PARIGI, NEL POMERIGGIO
Philippe
Vilain
"Tradisco mio marito per amarlo di più", mi diceva con grande
serietà. L'adulterio, per lei, era un'innocente prova d'amore, ma per me
che ne ero il complice, solo un gioco, un modo per passare il tempo. Forse la
mia noncuranza sorprenderà se ammetto di non aver mai provato il minimo
rimorso per questa complicità, scandalizzerà se aggiungo di non
essermi mai preoccupato delle conseguenze che il nostro rapporto avrebbe potuto
trascinare nella vita privata di questa donna. Rinchiuso nel mio egoismo, non
mi accorgevo di niente. Sicuramente i pericoli su cui dobbiamo prevalere, gli
ostacoli che dobbiamo superare per vivere dignitosamente gli amori che la società
disapprova, ci nascondono in parte la realtà di ciò che stiamo vivendo,
sicuramente insaporiscono di più le nostre esperienze quando, all'intensità
dei momenti rubati, si mescola il piacere di comprovare l'inutilità di
un' istituzione rispettata.
L'avevo
abbordata in Piazza Châtelet. Alta, bionda, magra, vestita alla moda, occhiali
da sole sui capelli, aveva il portamento di un'attrice del cinema. Tutti la guardavano.
Le belle donne sembrano inaccessibili all'uomo normale, non al timido per cui
ogni donna è una sfida. La mia audacia le piacque. Era del nord Europa.
Il suo paese era quello dei marinai, la sua città quella dei poeti. Diceva
che assomigliavo agli uomini del suo paese. Era convinta di avermi già
incontrato là. Le piaceva pensare che ci fossimo già scontrati in
una strada, che le nostre vite si fossero incrociate per caso. Il suo accento
mi incantava, proprio come i suoi piccoli sbagli di francese che mi rimproverava
di non correggerle; se lo avessi fatto, avrebbe perso tutto il suo fascino. La
mia attrazione teneva conto anche del suo essere straniera; forse attraverso di
lei amavo la possibile evasione dalla mia nazionalità. Non vedendomi
spesso, mi telefonava più volte al giorno. Prima di riattaccare, mi diceva
sempre: "Forse a più tardi." Per lei, modificai le mie abitudini,
come quella di scrivere presto la mattina o di lasciare acceso il mio cellulare
per essere sempre rintracciabile; senza preoccuparmi del fastidio che la mia maleducazione
causava alle persone, né dei giudizi che sicuramente gravavano su di me,
quando interrompevo una discussione per risponderle. Mi dicevo che questa situazione
era provvisoria e che presto saremmo tornati ai nostri doveri. Ma sembra quasi
che mi dolga ora delle fantasie che disordinavano soprattutto il mio entourage
e animavano troppo la mia vita per vincolarla ancora di più. Senza dare
troppe giustificazioni, la mia felicità mi sembrava poter scusare tutto.
Andò
ad Ibiza per le vacanze. Di tutti i mesi d'agosto della mia vita, quello mi sembrò
il più noioso. L'estate, Parigi sembra una città di provincia. I
quartieri deserti si grogiolano sotto il sole. Bisogna attraversare i giardini
pubblici o amare l'esotismo di Parigi-plage1 per trovare un po' di
animazione. I profumi ossidati, le palme importate, le sagome dei bimbos
vicino alla Senna verdastra: la città si perde in un assurdo sogno di vacanze.
Ci vollero molte catastrofi aeree, la canicola, degli incendi forestali per farmi
credere invano ad una estate ordinaria: pensavo sempre a lei. L'amore forse non
è che una distrazione dall'infelicità degli uomini. Non facendo
parte del suo mondo, cercavo di entrarci leggendo autori del suo paese e ascoltando
le sue canzoni preferite. La mia occupazione principale era quella di inviarle
dei testi e di attenderne le risposte. Passavo dei lunghi minuti ad interpretarle,
a domandarmi perché aveva messo tre punti di sospensione al posto di uno,
perché aveva utilizzato quella parola al posto di un'altra, pensando che
forse anche lei non sempre avrebbe saputo spiegarmelo. Mi divertivano soprattutto
i suoi questionari che imitavano quelli delle riviste femminili ("Avrò
voglia di rivederti a settembre? A: un po'; B: molto; C: Per niente" Mi capitava
di risponderle "C" ), le sue formule enigmatiche simili a messaggi in
codice che un soldato prigioniero rivolge ai suoi alleati in tempo di guerra ("Ibiza
si annoia di Parigi", "Anche quando piove fa bel tempo!"). A volte
mi dicevo che ci eravamo incontrati per liberarci insieme dalla nostra infanzia.
