I
CONSUMI
( – un
capitolo del libro L’Italia del tempo presente – )
Paul Ginsborg
Una
delle chiavi per comprendere i comportamenti delle famiglie
nell’Italia contemporanea, le loro potenzialità e
le loro debolezze, può essere offerta dall’analisi
dei consumi. L’evoluzione del comportamento dei consumatori è un
campo di indagine tanto affascinante quanto poco esplorato.
Tradizionalmente gli storici e gli economisti, a prescindere
dalle opinioni politiche, si sono dedicati soprattutto all’analisi
della produzione e della sfera pubblica, trascurando in larga
parte l’altra faccia del capitalismo moderno, ossia il
mondo dei consumi, e il suo spazio elettivo, ossia la società domestica.
a)
Lo sviluppo dei consumi italiani. In linea di massima,
nell’Italia
repubblicana è possibile distinguere due diversi momenti
di transizione nella storia dei consumi. Il primo si colloca
all’epoca del “miracolo economico”, che vide
il passaggio da una società in cui molti dei bisogno
primari non venivano soddisfatti a una società in cui
almeno una grande maggioranza della popolazione italiana aveva
superato la soglia minima di benessere. I consumi di questo
periodo erano caratterizzati da una relativa omogeneità,
strettamente legata alla natura fordista e utilitaristica della
produzione, e da una maggiore attenzione ai nuovi piaceri della
vita domestica. Tra gli oggetti-tipo acquistati per l’arricchimento
materiale della casa e per alleviare il carico dei lavori casalinghi
vi erano i frigoriferi, lavatrici e mobili moderni. Simbolo
dietetico della transizione, celebrazione del “miracolo” attorno
al desco domestico, era l’aumentato consumo di carne.
Eppure già in questa fase erano presenti in misura notevole
consumi non facilmente riducibili a una tipologia puramente utilitaristica,
né a una semplicistica distinzione tra bisogni e desideri.
Un esempio calzante è quello dell’automobile e dello
scooter, mezzi che facilitavano indubbiamente gli spostamenti
e le comunicazioni, ma allo stesso tempo offrivano all’individuo
e alla famiglia nuove possibilità di scelta di itinerari
di viaggio, sia in città sia fuori. La Fiat 500 non
era solo un comodo mezzo di trasporto, ma anche e soprattutto
una
macchina per sognare.
Un altro esempio, forse il più importante, è fornito
dalla televisione. Nei primi anni del “miracolo”,
molti commentatori denunciarono il rischio che le famiglie più povere
acquistassero oggetti di consumo “superflui” come
il televisore, quando altri articoli ben più necessari
restavano fuori della soglia domestica. Una simile posizione
tradiva una visione molto limitata del rapporto fra merci e capacità,
ossia della misura in cui il possesso di un televisore non era
semplicemente un atto di emulazione, ma anche e più ancora
di emancipazione. Come ha scritto con disarmante semplicità Amartya
Sen:
“Dato
un contesto sociale in cui certi beni sono generalmente disponibili
per la maggior parte delle persone, partecipare alla vita della
comunità può essere molto difficile per coloro
che non possiedono i beni in questione.”
Il
televisore era diventato un passaporto per l’Italia contemporanea,
un po’ come nell’Inghilterra del XVIII secolo le
scarpe di cuoio che consentivano, secondo Adam Smith, di “apparire
in pubblico senza vergogna”.
Già all’epoca del “miracolo economico”,
dunque, nel panorama dei consumi gli elementi dell’utilità,
della standardizzazione e della costruzione dell’ambiente
domestico convivevano con sogni e desideri di più ampia
portata. A partire dalla fine degli anni ’70, dopo la grave
crisi economica di metà decennio, ebbe luogo un’altra
fondamentale trasformazione. La nuova fase mutuava la propria
spinta propulsiva da alcuni fondamentali cambiamenti economici:
la rivoluzione informatica, il passaggio da una produzione standardizzata
a una produzione più attenta ai gusti e alle esigenze
individuali, la crescita del settore dell’intrattenimento
come grande industria terziaria, la lunga congiuntura economica
favorevole tra la fine degli anni ’80 e l’inizio
degli anni ’90. La combinazione di questi fattori scatenò un’ondata
di consumi molto più ricca – in tutti i sensi – e
più articolata di quella precedente.
