I CONSUMI
( – un capitolo del libro L’Italia del tempo presente – )


Paul Ginsborg

Una delle chiavi per comprendere i comportamenti delle famiglie nell’Italia contemporanea, le loro potenzialità e le loro debolezze, può essere offerta dall’analisi dei consumi. L’evoluzione del comportamento dei consumatori è un campo di indagine tanto affascinante quanto poco esplorato. Tradizionalmente gli storici e gli economisti, a prescindere dalle opinioni politiche, si sono dedicati soprattutto all’analisi della produzione e della sfera pubblica, trascurando in larga parte l’altra faccia del capitalismo moderno, ossia il mondo dei consumi, e il suo spazio elettivo, ossia la società domestica.

a) Lo sviluppo dei consumi italiani. In linea di massima, nell’Italia repubblicana è possibile distinguere due diversi momenti di transizione nella storia dei consumi. Il primo si colloca all’epoca del “miracolo economico”, che vide il passaggio da una società in cui molti dei bisogno primari non venivano soddisfatti a una società in cui almeno una grande maggioranza della popolazione italiana aveva superato la soglia minima di benessere. I consumi di questo periodo erano caratterizzati da una relativa omogeneità, strettamente legata alla natura fordista e utilitaristica della produzione, e da una maggiore attenzione ai nuovi piaceri della vita domestica. Tra gli oggetti-tipo acquistati per l’arricchimento materiale della casa e per alleviare il carico dei lavori casalinghi vi erano i frigoriferi, lavatrici e mobili moderni. Simbolo dietetico della transizione, celebrazione del “miracolo” attorno al desco domestico, era l’aumentato consumo di carne.
Eppure già in questa fase erano presenti in misura notevole consumi non facilmente riducibili a una tipologia puramente utilitaristica, né a una semplicistica distinzione tra bisogni e desideri. Un esempio calzante è quello dell’automobile e dello scooter, mezzi che facilitavano indubbiamente gli spostamenti e le comunicazioni, ma allo stesso tempo offrivano all’individuo e alla famiglia nuove possibilità di scelta di itinerari di viaggio, sia in città sia fuori. La Fiat 500 non era solo un comodo mezzo di trasporto, ma anche e soprattutto una macchina per sognare.
Un altro esempio, forse il più importante, è fornito dalla televisione. Nei primi anni del “miracolo”, molti commentatori denunciarono il rischio che le famiglie più povere acquistassero oggetti di consumo “superflui” come il televisore, quando altri articoli ben più necessari restavano fuori della soglia domestica. Una simile posizione tradiva una visione molto limitata del rapporto fra merci e capacità, ossia della misura in cui il possesso di un televisore non era semplicemente un atto di emulazione, ma anche e più ancora di emancipazione. Come ha scritto con disarmante semplicità Amartya Sen:

“Dato un contesto sociale in cui certi beni sono generalmente disponibili per la maggior parte delle persone, partecipare alla vita della comunità può essere molto difficile per coloro che non possiedono i beni in questione.”

Il televisore era diventato un passaporto per l’Italia contemporanea, un po’ come nell’Inghilterra del XVIII secolo le scarpe di cuoio che consentivano, secondo Adam Smith, di “apparire in pubblico senza vergogna”.
Già all’epoca del “miracolo economico”, dunque, nel panorama dei consumi gli elementi dell’utilità, della standardizzazione e della costruzione dell’ambiente domestico convivevano con sogni e desideri di più ampia portata. A partire dalla fine degli anni ’70, dopo la grave crisi economica di metà decennio, ebbe luogo un’altra fondamentale trasformazione. La nuova fase mutuava la propria spinta propulsiva da alcuni fondamentali cambiamenti economici: la rivoluzione informatica, il passaggio da una produzione standardizzata a una produzione più attenta ai gusti e alle esigenze individuali, la crescita del settore dell’intrattenimento come grande industria terziaria, la lunga congiuntura economica favorevole tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. La combinazione di questi fattori scatenò un’ondata di consumi molto più ricca – in tutti i sensi – e più articolata di quella precedente.
Tratto distintivo di questa nuova fase era la marcata accentuazione di alcuni elementi preesistenti, e la loro estensione a settori molto più ampi della popolazione. Di cruciale importanza era quello che Colin Campbell ha definito “moderno edonismo immaginativo autonomo”. Elemento cardine di questo concetto è il ruolo delle fantasie e dei desideri:

“La pratica visibile del consumo non è pertanto che una piccola parte di un modello complesso di comportamento edonistico, la maggior parte del quale avviene nell’immaginazione del consumatore.”

