LA
RISCOSSA DEI BRIGHT
Daniel
G. Dennett
Il
termine “bright” (che letteralmente significa “brillante”) è stato
coniato di recente da due bright di Sacramento, in California.
Secondo loro, la nostra categoria sociale – la cui nascita
si può far risalire all’epoca dell’Illuminismo,
se non ancora più indietro – aveva bisogno di
rifarsi un po’ l’immagine e un novo nome avrebbe
potuto aiutarla. Ma non bisogna confondere il nome con l’aggettivo.
Dire “sono un bright” non è un modo per
vantarsi della propria intelligenza, ma per affermare con orgoglio
di avere una visione del mondo lucida e razionale.
Forse anche voi siete bright. Se non lo siete, sicuramente avete
a che fare tutti i giorni con qualche bright. Perché noi
siamo dappertutto. Siamo medici, infermieri, agenti di polizia,
insegnanti, vigili urbani e militari, uomini e donne. Siamo i
vostri figli e le vostre figlie, i vostri fratelli e le vostre
sorelle. I college e le università sono piene di bright.
Tra gli scienziati siamo decisamente in maggioranza. Ci sono
bright che insegnano il catechismo e la Torah. È probabile
che ci siano molti bright perfino tra i membri del clero. Dal
punto di vista morale siamo la spina dorsale del paese. I bright
prendono sul serio il loro impegno civile proprio perché non
confidano nel fatto che Dio salverà l’umanità dalle
sue follie.
Essendo un maschio bianco, adulto e sposato, con una certa sicurezza
economica, non ho la sensazione di far parte di una minoranza
che ha bisogno di essere protetta. Ma adesso comincio a vedere
segnali preoccupanti e, anche se la cosa non mi provoca ancora
grandi disagi, credo sia arrivato il momento di lanciare l’allarme.
Non so se i bright siano una minoranza o se, come penso, una
maggioranza silenziosa, ma le nostre più profonde convinzioni
vengono sminuite e condannate da chi ha il potere – i politici
che invocano continuamente Dio e dichiarano, vantandosene ipocritamente,
di essere “dalla parte degli angeli”.
Da un’indagine condotta nel 2002 dal Pew forum on religion
and public life è emerso che 27 milioni di statunitensi
non aderiscono ad alcuna religione. Ma probabilmente la cifra
reale è più alta, perché molti non credenti
non vogliono ammettere che la loro osservanza religiosa è dettata
dall’abitudine e dalle convenzioni sociali più che
da profondi sentimenti religiosi.
La maggior parte dei bright non vuole interpretare il ruolo “dell’ateo
aggressivo”. Non vogliamo trasformare ogni conversazione
in un dibattito sulla religione, e non vogliamo offendere i nostri
amici e vicini. Quindi rimaniamo diplomaticamente in silenzio.
Ma il prezzo che paghiamo è l’impotenza politica.
I politici pensano di non doverci alcun rispetto, e molti leader,
che non si permetterebbero mai di pronunciare insulti razziali
o etnici, non esitano invece a offendere chi è “senza
Dio”.
Dalla Casa Bianca in giù, attaccare i bright viene considerato
un modo facile per conquistare voti. Naturalmente questa aggressione
non è solo verbale. L’amministrazione Bush ha chiesto
una modifica della legislazione attuale per dare più spazio
alle organizzazioni religiose nella vita quotidiana, con una
grave violazione della costituzione. È ora di rispondere
a queste provocazioni prendendo posizioni più nette. Il
nostro non è uno stato religioso, è uno stato laico
che ammette tutte le religioni, e anche le convinzioni etiche
non religiose.
Uscire
allo scoperto
Di
recente ho partecipato a un convegno a Seattle che riuniva
molti affermati scienziati, artisti e scrittori per parlare
in modo aperto e informale della loro vita a un gruppo di studenti
di scuole superiori particolarmente brillanti. Verso la fine
dei quindici minuti che mi spettavano, ho tentato un piccolo
esperimento. Ho dichiarato di essere bright.
Questa rivelazione non poteva certo sorprendere chi conosceva
anche vagamente le mie opere. Nonostante questo, il risultato è stato
elettrizzante. Dopo la conferenza molti studenti sono venuti
da me ringraziandomi per averli “liberati”. Non mi
ero reso conto di quanto questi adolescenti si sentissero soli
e insicuri. Non avevano mai sentito un adulto rispettabile dire,
con grande naturalezza, che non credeva in Dio. Avevo infranto
un tabù e dimostrato quanto fosse facile.
Inoltre, molti degli invitati che hanno parlato dopo di me, compresi
alcuni premi Nobel, si sono sentiti liberi di dire che anche
loro erano bright. E ogni volta la confessione veniva accolta
da applausi. Ancora più gratificanti sono stati i commenti
degli adulti e degli studenti che mi hanno cercato per dirmi
che sostengono i diritti dei bright, anche se credono in Dio.