Tratto distintivo di questa nuova fase era la marcata accentuazione
di alcuni elementi preesistenti, e la loro estensione a settori
molto più ampi della popolazione. Di cruciale importanza
era quello che Colin Campbell ha definito “moderno edonismo
immaginativo autonomo”. Elemento cardine di questo concetto è il
ruolo delle fantasie e dei desideri:
“La
pratica visibile del consumo non è pertanto che una
piccola parte di un modello complesso di comportamento edonistico,
la maggior parte del quale avviene nell’immaginazione
del consumatore.”
L’individuo
godeva come mai in precedenza della possibilità di “essere
despota di se stesso”, esercitando il proprio controllo
su una scelta sempre più ampia di stimoli.
In seguito alla proliferazione dei canali televisivi e all’avvento
di Internet, grazie alla diffusione di videocassette e videogiochi, “walkman” e
lettori di CD – per citare solo gli esempi più evidenti –,
il mondo del gioco, delle emozioni, dell’avventura, del
sogno e dell’immaginazione entrò in una fase di
mercificazione di massa. All’interno di questa categoria
di beni di consumo fu senz’altro il videoregistratore a
fare da padrone nelle case degli italiani. Nel 1996, il 48 per
cento delle famiglie italiane possedeva un videoregistratore;
dieci anni prima, i possessori erano solo il 3,5 per cento.
Il nuovo edonismo favoriva i viaggi e ne arricchiva le modalità.
Gli aeroporti divennero centri romantici moderni in cui si poteva
consumare fino al momento della partenza, in un primo periodo
nella forma elementare del duty-free, successivamente in lussuosi
centri commerciali.
In un mondo che riusciva sempre meglio a combinare il viaggio
al divertimento, si provvedeva anche ai desideri dei più giovani.
Per le famiglie più ricche, questo poteva voler dire un
viaggio a Disneyworld in Florida; i ceti medi invece potevano
aspirare alla versione parigina; chi disponeva di risorse limitate
aveva comunque la possibilità di ripiegare su Gardaland.
Le famiglie dei ceti medi di tutta la penisola organizzavano
sempre più spesso il loro tempo fra due case: la prima
era il luogo della vita quotidiana, dello stress, della routine,
degli affari, del lavoro e della scuola; l’altra, in montagna
o al mare, rappresentava invece lo spazio del tempo libero e
dell’evasione.
Un secondo, importante elemento che caratterizzava questa nuova
fase era la ricerca di accrescere le proprie conoscenze. A seguito
della rivoluzione informatica, la disponibilità e il consumo
di informazioni all’interno delle famiglie si erano enormemente
accresciuti. È vero che nelle case italiane il personal
computer si era diffuso con minore rapidità del videoregistratore
o dell’impianto ad alta fedeltà: nel 1996 solo il
7,2 per cento degli abitanti italiani possedeva un computer,
un aumento di tutto riguardo rispetto a dieci anni prima, anche
se in Germania, Gran Bretagna e Francia la percentuale era quasi
doppia e negli Stati Uniti raggiungeva addirittura il 29,7 per
cento. Via via che un livello elevato di istruzione e di formazione
diventava un requisito essenziale nell’economia dei servizi,
il consumo di conoscenze acquistava sempre maggiore importanza.
Nel caso dei più giovani, il consumo edonistico e quello
informatico potevano idealmente sposarsi attraverso il computer,
utilizzato prima per i videogiochi, successivamente a scopi
educativi. Deludendo le speranze dei genitori, tuttavia, alcuni
figli del ceto medio non avrebbero mai compiuto il passo decisivo.
Ultimo elemento centrale di questa nuova fase, quantunque meno
innovativo, era quello estetico. L’appassionata attenzione
per l’estetica – aspetto esteriore, stile, moda – aveva
profonde radici nella cultura italiana e nella sua storia dei
consumi.