A settembre prendemmo l'abitudine di trovarci allo Zimmer, piazza Châtelet.
Partivo prima per raggiungerla, camminavo senza riconoscere le strade che ormai
l'abitudine mi aveva mascherato. Osservavo tutto con una buffa curiosità;
mi soffermavo su vetrine davanti le quali ero passato centinaia di volte senza
vederle bene, su degli abiti che prevedevo di comprare per piacerle, su dei gingilli
in porcellana per i quali l'interesse all'improvviso mi sembrava maggiore, su
quel piccolo animale in gabbia sulla banchina di Mégisserie il cui destino
mi sembrava paragonabile al mio. Il mio piacere nasceva da queste scoperte, da
questi viaggi nel corso dei quali mi era più facile pensare che lei fosse
semplicemente l'occasione da amare piuttosto che ammettere quanto fossi già
innamorato di lei. I ritardatari mi infastidiscono, perché dal loro
comportamento deduco (quando tale ritardo non è dovuto a un impedimento)
un carattere vanitoso. Il suo ritardo non costituiva un difetto ma una ragione
per amarla di più. La desideravo tanto, mi dilettavo nell'immaginare il
suo arrivo, la parte della piazza da dove sarebbe arrivata, i pretesti che avrebbe
avanzato per giustificarsi, i vestiti che avrebbe indossato. La sua puntualità
mi avrebbe annoiato. Finalmente, la scorgevo da lontano, la sua sagoma tra tutte
le altre, imbacuccata in un piumino azzurro il cui cappuccio, bordato di una pelliccia
grigia, le incorniciava il viso. Adoravo l'istante in cui, appena entrata in un
caffè, si fermava un secondo per cercarmi con lo sguardo, questo secondo
particolare precedeva proprio il suo sorriso al quale, ponendo fine alla mia attesa,
rispondevo. Dalla sua aria placida, notavo il piacere discreto che provava
nell'essere guardata. Rispondevo al suo sorriso con un viso privo d'espressione
che mi tradiva ancora di più. Il cameriere storpio aveva problemi di pronuncia.
Anche lei, come me, esitava tra l'intenerirsi o farsene beffa. "Ze parazzi
cozì , non zaprei ze ti zembrerei zexi." Le sue imitazioni le trasformavano
la faccia con una smorfia paurosa; avrei dubitato di amarla per lungo tempo se
fosse rimasta così. Non sapevamo mai come separarci. Le nostre esitazioni
mi facevano credere che presto saremmo stati più intimi quando quello che
in lei ritenevo essere del pudore, era semplicemente della prudenza a mostrarsi
in pubblico con me in un luogo dove lei rischiava di essere riconosciuta.
A un amico scontrato per caso, la presentai come la proprietaria del mio
monolocale. La prima bugia che mi venne in mente.
Le nostre conversazioni aleggiavano superficiali. Se si parlava di lei, si contornava
di mistero e di una precauzione che, senza opporre alcuna resistenza, sembrava
prepararla. Mi proibivo di fare domande per la paura di imbarazzarla e di avere
delle informazioni deludenti che avrebbero banalizzato la mia ammirazione nei
suoi confronti. Qualcosa in me si rallegrava di vivere in una tale ignoranza in
cui potevo inventarmi la sua vita. La condizione segreta delle nostre avventure
aumenta spesso il desiderio di rivedere la persona che ci piace come ci è
apparsa la prima volta, non come è realmente, per prolungare il più
possibile il sogno che da subito ci ha inspirato. Non sapevo nient'altro di
lei, ma non avevo bisogno di conoscerla di più per immaginarmi la sua vita,
per indovinare che, dietro l'affaccendamento di cui si vantava, si nascondeva
una di quelle donne sposate che, dallo shopping al té con le amiche, il
pomeriggio si annoia, occupa il suo tempo in futilità di cui ne esagera
l'importanza. Smascheravo in lei una selvaggia indipendenza che sembrava mantenerla
in una solitudine felice, una derisione sferzante da cui si allontanava raramente,
uno spirito sospettoso che la portava a condannare la sincerità delle proposte
benevole, quindi una grande incostanza che lottava valorosamente contro la sua
impazienza. Bastava parlarle di una attività perché lei volesse
esercitarla, di un paese perché progettasse subito di visitarlo, di un
avvenimento perché desiderasse farne un libro. Tutto la eccitava per poi
stancarla con la stessa velocità. Ancora non osavo pensare che più
tardi avrebbe fatto ugualmente anche con me. Senza domandarle niente, deducevo
dalle sue parole questo mondo misterioso al quale avevo accesso solo a piccole
quantità, di cui interpretavo a mezze parole,certamente male, i segni,
e pensavo, tutto quello che lei si proibiva di rivelarmi, come, per esempio, la
sua paura dell'aereo, che sembravano nascondere una paura più intima, più
grave, legata all'adulterio, alla paura di volare con me, di scappare altrove
o di convolare con il suo futuro amante, di inabissarsi nella monotonia coniugale.