L’individuo godeva come mai in precedenza della possibilità di “essere despota di se stesso”, esercitando il proprio controllo su una scelta sempre più ampia di stimoli.
In seguito alla proliferazione dei canali televisivi e all’avvento di Internet, grazie alla diffusione di videocassette e videogiochi, “walkman” e lettori di CD – per citare solo gli esempi più evidenti –, il mondo del gioco, delle emozioni, dell’avventura, del sogno e dell’immaginazione entrò in una fase di mercificazione di massa. All’interno di questa categoria di beni di consumo fu senz’altro il videoregistratore a fare da padrone nelle case degli italiani. Nel 1996, il 48 per cento delle famiglie italiane possedeva un videoregistratore; dieci anni prima, i possessori erano solo il 3,5 per cento.
Il nuovo edonismo favoriva i viaggi e ne arricchiva le modalità. Gli aeroporti divennero centri romantici moderni in cui si poteva consumare fino al momento della partenza, in un primo periodo nella forma elementare del duty-free, successivamente in lussuosi centri commerciali.
In un mondo che riusciva sempre meglio a combinare il viaggio al divertimento, si provvedeva anche ai desideri dei più giovani. Per le famiglie più ricche, questo poteva voler dire un viaggio a Disneyworld in Florida; i ceti medi invece potevano aspirare alla versione parigina; chi disponeva di risorse limitate aveva comunque la possibilità di ripiegare su Gardaland. Le famiglie dei ceti medi di tutta la penisola organizzavano sempre più spesso il loro tempo fra due case: la prima era il luogo della vita quotidiana, dello stress, della routine, degli affari, del lavoro e della scuola; l’altra, in montagna o al mare, rappresentava invece lo spazio del tempo libero e dell’evasione.
Un secondo, importante elemento che caratterizzava questa nuova fase era la ricerca di accrescere le proprie conoscenze. A seguito della rivoluzione informatica, la disponibilità e il consumo di informazioni all’interno delle famiglie si erano enormemente accresciuti. È vero che nelle case italiane il personal computer si era diffuso con minore rapidità del videoregistratore o dell’impianto ad alta fedeltà: nel 1996 solo il 7,2 per cento degli abitanti italiani possedeva un computer, un aumento di tutto riguardo rispetto a dieci anni prima, anche se in Germania, Gran Bretagna e Francia la percentuale era quasi doppia e negli Stati Uniti raggiungeva addirittura il 29,7 per cento. Via via che un livello elevato di istruzione e di formazione diventava un requisito essenziale nell’economia dei servizi, il consumo di conoscenze acquistava sempre maggiore importanza. Nel caso dei più giovani, il consumo edonistico e quello informatico potevano idealmente sposarsi attraverso il computer, utilizzato prima per i videogiochi, successivamente a scopi educativi. Deludendo le speranze dei genitori, tuttavia, alcuni figli del ceto medio non avrebbero mai compiuto il passo decisivo.
Ultimo elemento centrale di questa nuova fase, quantunque meno innovativo, era quello estetico. L’appassionata attenzione per l’estetica – aspetto esteriore, stile, moda – aveva profonde radici nella cultura italiana e nella sua storia dei consumi.
Nel periodo in esame, lo spettacolare successo dell’industria italiana della moda, in concomitanza con l’aumento delle disponibilità economiche delle famiglie italiane, creò un mercato di massa per le griffe nazionali. Nel 1992 un sorprendente 37 per cento degli italiani affermava di indossare capi d’abbigliamento firmati, ma forse questo dato rappresentava più un desiderio che una realtà. L’ossessione per l’aspetto esteriore scoprì nuovi e più costosi beni di consumo sui quali sfogare i propri appetiti: le vendite di lozioni dopobarba e creme antirughe toccarono vette inaudite. Quasi un italiano su tre (indipendentemente dal sesso) usava abitualmente una crema per il viso.
Alla preoccupazione per l’estetica si accompagnava quella per la salute. Se i giovani affollavano le palestre, nel loro insieme le famiglie consumavano una vera montagna di medicinali. Come in altri Paesi dell’Europa meridionale, la spesa farmaceutica pro capite era insolitamente elevata. In parallelo, si assisteva a uno spettacolare incremento dei numeri di giorni trascorsi in ospedale, non perché gli italiani si ammalassero di più, quanto perché il sistema sanitario italiano non era in grado di ottimizzare la durata dei ricoveri: le analisi preoperatorie e la degenza postoperatoria richiedevano tempi lunghissimi, e l’organizzazione delle visite al parente ammalato diventava per la famiglia un’occupazione a tempo pieno. Si trattava di un genere di consumo insolito ma estremamente caratteristico.
Edonismo, conoscenza, estetica e salute erano i quattro capisaldi reciprocamente collegati dei consumi dell’Italia contemporanea. Non erano certo gli unici, giacché come i consumi degli anni ’60 non si esaurivano nella tipologia dell’utilità e della comodità, così quelli degli anni ’90 non si limitavano all’ambito del piacere, della conoscenza e della cura del corpo. Il principale obiettivo della famiglia restava pur sempre l’acquisto della casa, e le statistiche mostravano un costante aumento delle abitazioni di proprietà. Riguardo alla situazione di Bassano, la Filippucci commentava:

