Niki - Storia di un cane
Tibor Déry
Il cane
- che lasceremo per il momento senza nome - s'aggregò di prepotenza alla
famiglia di János Ancsa nella primavera del 1948. Trasferito a Budapest
da Sopron, dove insegnava presso la Scuola di ingegneria mineraria e forestale,
l'ingegner János Ancsa aveva aspettato sei mesi, invano, che gli venisse
assegnato un alloggio nella capitale; e alla fine s'era deciso a prendere in affitto
due camere ammobiliate in una casetta del sobborgo di Csobanka, sulla linea Hev
delle corriere vicinali. Partiva per l'ufficio il mattino, e non tornava che a
sera, per il pranzo che la moglie gli preparava - mancando la cucina - su un fornello
in camera. Anche il cane si presentò di sera. Per quanto si poteva distinguere
nella penombra del giardino al tramonto, era un fox terrier, probabilmente un
incrocio tra un fox a pelo ruvido e uno a pelo morbido. Il suo corpo snello era
coperto da un pelame liscio, senza macchie. Solo le orecchie erano color nocciola,
con un tratto più scuro alla base. Ma, per una di quelle civetterie che
piacciono alla natura, il disegno e il colore non erano gli stessi dalle due parti:
dall'orecchio sinistro il tratto scuro s'allungava su metà della fronte
fino alle ciglia; a destra invece la fronte restava libera, ma - come per uno
scherzoso compenso - una striscia nera si spingeva per la nuca e il collo fin
dove i cani portano di solito il collare, e qui s'allargava in un quadrato abbastanza
regolare, per quanto sia dato alla natura di disegnare quadrati o altre figure
regolari. Aggiungiamo, alla base del triangolo allungato della testa, due grandi
occhi brillanti, e al vertice un nasino nero non meno brillante, da sembrare lustrato
con lucido da scarpe; e avremo così disegnato, per quanto schematicamente,
e anche con una certa superficialità, la piccola e graziosa figura che
s'era venuta a sedere ai piedi dell'ingegnere. Ancsa stette lì, abbastanza
a lungo, a considerare la bestiola, che così seduta sulle zampe didietro,
la testa in su, sosteneva con fermezza il suo sguardo. "Allora, che c'è?"
disse alla fine. Al suono di quella voce, in cui dovette sentire una certa
simpatia, il cane s'alzò e andò dietro all'ingegnere a fiutargli
i talloni, annusando più volte, rumorosamente, prima a destra e poi a sinistra.
Ancsa attese con pazienza che l'animale avesse fatto conoscenza con questa parte
più abbordabile della sua persona. Alla fine, parve che l'odore di Ancsa
fosse riuscito al cuore del cane altrettanto simpatico delle vibrazioni delle
sue corde vocali: perché gli tornò davanti, si drizzò, e
gli poggiò senz'altro le zampe sulle ginocchia. Qui si poté constatare
che si trattava di una femmina, e che portava una rada barbetta bianca: particolare,
quest'ultimo, che confermava senz'ombra di dubbio l'esistenza di un antenato a
pelo duro. Anche i sopraccigli, che formavano sugli occhi due bianchi cespuglietti,
ricordavano quelli di un fox a pelo duro; mentre le zampe, per quanto era possibile
giudicare nell'oscurità sempre più profonda del giardino, sembravano
alquanto più lunghe e stecchite del dovuto. Ciò nonostante, l'ingegnere
gli carezzò la testa. Da quel momento, il destino degli Ancsa fu segnato.
Ché malgrado l'opposizione e le proteste dei coniugi, il cane - tanto vale
dirlo subito - riuscì, dopo un certo tempo, a installarsi definitivamente
in casa loro. Il fatto è che quell'opposizione, quelle proteste, avevano
un fondamento puramente teorico, e perciò, ovviamente, non giunsero mai
al grado necessario di efficacia. Tanto l'ingegnere che sua moglie amavano le
bestie, e i cani in particolare. Ma avevano perduto il loro unico figlio a Vorone,
e il padre della signora Ancsa era morto sotto un bombardamento a tappeto; per
cui sapevano molto bene che gli affetti, per il cuore, non sono soltanto una gioia,
ma anche un peso; e tanto maggiori come gioia, ma anche come peso, quanto più
sono vivi. Ancsa aveva cinquant'anni, sua moglie più di quarantacinque,
e nessuno dei due aveva più voglia di assumersi certe responsabilità.