Ed è proprio questo che vogliamo: essere trattati con
lo stesso rispetto riservato ai battisti, agli induisti e ai
cattolici.
Che possiamo fare in concreto noi bright? Se affermiamo la nostra
identità possiamo diventare una forza di primo piano nella
vita politica statunitense (per iscriversi al movimento si può visitare
il sito web: www.the-brights.net). Mi rendo conto però che
se uscire allo scoperto è stato facile per un accademico
come me, o come il mio collega Richard Dawkins, che ha fatto
la stessa cosa in Inghilterra, non è detto che lo sia
per tutti. In alcune regioni degli Stati Uniti ammettere di essere
bright può creare gravi problemi sociali. Uscire allo
scoperto può essere molto difficile.
Non c’è motivo per cui gli statunitensi non debbano
sostenere i diritti dei bright. Io non sono né gay né afroamericano,
ma nessuno può offendere gli omosessuali o i neri davanti
a me e farla franca. Quale che sia il vostro credo, dovreste
opporvi con fermezza quando sentite familiari o amici deridere
gli atei, gli agnostici o altri senza Dio. E dovreste fare ai
vostri politici le seguenti domande: è disposto ad affidare
un incarico di rilievo a un candidato qualificato che ha ammesso
di essere bright? È disposto a sostenere la nomina di
un bright alla corte suprema? Pensa che ai bright debba essere
permesso di insegnare nelle scuole superiori? E diventare capi
della polizia?
Costringiamo i candidati statunitensi a rispondere a queste domande.
Se saremo determinati, presto qualche imbarazzato politico sarà costretto
a cavarsi d’impaccio dicendo: “Alcuni dei miei migliori
amici sono bright”.
IL
PESO DELLE PAROLE
Titus
Plattner
Tempo
fa ho letto un racconto di fantascienza in cui gli astronauti
che viaggiavano verso una stella lontana dicevano in tono nostalgico: “Pensa
che adesso sulla Terra è primavera!”. Forse non
vi renderete immediatamente conto di cosa non va in questa
esclamazione, tanto radicato è il nostro inconscio sciovinismo
per l’emisfero settentrionale. “Inconscio” è la
parola esatta. Ed è per questo che è necessario
essere più consapevoli di alcune cose. In Australia
e in Nuova Zelanda sono in vendita cartine geografiche con
il polo sud in alto. Sarebbe una buona idea attaccarle alle
pareti delle nostre classi? Che splendido modo per aumentare
il livello di consapevolezza degli studenti! Imparerebbero
che nord non significa necessariamente sopra. Andrebbero a
casa e lo direbbero ai loro genitori. Questa tecnica ce l’hanno
insegnata le femministe. All’inizio quando sentivo dire “lui
o lei” oppure “persona che presiede” mi veniva
da ridere, e sono espressioni che anche adesso cerco di evitare
per motivi estetici. Ma con il tempo ho capito quanto sia importante
avere la consapevolezza di queste cose. Adesso evito di dire “un
uomo un voto”. Sono più consapevole. Forse lo
siete anche voi. Anni fa criticavo il formalismo dei miei amici
atei statunitensi. Erano ossessionati dall’idea di eliminare
la parola “dio” dal giuramento di fedeltà (era
stata inserita nel 1954), mentre a me dava molto più fastidio
l’idea di dover giurare fedeltà a una bandiera.
I miei amici volevano cancellare le parole “In God we
trust” (crediamo in Dio) da ogni dollaro che passava
per le loro mani, mentre io mi preoccupavo di più dei
dollari accumulati senza pagare le tasse dai telepredicatori
dai capelli gonfi, che derubano le vecchie signore ingenue
dei risparmi di una vita. Erano disposti a inimicarsi i vicini
pur di denunciare l’incostituzionalità dei manifesti
con i dieci comandamenti appesi alle pareti delle classi. “Sono
solo parole”, cercavo di spiegare. “Perché agitarsi
tanto per delle semplici parole, quando ci sono tante altre
cose che non vanno?” Adesso sto cominciando a cambiare
idea. Le parole sono importanti. Contano, perché ci
rendono più consapevoli.
Il modo migliore per rendere più consapevoli le persone è quello
che ho già esposto molte volte (e non me ne scuso, perché in
questi casi la ripetizione è importante). Espressioni
come “bambino cattolico” o “bambino musulmano” dovrebbero
farci inorridire, proprio come l’espressione “un
uomo un voto”. I bambini sono troppo piccoli per avere
opinioni sulla religione. Non possiamo votare prima dei 18 anni.
Allo stesso modo la nostra visione del mondo e la nostra etica
non dovrebbero essere semplicemente ereditate dai genitori. Non
ci fa forse inorridire l’espressione bambino leninista,
bambino neoconservatore e bambino monetarista? Non è una
forma di violenza parlare di bambini cattolici o protestanti?
E non lo è ancora di più in Irlanda del Nord dove
queste etichette, usate da generazioni, dividono interi quartieri
e possono anche significare una condanna a morte?