Nel periodo in esame, lo spettacolare successo dell’industria
italiana della moda, in concomitanza con l’aumento delle
disponibilità economiche delle famiglie italiane, creò un
mercato di massa per le griffe nazionali. Nel 1992 un sorprendente
37 per cento degli italiani affermava di indossare capi d’abbigliamento
firmati, ma forse questo dato rappresentava più un desiderio
che una realtà. L’ossessione per l’aspetto
esteriore scoprì nuovi e più costosi beni di consumo
sui quali sfogare i propri appetiti: le vendite di lozioni dopobarba
e creme antirughe toccarono vette inaudite. Quasi un italiano
su tre (indipendentemente dal sesso) usava abitualmente una crema
per il viso.
Alla preoccupazione per l’estetica si accompagnava quella
per la salute. Se i giovani affollavano le palestre, nel loro
insieme le famiglie consumavano una vera montagna di medicinali.
Come in altri Paesi dell’Europa meridionale, la spesa farmaceutica
pro capite era insolitamente elevata. In parallelo, si assisteva
a uno spettacolare incremento dei numeri di giorni trascorsi
in ospedale, non perché gli italiani si ammalassero di
più, quanto perché il sistema sanitario italiano
non era in grado di ottimizzare la durata dei ricoveri: le analisi
preoperatorie e la degenza postoperatoria richiedevano tempi
lunghissimi, e l’organizzazione delle visite al parente
ammalato diventava per la famiglia un’occupazione a tempo
pieno. Si trattava di un genere di consumo insolito ma estremamente
caratteristico.
Edonismo, conoscenza, estetica e salute erano i quattro capisaldi
reciprocamente collegati dei consumi dell’Italia contemporanea.
Non erano certo gli unici, giacché come i consumi degli
anni ’60 non si esaurivano nella tipologia dell’utilità e
della comodità, così quelli degli anni ’90
non si limitavano all’ambito del piacere, della conoscenza
e della cura del corpo. Il principale obiettivo della famiglia
restava pur sempre l’acquisto della casa, e le statistiche
mostravano un costante aumento delle abitazioni di proprietà.
Riguardo alla situazione di Bassano, la Filippucci commentava:
“I
più ricchi vivono in ville circondate da giardini ben
curati, protette da cani mordaci e cancelli a prova di ladro.
Un ideale più modesto è l’appartamento
in villetta, ben arredato [...]. Arturo, un uomo sui quarant’anni
con un buon lavoro da elettricista, e sua moglie, maestra,
avevano ricevuto in regalo dalla madre di lui una vecchia ‘casetta’ di
quattro stanze. Nel 1988 Arturo la stava ristrutturando per
ricavarne una villetta a due piani con tre camere da letto,
un appartamentino indipendente per la madre, sauna, lavanderia,
finiture di lusso e un complicato sistema antifurto.”
b)
La televisione commerciale. Il boom dei consumi, con i suoi
tratti innovativi e il carattere di massa, venne notevolmente
stimolato dall’entrata in campo, più o meno simultanea,
della televisione a colori e delle emittenti commerciali. Queste
ultime, come il termine stesso suggerisce, derivavano tanto
la propria ragion d’essere, quanto la propria redditività,
dalla pubblicità. Come ha scritto Nora Rizza, il fine
della televisione commerciale non era
“il
saper produrre programmi, come è o dovrebbe essere la
regola in una televisione pubblica, bensì il saper produrre,
attraverso i programmi offerti, i telespettatori-consumatori
richiesti dal mercato degli investitori pubblicitari.”
Questo
valeva per le emittenti commerciali di ogni Paese, ma nel caso
italiano le carenze normative scatenarono un vero e proprio
assalto allo spettatore. David Forgacs ha calcolato che nel
1984 la Rai aveva trasmesso 46000 spot pubblicitari, per un
totale di 311 ore; i canali commerciali dal canto loro avevano
trasmesso 494000 spot per un totale di 3468 ore; complessivamente,
ogni giorno in Italia venivano trasmessi circa 1500 spot televisivi,
più che in tutto il resto d’Europa. L’assalto
era tanto temporale quanto auditivo: il volume aumentava automaticamente
all’apparire della pubblicità, e non solo nei
programmi per adulti ma anche in quelli per bambini. Lungi
dall’essere la “persuasione occulta” del
famoso libro di Packard, la pubblicità delle emittenti
commerciali negli anni ’80 aveva scatenato un attacco
frontale, fragoroso e martellante tanto ai consumatori in erba
quanto ai più incalliti veterani del mondo dei beni
di consumo.