Indipendentemente, poi, da queste considerazioni, c'era la precarietà della
loro situazione a Csobanka. Come avrebbero potuto permettersi, in quelle condizioni,
di tenere un cane? Un cane - poi - raccolto dalla strada; così inadatto
per loro anche per età; e femmina, per giunta: una giovane femmina, che
non avrebbe mancato di accrescere le loro fatiche con i suoi propri impegni familiari! Ancsa
chiamò sua moglie, che stava lavando i piatti. Il cane, che come sapremo
più tardi rispondeva al nome di Niki, cominciò da quel momento la
sua abile corte, spinto senza dubbio dalla voce e dall'odore simpatico del professore,
ma anche, evidentemente, dalla carezza che aveva ricevuta, che poté considerare
come un altro incoraggiamento. Con la frizzante e leggera vezzosità
che riesce solo alle donne, ponderò in un attimo tutto il fascino del suo
piccolo corpo muscoloso e del suo carattere giocondo, come se la sua vita futura
e il suo destino dipendessero dalle decisioni dell'ora che stava per venire. Abbaiò,
poi cominciò a girare pazzamente sul piccolo spazio d'erba di fronte alla
casa. Il suo corpicino bianco, ora teso fin quasi a sfiorare terra con il ventre,
ora inarcato come quello di un gatto, ruotava intorno agli Ancsa con la velocità
del vento, quasi per rinchiuderli in un cerchio magico dal quale non potessero
più uscire. Talvolta, nel più veloce turbinare, si voltava così
di scatto che il vento della corsa quasi lo piegava in due, e tracciato un astuto
arabesco, come per ingannare un inseguitore immaginario, ripartiva vittorioso
e ansimante in direzione opposta, sempre girando intorno ai coniugi che cominciavano
ad averne le vertigini. La cosa più buffa erano i salti da caprone con
i quali talvolta pungeva l'aria verticalmente. Ogni suo salto di questo genere
era secondo la logica canina uno scherzo, che un immaginario pubblico di cani
avrebbe salutato con sonore risate. E di fatto anche la signora Ancsa - che, come
le donne in generale, era in rapporto più diretto con le cose della natura
- finì per scoppiare a ridere. L'animale allora si stese ai suoi piedi.
Tutto ansante, la lingua penzoloni, fissava senza batter ciglio il suo nero sguardo
brillante in viso alla donna. Quando questa si chinò su di lui sorridendo
per accarezzarlo, il cane - che per i coniugi era ancora senza nome - si voltò
improvvisamente sulla schiena e dimenandosi con tutte e quattro le zampe offerse
impudicamente alle carezze la pancia, rosa sotto il pelo bianco, e i bottoncini
neri del petto. La signora Ancsa gli portò un po' di latte in una terrina.
Intanto s'era fatto buio, e l'ingegnere entrò in casa per accendere la
luce. Il cane, dopo aver sorbito rumorosamente il latte, partì per un giro
di esplorazione. Fiutando, fece il giro della piccola casa e del cucinino estivo
costruito sul retro. Poi, slanciandosi all'improvviso, filò fuori dal cancello.
Volgendo la testa in segno di addio verso la coppia, si accoccolò sulla
riva del fosso e fece quel che doveva; poi, deviando a sinistra, sparì
di corsa sulla strada di Pomáz.
(Tratto da La resa dei conti, Cargo editrice, Napoli - Roma, 2006. Traduzione
di István Mészáros e Franco Lucentini)
Tibor Déry (Budapest 1894 -
1977)
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