A volte può essere necessario usare un eufemismo, e io
suggerirei: Un bambino figlio di genitori ebrei” (e così via).
Proprio come le cartine rovesciate ci rendono più consapevoli
di una realtà geografica, i bambini non dovrebbero sentirsi
definire “cristiani”, ma “figli di cristiani”.
Basterebbe questo a renderli più consapevoli, per poi
dargli l’opportunità di scegliere quale religione
preferiscono, se mai ne preferiscono una, piuttosto che dare
per scontato che religione significhi “avere la stessa
fede dei genitori”. Penso che questa libertà di
scelta, che scaturisce dal linguaggio usato, indurrebbe probabilmente
molti bambini a non scegliere alcuna religione.
Le
lezioni dei gay
Questa
strategia per promuovere una maggiore sensibilità e
consapevolezza ha permesso in passato agli omosessuali di appropriarsi
della parola “gay”. È una parola breve,
allegra e positiva. È una parola “gioiosa”,
mentre “omosessuale” è una parola triste,
e finocchio, frocio e checca sono insulti. Chi non aderisce
ad alcuna religione; chi ha una visione di mondo naturalistica
anziché soprannaturale; chi ama la realtà e non
vuole affidarsi al falso conforto dell’irreale; queste
persone hanno bisogno di una parola che le rappresenti. Possiamo
dire “io sono ateo”, ma nel migliore dei casi suona
macchinoso (come “io sono omosessuale”).
Paul Geisert e Mynga Futrell, di Sacramento, in California, hanno
cercato una nuova parola. Come nel caso di “gay” hanno
cercato un nome derivato da un aggettivo, che modificasse il
significato originario ma non troppo. Doveva essere una parola
semplice, positiva, allegra, brillante, “bright”.
Bright? Sì, bright. Ecco la parola, il nuovo nome.
Sono un bright. Sei un bright. Lei è una bright. Noi siamo
bright. Non sarebbe ora che anche tu ammettessi di essere un
bright? Non è un bright? Non riesco a immaginare di innamorarmi
di una donna che non sia una bright. Il sito web www.celebatheists.com
rivela quanti intellettuali e altre persone famose siano bright.
I bright costituiscono il 60 per cento degli scienziati statunitensi,
e un incredibile 93 per cento di quelli bravi abbastanza da entrare
nella prestigiosa National Academy of Sciences. E anche se non
possono ammetterlo perché rischierebbero di non essere
eletti, anche il congresso statunitense è pieno di bright
in incognito. Come è successo per i gay, più persone
diranno di essere bright più sarà facile per gli
altri. Molti di quelli che non amano la parola ateo saranno felici
di definirsi bright.
Geisert e Futrell insistono molto sul fatto che la parola è un
sostantivo e non un aggettivo. Dire “io sono bright” (io
sono “brillante”), può far pensare che siamo
arroganti. L’espressione “sono un bright”,
invece, non è arrogante e suona enigmatica e provocatoria.
Induce la gente a chiedersi cosa può significare. Noi
saremo pronti a rispondere: “Un bright è chi ha
una visione del mondo priva di elementi mistici o soprannaturali.
L’etica e il comportamento dei bright si basano su una
visione naturalistica del mondo”. “Vuoi dire che
un bright è un ateo?”. Be’, alcuni bright
preferiscono definirsi atei. Altri si definiscono agnostici.
Altri ancora umanisti o liberi pensatori. Ma tutti i bright condividono
una visione del mondo priva di elementi mistici”.
Naturalmente, anche se la nuova parola è un sostantivo,
un giorno potrà tornare a essere anche un aggettivo, come è successo
alla parola gay. E quando questo accadrà, chissà,
forse potremo avere un presidente bright.
UN’OPINIONE
Jacopo
Zanchini, giornalista della rivista Internazionale
I
due articoli rivelano una realtà preoccupante: negli
ambienti accademici statunitensi – cioè la punta
di diamante della ricerca mondiale – dichiarare di non
credere in Dio è un problema. Può provocare danni
all’immagine o alla carriera, e solo pochi coraggiosi
decidono di farlo. I sostenitori di un maggior peso della religione
nella sfera pubblica sono all’offensiva in tutto il mondo. È apparso
chiaramente anche nel dibattito italiano sul crocifisso nelle
scuole pubbliche: il principio fondamentale della laicità dello
stato e della scuola è stato dimenticato. Nel coro quasi
unanime dei difensori della croce si sono arruolati in molti,
anche a sinistra. È un dibattito che, anche se innescato
da una provocazione, poteva essere serio. Come lo è il
dibattito in Francia e in Germania sul velo indossato dalle
insegnanti e dalle alunne. Staccare il crocifisso dal muro
sarebbe solo un primo, timido passo verso una società moderna
e multiculturale.
(Tratto
dalla rivista italiana Internazionale, n° 512, a partire
da estratti tradotti dal New York Times e da Le Temps, della
Svizzera)
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