Sicuramente dovevo trovare delle corrispondenze segrete tra tutte le sue parole
per credere alla realtà della nostra relazione; per rendermela persino
più familiare, dovevo vedere in lei una ferita, una vecchia prova legata,
mi dicevo senza sapere bene perché, alla droga o a dei servizi sessuali.
Nei suoi begli occhi azzurri mi sembravano visibili i segni di un malessere, dietro
la sua arroganza studiata, le tracce di un passato tumultuoso che mi davano la
commovente impressione di conoscerla da tanto tempo. Vediamo sempre nell'altro
quello che vogliamo vederci e ci riconosciamo quello che, a nostra insaputa, vi
abbiamo immaginato. La sua mancanza di curiosità non mi sorprendeva
perché anch'io manifestavo poco la mia. Mi stupivo solo che lei non si
prendesse almeno la briga di conoscere la mia situazione, di sapere se per esempio
vivevo da solo. Ignoravo, e ancora ignoro del tutto, ciò che l'attaccava
a me. Non poteva essere il mio fisico mediocre poiché aveva la scelta di
pretendenti, neppure la mia natura entusiasta in quanto accanto a lei mi mostravo
piuttosto riservato. Osavo credere che una qualità speciale, di cui non
ne ero a conoscenza, mi distingueva dagli uomini del suo ambiente, che considerava
con un allegro interesse questo scrittore trentenne dall'aspetto studentesco e
che approvava attraverso di me questa scelta estrosa di scrivere.
Mi spaventavo dell'importanza che lei acquistava nella mia vita, malgrado lei
e, soprattutto malgrado me. Innamorato, divenni il contemplatore ridicolo dei
miei propri sentimenti, incapace ancora di vedere questa ragazza come un'amante
passeggera. Mi davo l'aria indifferente di un seduttore per non svelarmi e mostrarmi
intraprendente senza concederle troppo interesse. Sapevo che le cose sarebbero
successe naturalmente e che la mia perseveranza avrebbe finito col convincere
le sue ultime reticenze. Dal momento che lei era abituata a fare complimenti,
mi arrangiavo perché i miei le sembrassero involontari. Non provavo a fare
molti sforzi per sedurla o per esserle piacevole, cercando nelle sue proposte
delle ragioni per contraddirla. Così, quando un giorno volle sapere se
mi piacevano i bambini, non so perché le risposi che li detestavo e che
uscivo con delle donne sposate , già madri, proprio per non averne e risparmiarmi
la fatica di allevarli. E' idiota voler ridere di tutto con una persona troppo
seria. Non avevo ancora capito che le donne non scherzano con la maternità
e che la curiosità di un futuro da madre non è mai insignificante.
Si deve amare il rischio per ostinarsi a non piacere. La mia noncuranza tuttavia
non era coraggio. Mi guardò con costernazione il giorno in cui le dissi
che mi ero sbarazzato della mia televisione. Non l'avrei scioccata di più
dicendole che collezionavo le cimici o che adoravo la grammatica generativa. Un
extraterrestre, un originale, un nostalgico dei tempi passati, forse un intellettuale:
per lei diventai questo mostro inquietante. Due secondi bastarono a infrangere
l'immagine che mi ero forgiato durante svariate settimane. Cosciente del mio errore,
le spiegai che amavo troppo guardare la televisione per possederne una e che la
scrittura mi imponeva di perderne l'abitudine. Dubito che cascò in questa
bugia , ma mostrandole la mia forza di carattere, la mia capacità di rinunciare
a ciò che desideravo di più, riuscii a trasformare ai suoi occhi
la mia anormalità in originalità. Valutando il suo conformismo,
non mostravo il vizio fino a rivelarle che non possedevo né una macchina
e neppure la patente. Come per aggiungere degli handicap a una situazione
già delicata, fingevo di essere insoddisfatto della mia vita, ciò
mi conferiva un comportamento infantile e la spingeva a trattarmi con una tenerezza
materna, ad adottare davanti a me un ruolo da protettrice di cui non avevo affatto
bisogno. Avevo torto nel riportarla ad uno stato dal quale voleva scappare dal
momento che aveva l'età per poter essere mia sorella minore. Capivo che
le prime impressioni sono quelle determinanti per il seguito di una relazione,
e che, malgrado la nostra volontà di cambiarle, sono sempre queste impressioni
che gli altri assoceranno a noi. I miei pochi sforzi per sedurla, la seducevano
nonostante tutto, e trovavo così ingiusto conquistare una donna così
facilmente pensando alle volte in cui i miei sforzi non erano stati ricompensati.