Tutto questo accadeva in un’epoca in cui la televisione
esercitava una straordinaria egemonia sull’impiego del
tempo libero. L’indagine Eurisko del 1986 confrontava la
rispettiva frequenza di certi indicatori chiave dei consumi culturali.
L’86,3 per cento degli intervistati guardava la televisione
ogni giorno, mentre ad ascoltare la radio o a leggere un giornale
con la stessa frequenza erano rispettivamente il 46,6 per cento
e il 41,4 per cento del campione. Solo il 17 per cento andava
al cinema e il 6,1 per cento visitava un museo almeno una volta
al mese. La televisione era l’unica attività “culturale” quotidiana
della famiglia italiana media.
Le reti commerciali, con la loro ripetitività, gli stereotipi
e il vuoto culturale rappresentavano uno degli elementi meno
attraenti della nuova fase consumistica. Nondimeno svolgevano
un ruolo centrale in quanto giocavano continuamente sull’aspetto
chiave del consumismo contemporaneo, quello dell’insaziabilità.
Quest’ultima non derivava tanto da un’avidità innata,
quanto dal carattere fondamentale del consumo, un ciclo in cui
dal desiderio si passa all’acquisizione e all’uso,
a cui fanno seguito la delusione, il rifiuto e infine il risorgere
del desiderio. Tale ciclo era dovuto non solo ai “suggerimenti” della
televisione commerciale, né semplicemente a una spinta
vebleniana all’emulazione, quanto piuttosto affondava le
proprie radici nella più ansiosa e profonda ricerca di
identità e significato, da parte dello spettatore, attraverso
l’acquisizione.
c)
Stili di consumo. Non tutti gli italiani naturalmente potevano
acquistare in uguale misura. Per la seconda metà degli
anni ’80, Biorcio e Maneri hanno ipotizzato quattro diverse
categorie di stili di consumo che, se non corrispondevano meccanicamente
a strati diversi della popolazione, tuttavia offrivano alcune
suggestive indicazioni. Gli stili superiori, che nel 1990 riguardavano
circa il 30 per cento dei consumatori, si fondavano su due
diversi binomi: “ricchezza e immagine” (in cui
l’accento era su livelli di spesa elevati, sulla moda,
sulla costruzione dell’identità personale mediante
l’acquisto di oggetti esclusivi) e “qualità ed
equilibrio” (eleganza, sobrietà, e un maggior
controllo sui consumi). Il primo binomio riguardava in prevalenza
le donne, il secondo gli uomini. Gli stili esplorativi (28
per cento nel 1990) coincidevano in larga parte con quelli
dei giovani degli anni ’80: fra i loro tratti distintivi
vi erano l’ostentazione, la frequente sostituzione di
beni (orologi, vestiti, automobili, ecc.), la sperimentazione
gastronomica, i viaggi in Paesi esotici; oppure, a livelli
di reddito più bassi, si trattava di una combinazione
di curiosità e noncuranza. Gli stili tradizionali (20,5
per cento) erano, come spiega il termine stesso, lo zoccolo
duro di quanto restava dell’ “Italietta”,
caratterizzato da relativo benessere, convenzionalità,
perbenismo e particolare attenzione al risparmio, alle offerte
speciali, alle svendite; in questo gruppo figuravano in gran
numero casalinghe e pensionati. In ultimo vi erano gli stili
marginali (21 per cento), contraddistinti da povertà dei
consumatori, disinteresse per la moda, enfasi particolare sulle
finalità pratiche degli acquisti e sulla necessità di
far quadrare i conti: non sorprende che di questo gruppo facessero
parte soprattutto operai e pensionati.
d)
La critica al consumismo. La spettacolare trasformazione dei
consumi in Italia è stata oggetto di commenti fortemente
negativi, ispirati a diversi orientamenti di pensiero. Tale
condanna generalizzata, però, non deve sorprendere,
poiché essa recupera diversi elementi di una critica
del consumismo antica e internazionalmente diffusa.
Su basi analoghe hanno costruito le proprie argomentazioni i
critici più vicini a noi. Quando non arrivano a sostenere,
come una volta Pier Paolo Pasolini, che il consumismo contemporaneo
ha insito un carattere profondamente antidemocratico, essi mettono
in dubbio l’esistenza di una correlazione forte tra arricchimento
della cultura materiale e consolidamento del senso di cittadinanza;
una convinzione efficacemente riassunta dal brutale interrogativo
di J. C. Agnew: “Quale punto di contatto può esistere
fra la fedeltà a una marca e la fedeltà civica?”.