“I più ricchi vivono in ville circondate da giardini ben curati, protette da cani mordaci e cancelli a prova di ladro. Un ideale più modesto è l’appartamento in villetta, ben arredato [...]. Arturo, un uomo sui quarant’anni con un buon lavoro da elettricista, e sua moglie, maestra, avevano ricevuto in regalo dalla madre di lui una vecchia ‘casetta’ di quattro stanze. Nel 1988 Arturo la stava ristrutturando per ricavarne una villetta a due piani con tre camere da letto, un appartamentino indipendente per la madre, sauna, lavanderia, finiture di lusso e un complicato sistema antifurto.”

b) La televisione commerciale. Il boom dei consumi, con i suoi tratti innovativi e il carattere di massa, venne notevolmente stimolato dall’entrata in campo, più o meno simultanea, della televisione a colori e delle emittenti commerciali. Queste ultime, come il termine stesso suggerisce, derivavano tanto la propria ragion d’essere, quanto la propria redditività, dalla pubblicità. Come ha scritto Nora Rizza, il fine della televisione commerciale non era

“il saper produrre programmi, come è o dovrebbe essere la regola in una televisione pubblica, bensì il saper produrre, attraverso i programmi offerti, i telespettatori-consumatori richiesti dal mercato degli investitori pubblicitari.”

