
sul cui mezar, nel lontano deserto erano scesi tutti quegli angeli, seppe passare
da questo all'altro mondo con l'anima pulita, ed è per ciò che nei
Cieli lo accolsero così bene. Maometto lo sapeva, non lo sapeva chi volle
sotterrarlo senza nemmeno una dzenaza. Note: 1.
Circolo ricreativo croato. 2. Prosternazione nella preghiera musulmana, in
questo caso durante il rito funebre.
(Tratto da Racconti della Bosnia, org. Giacomo Scotti, Diabasis edizioni,
Reggio Emilia, 2006. Traduzione di Ljiljana Avírovic.)
Miljenko Jergovic' : È nato nel
1966 a Sarajevo dove ha vissuto fino al 1994, anno in cui si è trasferito a Zagabria.
Oltre che di prosa e poesia, ha scritto articoli sulla letteratura, sulla musica
rock, sul cinema, sulla politica e ha disegnato fumetti per diverse riviste bosniache
e croate. Reporter di guerra, ha anche condotto programmi radiofonici e televisivi
per emittenti di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di poesie. Il suo primo
romanzo, Le Marlboro di Sarajevo, si è aggiudicato in Germania il premio
Erich-Maria Remarque. Il romanzo appena citato si trova anche in traduzione italiana:
Le Marlboro di Sarajevo (Quodlibet, Macerata, 1995). L'edizione originale,
Sarajevski Marlboro apparve a Zagabria nel 1994: nel 1997 uscì la quinta
edizione. Segui il romanzo Karivani, edito sempre a Zagabria nel 1995,
da Durieux, in italiano fu pubblicato nel 1997 da Einaudi, nella traduzione di
Ljiljana Avirovic. I Karivan (da cui è tratto il brano qui inserito) sono una
famiglia immaginaria di Bosnia i cui discendenti si sono sparsi per il mondo e
le cui storie si snodano attraverso gli ultimi due secoli. Altre opere di narrativa
di Miljenko Jergovic di grande successo sono: Mama Leone (racconti, Zagabria,
1999); Kazes andjeo (Dici angelo, romanzo in forma di dramma teatrale,
Zagabria, 2001): Hausmajstor Sulo (Il mastro di casa Schulz, romanzo, Zagabria
2001); Buick Rivera (romanzo, Zagabria 2002 e 2003); Insallah Madonna,
lnsallah (romanzo. Zagabria 2004). Anche queste opere sono state tradotte
in diverse lingue straniere.
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