Essi inoltre ipotizzano che, nelle economie capitalistiche opulente
come quella italiana, gli individui non riescano più ad
affrontare, assimilare o anche solo controllare il flusso continuo
dei beni che passano davanti ai loro occhi. Daniel Miller, per
esempio, ha sostenuto che la diffusione della cultura “oggettuale” ha
sopravanzato di molto la capacità di assorbimento del
soggetto, e invoca con passione l’avvio di un nuovo processo
di sublazione, in virtù del quale gli oggetti siano riassorbiti
dai loro creatori anziché restare loro esterni ed estranei.
Tale processo, però, non sembra aver compiuto grandi progressi
nelle odierne società capitalistiche. Il cinismo del pubblicitario,
secondo cui il consumismo contemporaneo è in gran parte
poco più di una risposta pavloviana alle sue stesse manipolazioni,
sembra una triste ma più incisiva rappresentazione della
realtà contemporanea.
Tra le voci che in Italia criticarono le tendenze consumistiche
rifacendosi tanto alla tradizione comunista quanto a quella cattolica,
la più alta e intelligente fu quella di Enrico Berlinguer.
Già nel 1977, introducendo nel compromesso storico il
tema dell’austerità, Berlinguer sosteneva la necessità di
rinunciare all’
“illusione
che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su
quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte
di sprechi, di parassitismi, di dissipazione delle risorse,
di dissesto finanziario.”
Nel
1983, in occasione del XVI congresso del PCI, in un discorso
che doveva essere sotto molti aspetti il suo testamento politico
e morale, ritornò su quegli stessi temi in toni apocalittici.
Alla base della denuncia di Berlinguer vi era l’allarme
nei confronti dello spreco, della sovrabbondanza e della nocività che
caratterizzavano il consumismo contemporaneo. Si consumava troppo
e troppo in fretta, troppo veniva gettato via, e l’eccesso,
in generale, comportava danni irreversibili per l’ambiente
e l’ecologia della vita quotidiana. Inoltre, secondo Berlinguer,
i recenti progressi della cultura materiale si fondavano su valori
profondamente sbagliati, quali la suprema importanza attribuita
al denaro, all’apparenza, alla soddisfazione individuale,
senza tener conto dei più urgenti bisogni della comunità.
I rischi insiti nel consumo irresponsabile, denunciati con tanta
eloquenza da Berlinguer tra la fine degli anni ’70 e l’inizio
degli anni ’80, sarebbero giunti a maturazione dieci anni
dopo: città soffocate dal traffico, con tabelloni luminosi
che segnalavano i livelli di inquinamento; paesaggi marini e
montani deturpati dall’incontrollata proliferazione di
seconde case e appartamenti; circoli ristretti di privilegiati
che ostentavano la loro ricchezza mentre milioni di italiani,
come abbiamo visto, continuavano a vivere in relativa povertà.
Molti elementi del nuovo consumismo erano indubbiamente futili,
dannosi o semplicemente insensati, come il compulsivo “zapping” tra
i canali televisivi (che dopo qualche tempo induce un profondo
senso di depressione), l’assunzione di droghe pesanti (che
produce effetti molto più piacevoli, ma a lungo andare
assai più dannosi), o l’uso di un telefono cellulare
per dire “ciao, mamma” o “ho appena preso il
treno” (che non dà luogo a effetti degni di nota).
Ciò che contava spesso era il superfluo: a metà degli
anni ’80 la moglie di un piccolo imprenditore toscano confidava
che nei due bagni di casa aveva fatto istallare quattro docce,
una per ciascuno dei componenti della famiglia (marito, moglie
e due figli maschi). In questo modo, spiegò, la mattina
nessuno doveva mettersi in coda, anche se i bagni adesso somigliavano
da vicino agli spogliatoi di un impianto sportivo.