Questo valeva per le emittenti commerciali di ogni Paese, ma nel caso italiano le carenze normative scatenarono un vero e proprio assalto allo spettatore. David Forgacs ha calcolato che nel 1984 la Rai aveva trasmesso 46000 spot pubblicitari, per un totale di 311 ore; i canali commerciali dal canto loro avevano trasmesso 494000 spot per un totale di 3468 ore; complessivamente, ogni giorno in Italia venivano trasmessi circa 1500 spot televisivi, più che in tutto il resto d’Europa. L’assalto era tanto temporale quanto auditivo: il volume aumentava automaticamente all’apparire della pubblicità, e non solo nei programmi per adulti ma anche in quelli per bambini. Lungi dall’essere la “persuasione occulta” del famoso libro di Packard, la pubblicità delle emittenti commerciali negli anni ’80 aveva scatenato un attacco frontale, fragoroso e martellante tanto ai consumatori in erba quanto ai più incalliti veterani del mondo dei beni di consumo.
Tutto questo accadeva in un’epoca in cui la televisione esercitava una straordinaria egemonia sull’impiego del tempo libero. L’indagine Eurisko del 1986 confrontava la rispettiva frequenza di certi indicatori chiave dei consumi culturali. L’86,3 per cento degli intervistati guardava la televisione ogni giorno, mentre ad ascoltare la radio o a leggere un giornale con la stessa frequenza erano rispettivamente il 46,6 per cento e il 41,4 per cento del campione. Solo il 17 per cento andava al cinema e il 6,1 per cento visitava un museo almeno una volta al mese. La televisione era l’unica attività “culturale” quotidiana della famiglia italiana media.
Le reti commerciali, con la loro ripetitività, gli stereotipi e il vuoto culturale rappresentavano uno degli elementi meno attraenti della nuova fase consumistica. Nondimeno svolgevano un ruolo centrale in quanto giocavano continuamente sull’aspetto chiave del consumismo contemporaneo, quello dell’insaziabilità. Quest’ultima non derivava tanto da un’avidità innata, quanto dal carattere fondamentale del consumo, un ciclo in cui dal desiderio si passa all’acquisizione e all’uso, a cui fanno seguito la delusione, il rifiuto e infine il risorgere del desiderio. Tale ciclo era dovuto non solo ai “suggerimenti” della televisione commerciale, né semplicemente a una spinta vebleniana all’emulazione, quanto piuttosto affondava le proprie radici nella più ansiosa e profonda ricerca di identità e significato, da parte dello spettatore, attraverso l’acquisizione.

c) Stili di consumo. Non tutti gli italiani naturalmente potevano acquistare in uguale misura. Per la seconda metà degli anni ’80, Biorcio e Maneri hanno ipotizzato quattro diverse categorie di stili di consumo che, se non corrispondevano meccanicamente a strati diversi della popolazione, tuttavia offrivano alcune suggestive indicazioni. Gli stili superiori, che nel 1990 riguardavano circa il 30 per cento dei consumatori, si fondavano su due diversi binomi: “ricchezza e immagine” (in cui l’accento era su livelli di spesa elevati, sulla moda, sulla costruzione dell’identità personale mediante l’acquisto di oggetti esclusivi) e “qualità ed equilibrio” (eleganza, sobrietà, e un maggior controllo sui consumi). Il primo binomio riguardava in prevalenza le donne, il secondo gli uomini. Gli stili esplorativi (28 per cento nel 1990) coincidevano in larga parte con quelli dei giovani degli anni ’80: fra i loro tratti distintivi vi erano l’ostentazione, la frequente sostituzione di beni (orologi, vestiti, automobili, ecc.), la sperimentazione gastronomica, i viaggi in Paesi esotici; oppure, a livelli di reddito più bassi, si trattava di una combinazione di curiosità e noncuranza. Gli stili tradizionali (20,5 per cento) erano, come spiega il termine stesso, lo zoccolo duro di quanto restava dell’ “Italietta”, caratterizzato da relativo benessere, convenzionalità, perbenismo e particolare attenzione al risparmio, alle offerte speciali, alle svendite; in questo gruppo figuravano in gran numero casalinghe e pensionati. In ultimo vi erano gli stili marginali (21 per cento), contraddistinti da povertà dei consumatori, disinteresse per la moda, enfasi particolare sulle finalità pratiche degli acquisti e sulla necessità di far quadrare i conti: non sorprende che di questo gruppo facessero parte soprattutto operai e pensionati.