E' una regola: quello che ci sfugge ci attira; senza opposizioni, senza ostacoli
da attraversare, il cuore si annoia; ha bisogno di incontrare una resistenza degna
di lui, di provarsi nell'altro per provarsi lui stesso il suo amore, poiché
l'amore altro non è che amor proprio. Mi affascinava il suo modo naturale
di inventare bugie a suo marito al telefono; appena aver riagganciato, sospirava.
Gli acuti bugiardi dicono la verità: un giorno, canzonandolo gli disse
che stava passeggiando con il suo amante. Risi tra me dell'ingenuità di
suo marito, senza preoccuparmi della mia, né che la nostra intesa si era
costruita su delle menzogne. A quel tempo, consideravo la nostra clandestinità
con un divertimento puerile. Non vedevo ancora le costrizioni poiché oltre
al piacere di essere amico di questa bella ragazza se ne aggiungeva anche la certezza
di diventarne il suo amante. Due mesi trascorsero così, prudentemente.
Non mi accorsi dell'arrivo dell'autunno. Pioveva tutti i giorni. Entusiasta, mi
esasperavo in doveri professionali, in interventi pubblici che dovevo fare, in
dibattici ai quali dovevo partecipare per la promozione del mio libro. I complimenti
mi toccavano appena, le critiche virulente non mi colpivano, o forse da lontano,
e così poco che potevo persino fingere di esserne stato ferito. Vivevo
in una sfera dove l'amore mi rendeva invulnerabile, credendo di possedere un segreto
che mi dispensava dai doveri elementari e mi staccava dal ruolo fastidioso che
esige ogni rappresentazione sociale. Dall'inizio della nostra relazione, cercavo
di non parlare di lei e mentivo quando mi si interrogava sulla mia vita sentimentale;
le bugie ci proteggevano dalla curiosità, dalla volgarizzazione, quindi
anche dai giudizi. Facendo passare il mio mutismo come parte del mio carattere,
potevo pensare a lei quando lo desideravo, senza essere sospettato di niente.
La mia discrezione sembrerà normale dal momento che la mia relazione non
riguardava nessuno, tuttavia nel mondo impudico, meschino, dell'amicizia, stare
zitti è un sacrilegio. Mi si rimproverava di ciò. Il problema della
felicità, è che bisogna condividerla. I nostri amici vogliono a
tutti i costi conoscere le ragioni dei nostri sorrisi, la causa della nostra allegria,
poiché il saperci felici non gli basta: essere felici, è avere un
debito verso coloro che non lo sono.
Nota
1 Paris-plage: Durante l'estate viene ricreata un'atmosfera da spiaggia lungo
la Senna, con palme, sabbia, sdrai e caffè dove i parigini, che non possono andare
al mare, possono godere del sole estivo nella propria città.
Da: 1 Capitolo "Paris, l'après-midi", Philippe Vilain, Ed. Grasset. Traduzione
di Catastini Samanta.
Philippe Vilain Giovane scrittore francese
già famoso ed affermato nella sua Patria da molti anni. Il primo romanzo esce
nel 1997 L'Etreinte, poi ne seguono altri come La dernière annèe nel
1999, Le renoncement nel 2001 e l'été a Dresde nel 2003; tutti pubblicati
da Grasset. Paris, l'après-midi è la sua ultima fatica, uscita nel 2006;
è autobiografico (naturalmente sia i luoghi che i nomi sono stati modificati),
come lui stesso dichiara in un'intervista, in quanto il rapporto con questa ragazza
sposata iniziò veramente nell'estate del 2004 e solo alla fine della relazione
Vilain riprese a scrivere.
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