Murato vivo
Günter Grass
Non costruii
una casa qualsiasi. Il mio cantiere non era il solito terreno, che i più
si comprano al prezzo di sudati risparmi per costruirsi un tetto, un tetto qualunque
sopra la testa. Nella parete lunga del mio studio venne murato un toro di cinque
anni, la nuda opera muraria fu poi intonacata con cura, rifinita con due mani
di colore, tappezzata allegramente e, al di sopra del punto dietro il quale rimaneva
il capo del torello, appesi una cornice vuota in stile barocco. Come sapete,
un tempo il mio nome veniva annunciato in diverse corride, ero fra i toreri più
ammirati, poi mi beccai una coxalgia nell'arena e da quel momento fui costretto
ad appendere al chiodo la mia amata attrezzatura. L'avrete indovinato. A destra
e a sinistra della cornice barocca appesi le mie buone vecchie armi, affissi foto
di ogni forma e grandezza, conferendo così al locale il carattere della
stanza di un veterano. Conducevo una bella vita. Mi ero liberato del toro, sorvegliavo
i fiori in giardino. Gialli, bianchi, azzurro pallido, al massimo viola, evitando
un certo colore. Mi circondai di cautela e di recinti. Ma un recinto tiene insieme
a malapena se stesso. Cosa si può fare contro la posta? Ogni giorno arrivava
questo cortese agente in divisa, mi salutava con piglio quasi militare - mi conosceva
dal mio periodo d'oro - e mi consegnava una busta leggera. Naturalmente mi
guardavo bene dall'aprire e leggere quelle lettere. Anche quando non era indicato
alcun mittente, lo sapevo: la mia ex fidanzata aveva di nuovo fatto prender aria
al calamaio. No, pensavo, quel che proviene dalla mia fidanzata non può
essere buono. Sarebbe sciocco leggere questa lettera, preferisco scriverle. Dovete
sapere che consideravo la separazione da Elvira definitiva. Come ogni grande amore
anche il nostro finì in maniera banale. Un bel giorno lei non riuscì
più a sopportare il rumore che fanno le mele quando denti sani le mordono
per divorarle con calma solenne fino al cuore e ai semi. Quel fracasso non
le piaceva. Vi sentiva dentro ossa andare in frantumi e forze primigenie cadere
in ginocchio, in breve, questo digeribile dessert era per lei nient'altro che
il fragore dell'arena, e non lo voleva mai più sentire. Anche se fu la
coxalgia il motivo per cui mi ritirai definitivamente da quel cerchio fatale,
fu Elvira a dare il colpo decisivo. O il toro o l'amore, disse. Scelsi l'amore.
Ben presto non ebbi più né l'uno né l'altro, incominciai
a coltivare fiori come uno sciocco, a starmene seduto davanti alla vuota cornice
barocca e a perdermi nei pensieri. La posta. Arrivava ogni giorno e ogni giorno
rispondevo, senza averla letta. Supponendo che Elvira, al pari di me, non coltivasse
alcuna relazione con il tagliacarte, accumulavo pile su pile e le sigillavo ogni
sei mesi con del comunissimo spago. Fu un carteggio assiduo. Io difendevo il rumoroso
mangiar mele e lei si infervorava con una grafia bella e appuntita contro la medesima
frutta. Il diavolo ci mise lo zampino. Un giorno scrissi: il compromesso era
possibile. D'ora innanzi mi sarei fatto portare per dessert soltanto morbide pere,
prugne e pesche, che venisse dunque e sentisse di persona che effetto le facevano.
Venne, Elvira venne. Aveva letto tutti i miei biglietti, il suo tagliacarte mi
aveva rivelato a lei ogni giorno e adesso voleva sentire le pere, anzi, portò
con sé delle Williams gialle. Ma a questo pasto non si giunse mai. Elvira
aveva appena valicato la soglia della mia stanza da veterano che urlai: "Elvira,
levati la gonna. Ti prego, via la gonna, non sai quello che stai facendo".
Ma il mio grido d'allarme arrivò troppo tardi. La ragazza, che dico, l'amata
ragazza, non ebbe il tempo di togliersi di dosso la stoffa color pomodoro. Il
muro esplose in maniera orribile, il toro cinquenne saltò attraverso la
vuota cornice barocca, strappando con le spalle il telaio dorato dal chiodo e,
scalpitando, sbuffò calcinacci e pietrisco: si temette il peggio. "Mio
Dio", urlò Elvira, maledicendo la sua veste sgargiante. Già
curvo era il capo possente, già l'occhio di sangue iniettato. Feci due
balzi e strappai dal muro ciò che vi pendeva come cimelio. Fendendo l'aria
della stanza assunsi la posa caratteristica, danzai intorno al furente, tentai
con tutta la mia arte di distogliere quelle corna, da cui pendevano ancora pezzi
della carta da parato, dal sacro inguine di Elvira. Ecco, adesso vedevo la fronte,
riconoscevo quello sguardo, riconoscevo di nuovo il terribile triangolo. Lo lasciai
passare. O Elvira, la tua gonna. Aspettai in ginocchio. Stoffa come sangue dal
naso, Elvira. Non sa flettersi la piuma come io mi flettei davanti a lui e l'adornai.
Anche se la stanza è piccola, Elvira. Non si riempie di gioia il tuo cuore,
quando senti il suo ginocchio spezzarsi? Pensi ancora a quelle mele incresciose?
Il suo bell'occhio strabuzza, il suo petto si smorza, la cornice barocca lo incornicia,
schegge d'oro si staccano dai listelli e nuotano sul fiume, di cui lui è
sorgente. La ragazza fece solo un passetto avvicinandosi a quella montagna
ormai quietata: "Hai altri tori dietro alla tappezzeria?". Respirava
appena e indicava con le dita le pareti ancora intatte. "Cento!" fu
la mia risposta. "Togliti la gonna, Elvira. Sventola il tuo drappo davanti
agli occhi di cento tori dalla testa triangolare". Si spogliò velocemente,
allora. Si levò di dosso ben più di quella stoffa alla moda, in
parte per sfuggire alla forza che spaccava i muri, in parte per sentire in me
il suo salvatore. Oggi Elvira è mia moglie. Si prende cura del giardino
e tiene mio figlio per mano. La parete l'abbiamo fatta ricostruire. Nessun toro
sogna più dietro la carta da parato. Nessuna cornice barocca pende in attesa
di un quadro. Ma l'arena mi ha di nuovo. I manifesti urlano il mio nome e chi
vuole cogliermi di sorpresa deve scovare una stanza d'albergo al porto. Me ne
sto lì, in un buco semioscuro e umido, seduto su una misera sedia, affondo
i denti in mele generose, osservo il morso e trovo sempre conferma che mi sanguinano
le gengive.
(Tratto da Il club dei mancini, Cargo editrice, Napoli, 2005. Traduzione
di Madeira Giacci.)
Günter Grass è Premio Nobel per la Letteratura 1999.
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