d) La critica al consumismo. La spettacolare trasformazione dei consumi in Italia è stata oggetto di commenti fortemente negativi, ispirati a diversi orientamenti di pensiero. Tale condanna generalizzata, però, non deve sorprendere, poiché essa recupera diversi elementi di una critica del consumismo antica e internazionalmente diffusa.
Su basi analoghe hanno costruito le proprie argomentazioni i critici più vicini a noi. Quando non arrivano a sostenere, come una volta Pier Paolo Pasolini, che il consumismo contemporaneo ha insito un carattere profondamente antidemocratico, essi mettono in dubbio l’esistenza di una correlazione forte tra arricchimento della cultura materiale e consolidamento del senso di cittadinanza; una convinzione efficacemente riassunta dal brutale interrogativo di J. C. Agnew: “Quale punto di contatto può esistere fra la fedeltà a una marca e la fedeltà civica?”. Essi inoltre ipotizzano che, nelle economie capitalistiche opulente come quella italiana, gli individui non riescano più ad affrontare, assimilare o anche solo controllare il flusso continuo dei beni che passano davanti ai loro occhi. Daniel Miller, per esempio, ha sostenuto che la diffusione della cultura “oggettuale” ha sopravanzato di molto la capacità di assorbimento del soggetto, e invoca con passione l’avvio di un nuovo processo di sublazione, in virtù del quale gli oggetti siano riassorbiti dai loro creatori anziché restare loro esterni ed estranei. Tale processo, però, non sembra aver compiuto grandi progressi nelle odierne società capitalistiche. Il cinismo del pubblicitario, secondo cui il consumismo contemporaneo è in gran parte poco più di una risposta pavloviana alle sue stesse manipolazioni, sembra una triste ma più incisiva rappresentazione della realtà contemporanea.
Tra le voci che in Italia criticarono le tendenze consumistiche rifacendosi tanto alla tradizione comunista quanto a quella cattolica, la più alta e intelligente fu quella di Enrico Berlinguer. Già nel 1977, introducendo nel compromesso storico il tema dell’austerità, Berlinguer sosteneva la necessità di rinunciare all’

“illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.”

Nel 1983, in occasione del XVI congresso del PCI, in un discorso che doveva essere sotto molti aspetti il suo testamento politico e morale, ritornò su quegli stessi temi in toni apocalittici.
Alla base della denuncia di Berlinguer vi era l’allarme nei confronti dello spreco, della sovrabbondanza e della nocività che caratterizzavano il consumismo contemporaneo. Si consumava troppo e troppo in fretta, troppo veniva gettato via, e l’eccesso, in generale, comportava danni irreversibili per l’ambiente e l’ecologia della vita quotidiana. Inoltre, secondo Berlinguer, i recenti progressi della cultura materiale si fondavano su valori profondamente sbagliati, quali la suprema importanza attribuita al denaro, all’apparenza, alla soddisfazione individuale, senza tener conto dei più urgenti bisogni della comunità.
I rischi insiti nel consumo irresponsabile, denunciati con tanta eloquenza da Berlinguer tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, sarebbero giunti a maturazione dieci anni dopo: città soffocate dal traffico, con tabelloni luminosi che segnalavano i livelli di inquinamento; paesaggi marini e montani deturpati dall’incontrollata proliferazione di seconde case e appartamenti; circoli ristretti di privilegiati che ostentavano la loro ricchezza mentre milioni di italiani, come abbiamo visto, continuavano a vivere in relativa povertà.
Molti elementi del nuovo consumismo erano indubbiamente futili, dannosi o semplicemente insensati, come il compulsivo “zapping” tra i canali televisivi (che dopo qualche tempo induce un profondo senso di depressione), l’assunzione di droghe pesanti (che produce effetti molto più piacevoli, ma a lungo andare assai più dannosi), o l’uso di un telefono cellulare per dire “ciao, mamma” o “ho appena preso il treno” (che non dà luogo a effetti degni di nota). Ciò che contava spesso era il superfluo: a metà degli anni ’80 la moglie di un piccolo imprenditore toscano confidava che nei due bagni di casa aveva fatto istallare quattro docce, una per ciascuno dei componenti della famiglia (marito, moglie e due figli maschi). In questo modo, spiegò, la mattina nessuno doveva mettersi in coda, anche se i bagni adesso somigliavano da vicino agli spogliatoi di un impianto sportivo.
Inoltre alcuni dei comportamenti consumistici degli italiani in questo stesso periodo si basavano su un’emulazione ossessiva e un desiderio di apparire che non coinvolgevano soltanto le classi medio-alte. Nel cuore delle campagne calabresi alla fine degli anni ’70 l’antropologa Fortunata Piselli intervistò una donna la quale insisteva sulla necessità che il marito tornasse a lavorare in Africa per consertirle di comprare “una cucina Salvarani nuova”.