Inoltre alcuni dei comportamenti consumistici degli italiani
in questo stesso periodo si basavano su un’emulazione ossessiva
e un desiderio di apparire che non coinvolgevano soltanto le
classi medio-alte. Nel cuore delle campagne calabresi alla fine
degli anni ’70 l’antropologa Fortunata Piselli intervistò una
donna la quale insisteva sulla necessità che il marito
tornasse a lavorare in Africa per consertirle di comprare “una
cucina Salvarani nuova”.
“Mio
marito a dire la verità non ce voleva proprio andare. ‘Mo’ che
ne facciamo di tanti soldi?’, dice. Mo’ sta volta
la compro davvero [la Salvarani]. Me l’ha ficcata int’a
capa la televisione! Qui ad Altopiano non l’ho vista
a nessuno.”
e)
Qualche risposta. In Italia e altrove, la tetraggine dei giudizi
ispirati dai nuovi modelli consumistici è stata occasionalmente
rischiarata da bagliori di speranza. Alcuni commentatori, per
esempio, hanno sottolineato la natura ciclica e mutevole del
comportamento dei consumatori. Albert Hirschmann ha sostenuto
che
“ogni
volta che il progresso economico ha ampliato la disponibilità di
beni di consumo per alcuni strati della società, sono
venuti in primo piano forti sentimenti di delusione o di ostilità verso
la nuova ricchezza materiale. Assieme all’apprezzamento,
all’infatuazione e anche alla dedizione, il benessere
sembra produrre il suo contraccolpo, quasi senza riguardo per
quali tipi di beni sono introdotti e diffusi sul mercato.”
Con
un’accentuazione diversa, Colin Campbell ha messo in
evidenza lo schema ciclico “generazione-degenerazione-rigenerazione”.
Sono interpretazioni certamente preferibili a quelle più consuete
improntate al più sfrenato pessimismo; ma non sono sufficienti.
I consumi in Italia, come nelle altre società opulente,
non erano unicamente spreco, eccesso ed emulazione, e descriverli
in questi termini significherebbe ignorarne non solo la capacità di
attrazione, ma anche la validità. Molti aspetti dell’ “edonismo
immaginativo autonomo” non erano affatto dannosi, ma al
contrario fonte di arricchimento personale. Alcune di queste
esperienze potevano addirittura assumere un carattere estatico,
come quella di provare per la prima volta un lettore portatile
di CD e ricevere direttamente nelle orecchie un concerto personalizzato,
che si trattasse di Mahler o dei Mettallica. Come esperienza
auditiva era l’esatta antitesi delle invadenti e ineluttabili
pubblicità televisive.
Bisogna insistere sul fatto che alla base del consumismo moderno
vi fossero un innalzamento della qualità della vita e
un incremento nella sua capacità di incanto, entrambi
dovuti all’enorme arricchimento dell’esperienza e
delle possibilità di scelta individuale nel campo sia
dei beni sia dei servizi. Il consumo non poteva essere solo criminalizzato,
doveva anche essere celebrato. Né si potevano inventare
facili tipologie di consumi “buoni” e “cattivi”.
Con rare eccezioni (quali le droghe pesanti), tutto dipendeva
dalla misura e dal contesto sociale e individuale.
Come argomentava Colin Campbell, laddove prevalevano convinzioni
strettamente materialistiche e utilitaristiche la capacità di
sognare sarebbe stata usata soprattutto a fini di evasione, per
combattere la noia e l’alienazione, e non per “creare
un mondo ideale immaginario da contrapporre a quello esistente”.
Ma dove esisteva un contesto diverso, o meglio la possibilità di
una connessione fra sogni e azione, allora ne potevano scaturire
sinergie di grande potenzialità.
Il
modo migliore per illustrare la natura profondamente ambivalente
del consumismo contemporaneo e la sua dipendenza dal contesto
generale e dalle scelte individuali consiste forse nel considerare
uno dei suoi “mostri” riconosciuti, la televisione,
collocandola nell’ambiente domestico dell’Italia
contemporanea.
Il seguente dialogo è stato registrato nel 1993, nel corso
di una ricerca sul rapporto tra famiglie e televisione basata
sulla tecnica “dell’osservazione partecipe”.
Nel corso della conversazione, una famiglia riminese dai bassi
livelli di istruzione ma descritta dagli autori come “ipertecnologica”,
spiega l’origine dei suoi cinque televisori:
“Figlia
minore: ‘No, aspetta, perché la storia è lunga.
I miei genitori mi avevano comprato una televisione, a me.
Lui ha fatto il casino perché non ce l’aveva: ‘Elisa,
dammi la televisione; Elisa, dammi la televisione...’’
Osservatore: ‘E perché a te avevano comperato il
televisore?’
Figlia minore: ‘Per regalo.’
Figlio maggiore: ‘L’avevano regalato con la lavatrice.’
Figlia minore: ‘Non è vero niente!’
Figlio maggiore: ‘Era in regalo con uno elettrodomestico.’
Padre: ‘No, con il coso...’
Madre: ‘Con il bagno.’
Padre: ‘Con il bagno, il bagno. Ci hanno fregato quattordici
milioni di bagno e ci hanno dato la televisione da centomila...
Ah, ah, ah!’
Figlia minore: ‘Comunque va bene quella televisione!’
Padre: ‘È un Kendo...’.
Madre: ‘Non c’hanno fregato niente. Scusa, abbiamo
fatto un bagno con l’idromassaggio.’
Figlia minore [rivolgendosi al fratello]: ‘Ma me l’hai
rotta...’
Figlio maggiore: ‘Eh?’
Figlia minore: ‘L’hai rotto tu il telecomando, ché io
la tenevo come un dio: arriva lui... tra, tra, tra... ha rotto
subito il telecomando’.
Padre: ‘Comunque, l’abbiamo avuta con i bollini dell’Omo
quella...’
A
una prima lettura (e anche alle successive) il dialogo rivela
alcuni dei temi ricorrenti e più criticabili del consumismo
italiano contemporaneo: la spesa elevata per l’arredamento
del bagno; in cambio di tale spesa, l’acquirente riceveva
in regalo altri beni durevoli di consumo, non necessariamente
desiderati; l’atteggiamento acritico verso l’eccessiva
accumulazione; la disillusione riguardo al valore dell’acquisto
(“ci hanno fregato quattordici milioni...”); la
frustrazione per la rottura dell’oggetto; nel complesso,
un concorrere di negatività che si assommano agli abituali
motivi di tensione all’interno della famiglia, come l’accesa
rivalità tra fratelli.
La storia tuttavia non finisce qui. I ricercatori riferivano
che in quella famiglia regnava “un’atmosfera di caotica
vivacità e giocosità e, insieme, di forte affettività”. È vero
che in casa c’erano cinque televisori, ma questo non aveva
portato a una frammentazione del gruppo familiare. Al contrario,
l’ascolto televisivo avveniva perlopiù collettivamente,
in cucina (l’ambiente meno accogliente della casa), ed
era accompagnato da un continuo flusso di commenti fra l’ironico
e il sarcastico. Si trattava dunque di una famiglia che mostrava
sintomi evidenti di feticismo della merce, ma i cui atteggiamenti
non potevano essere facilmente liquidati come passivi e servili.
I messaggi proposti con incessante ripetitività dalla
televisione, soprattutto da quella commerciale, erano stati filtrati
da una cultura familiare che li aveva elaborati a modo proprio.
Quanto si è detto sul “servizio” più insidioso
e onnipresente, la televisione, può essere applicato,
anche ad altri aspetti del consumismo contemporaneo. È difficile
essere d’accordo con Christopher Lasch quando scriveva
della famiglia nel 1967 che
“il
mondo moderno ne viola continuamente l’intimità e
ne cancella la privacy. L’inviolabilità della
famiglia è un’ipocrisia in un mondo dominato dalle
grandi società per azioni e dall’apparato della
produzione di serie.”
La
realtà del consumo non era così unidirezionale
e catastrofica. L’indagine critica sulle proprietà sociali
dei manufatti e dei servizi nel mondo contemporaneo deve certamente
riconoscere la potenza e la concentrazione delle forze che
li promuovono, ma non può fermarsi a questo livello.
Essa deve considerare anche la varietà dei significati
attribuiti dai consumatori a quei beni e servizi, e la complessità e
autonomia delle loro reazioni e della loro cultura.
(Tratto
dal saggio L’Italia del tempo presente, Famiglia, società civile,
Stato, 1980-1996, pp. 161-176, Einaudi, Torino, 1998)
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