“Mio marito a dire la verità non ce voleva proprio andare. ‘Mo’ che ne facciamo di tanti soldi?’, dice. Mo’ sta volta la compro davvero [la Salvarani]. Me l’ha ficcata int’a capa la televisione! Qui ad Altopiano non l’ho vista a nessuno.”

e) Qualche risposta. In Italia e altrove, la tetraggine dei giudizi ispirati dai nuovi modelli consumistici è stata occasionalmente rischiarata da bagliori di speranza. Alcuni commentatori, per esempio, hanno sottolineato la natura ciclica e mutevole del comportamento dei consumatori. Albert Hirschmann ha sostenuto che

“ogni volta che il progresso economico ha ampliato la disponibilità di beni di consumo per alcuni strati della società, sono venuti in primo piano forti sentimenti di delusione o di ostilità verso la nuova ricchezza materiale. Assieme all’apprezzamento, all’infatuazione e anche alla dedizione, il benessere sembra produrre il suo contraccolpo, quasi senza riguardo per quali tipi di beni sono introdotti e diffusi sul mercato.”

Con un’accentuazione diversa, Colin Campbell ha messo in evidenza lo schema ciclico “generazione-degenerazione-rigenerazione”.
Sono interpretazioni certamente preferibili a quelle più consuete improntate al più sfrenato pessimismo; ma non sono sufficienti. I consumi in Italia, come nelle altre società opulente, non erano unicamente spreco, eccesso ed emulazione, e descriverli in questi termini significherebbe ignorarne non solo la capacità di attrazione, ma anche la validità. Molti aspetti dell’ “edonismo immaginativo autonomo” non erano affatto dannosi, ma al contrario fonte di arricchimento personale. Alcune di queste esperienze potevano addirittura assumere un carattere estatico, come quella di provare per la prima volta un lettore portatile di CD e ricevere direttamente nelle orecchie un concerto personalizzato, che si trattasse di Mahler o dei Mettallica. Come esperienza auditiva era l’esatta antitesi delle invadenti e ineluttabili pubblicità televisive.
Bisogna insistere sul fatto che alla base del consumismo moderno vi fossero un innalzamento della qualità della vita e un incremento nella sua capacità di incanto, entrambi dovuti all’enorme arricchimento dell’esperienza e delle possibilità di scelta individuale nel campo sia dei beni sia dei servizi. Il consumo non poteva essere solo criminalizzato, doveva anche essere celebrato. Né si potevano inventare facili tipologie di consumi “buoni” e “cattivi”. Con rare eccezioni (quali le droghe pesanti), tutto dipendeva dalla misura e dal contesto sociale e individuale.
Come argomentava Colin Campbell, laddove prevalevano convinzioni strettamente materialistiche e utilitaristiche la capacità di sognare sarebbe stata usata soprattutto a fini di evasione, per combattere la noia e l’alienazione, e non per “creare un mondo ideale immaginario da contrapporre a quello esistente”. Ma dove esisteva un contesto diverso, o meglio la possibilità di una connessione fra sogni e azione, allora ne potevano scaturire sinergie di grande potenzialità.

Il modo migliore per illustrare la natura profondamente ambivalente del consumismo contemporaneo e la sua dipendenza dal contesto generale e dalle scelte individuali consiste forse nel considerare uno dei suoi “mostri” riconosciuti, la televisione, collocandola nell’ambiente domestico dell’Italia contemporanea.
Il seguente dialogo è stato registrato nel 1993, nel corso di una ricerca sul rapporto tra famiglie e televisione basata sulla tecnica “dell’osservazione partecipe”. Nel corso della conversazione, una famiglia riminese dai bassi livelli di istruzione ma descritta dagli autori come “ipertecnologica”, spiega l’origine dei suoi cinque televisori:

“Figlia minore: ‘No, aspetta, perché la storia è lunga. I miei genitori mi avevano comprato una televisione, a me. Lui ha fatto il casino perché non ce l’aveva: ‘Elisa, dammi la televisione; Elisa, dammi la televisione...’’
Osservatore: ‘E perché a te avevano comperato il televisore?’
Figlia minore: ‘Per regalo.’
Figlio maggiore: ‘L’avevano regalato con la lavatrice.’
Figlia minore: ‘Non è vero niente!’
Figlio maggiore: ‘Era in regalo con uno elettrodomestico.’
Padre: ‘No, con il coso...’
Madre: ‘Con il bagno.’
Padre: ‘Con il bagno, il bagno. Ci hanno fregato quattordici milioni di bagno e ci hanno dato la televisione da centomila... Ah, ah, ah!’
Figlia minore: ‘Comunque va bene quella televisione!’
Padre: ‘È un Kendo...’.
Madre: ‘Non c’hanno fregato niente. Scusa, abbiamo fatto un bagno con l’idromassaggio.’
Figlia minore [rivolgendosi al fratello]: ‘Ma me l’hai rotta...’
Figlio maggiore: ‘Eh?’
Figlia minore: ‘L’hai rotto tu il telecomando, ché io la tenevo come un dio: arriva lui... tra, tra, tra... ha rotto subito il telecomando’.
Padre: ‘Comunque, l’abbiamo avuta con i bollini dell’Omo quella...’

A una prima lettura (e anche alle successive) il dialogo rivela alcuni dei temi ricorrenti e più criticabili del consumismo italiano contemporaneo: la spesa elevata per l’arredamento del bagno; in cambio di tale spesa, l’acquirente riceveva in regalo altri beni durevoli di consumo, non necessariamente desiderati; l’atteggiamento acritico verso l’eccessiva accumulazione; la disillusione riguardo al valore dell’acquisto (“ci hanno fregato quattordici milioni...”); la frustrazione per la rottura dell’oggetto; nel complesso, un concorrere di negatività che si assommano agli abituali motivi di tensione all’interno della famiglia, come l’accesa rivalità tra fratelli.
La storia tuttavia non finisce qui. I ricercatori riferivano che in quella famiglia regnava “un’atmosfera di caotica vivacità e giocosità e, insieme, di forte affettività”. È vero che in casa c’erano cinque televisori, ma questo non aveva portato a una frammentazione del gruppo familiare. Al contrario, l’ascolto televisivo avveniva perlopiù collettivamente, in cucina (l’ambiente meno accogliente della casa), ed era accompagnato da un continuo flusso di commenti fra l’ironico e il sarcastico. Si trattava dunque di una famiglia che mostrava sintomi evidenti di feticismo della merce, ma i cui atteggiamenti non potevano essere facilmente liquidati come passivi e servili. I messaggi proposti con incessante ripetitività dalla televisione, soprattutto da quella commerciale, erano stati filtrati da una cultura familiare che li aveva elaborati a modo proprio.
Quanto si è detto sul “servizio” più insidioso e onnipresente, la televisione, può essere applicato, anche ad altri aspetti del consumismo contemporaneo. È difficile essere d’accordo con Christopher Lasch quando scriveva della famiglia nel 1967 che

“il mondo moderno ne viola continuamente l’intimità e ne cancella la privacy. L’inviolabilità della famiglia è un’ipocrisia in un mondo dominato dalle grandi società per azioni e dall’apparato della produzione di serie.”

La realtà del consumo non era così unidirezionale e catastrofica. L’indagine critica sulle proprietà sociali dei manufatti e dei servizi nel mondo contemporaneo deve certamente riconoscere la potenza e la concentrazione delle forze che li promuovono, ma non può fermarsi a questo livello. Essa deve considerare anche la varietà dei significati attribuiti dai consumatori a quei beni e servizi, e la complessità e autonomia delle loro reazioni e della loro cultura.


(Tratto dal saggio L’Italia del tempo presente, Famiglia, società civile, Stato, 1980-1996, pp. 161-176, Einaudi, Torino, 1998)





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