RAGAZZA FACILE
Cristina
Civale
Ero salita sull’autobus e l’uomo stava già lì,
in piedi, come se mi aspettasse. Quella era la prima volta che
lo vedevo. Era una sera di primavera ma faceva freddo. Ero imbacuccata
fino al collo, portavo un paio di guanti neri e un cappello di
matelassé e ostentavo una certa sciattezza che si spandeva,
specialmente, dalle mie labbra mal dipinte con un rossetto rosso
acceso che faceva la mia bocca più grande, più violenta
e, soprattutto, la caricava di una dissolutezza che sfuggiva
ad ogni controllo sulle mie intenzioni. L’uomo mi guardò dritto
alle labbra e io, passandomi la lingua sui loro contorni, abbassai
gli occhi, arrossendo appena.
Dopo aver pagato il biglietto mi sedetti e passai attorno all’uomo che
sembrava avermi già dimenticato. Adesso stava guardando, con una concentrazione
che mi sembrò offensiva, alcuni appunti sulla sua agenda. L’uomo
stava in piedi benché ci fossero dei posti vuoti. Io mi spostai in uno
davanti, vicino al finestrino, a fianco ad una donna che sembrava una casalinga
che, a giudicare dai pacchetti, aveva approfittato delle offerte di fine stagione
delle Gallerie Pacifico. Dopo pochi isolati l’autobus diede una di quelle
frenate in cui i corpi perdono il controllo contro ogni volontà e scivolano
e la donna, non so se per lo spavento o perché era arrivata alla sua fermata,
scese, e fu così che l’uomo si sedette con decisione al mio fianco.
Lo osservai con la coda dell’occhio sinistro, vidi come ricominciava a
fissarmi lo sguardo sulla bocca e presentii che stava per dirmi qualcosa esattamente
nell’istante in cui udii che mi parlava. Lo guardai e m’impressionò la
sua bellezza. Aveva un volto fresco con angoli marcati, occhi chiari e profondi,
una pelle di apparenza soave, era magro e glabro, con un corpo allenato, lunghi
capelli femminili ed emanava un profumo costoso. In generale, negli autobus non
viaggia gente così ed è vero che un esemplare come me raramente
transita in un mezzo pubblico. Così, quando vidi l’uomo seduto al
mio fianco, pensai che stesse cercando un’alleata per attraversare il corso
di quelle acque sconosciute ma scevre da pericoli. Senza conoscerlo, immaginai
che l’uomo sapesse già che appartenevamo a mondi simili. Quando
mi parlò, mi disse che voleva farmi due domande e io gli feci animo perché si
arrischiasse, assentendo con i miei occhi scuri. Senza giri di parole, mi disse
che voleva solamente sapere due cose: il mio nome e il mio numero di telefono.
Scoppiai in un riso, breve e sommesso perché nessuno mi sentisse. Poi
gli dissi che non era proprio il caso. Gli chiesi per favore – ed ero completamente
sincera – che non si offendesse e cercai di non farlo sentire ridicolo.
Gli dissi che a volte queste cose capitano. Mi stavo riferendo, concretamente,
al mio rifiuto. Il suo era stato un buon tentativo ma io non stavo a quel punto,
o almeno così credevo.
Mi dedicai a guardare dal finestrino mentre la velocità dell’autobus
faceva sì che i miei occhi scorressero edifici semidistrutti e marciapiedi
pieni di immondizia. Dimenticai l’uomo e mi concentrai perdutamente nella
miseria. Tuttavia, nonostante lo spettacolo, qualcosa mi faceva rimanere conscia
della sua presenza e senza che accadesse nulla di particolare un sudore premonitore
iniziò a scorrermi sul corpo. Mentre ero distratta ad osservare un barbone
che rompeva una borsa di spazzatura da cui uscivano bucce d’arancia sull’angolo
tra Corso Alem e Via Tucuman, sulla banchina più vicina al fiume, l’uomo
si decise.
All’inizio non me ne resi conto, ma quando doppiammo la banchina, in direzione
di Via Azopardo, non ebbi più dubbi. La sua mano destra avanzava con decisione
tra le mie gambe. In realtà non fui per nulla sorpresa. Lo stavo aspettando
dall’inizio, da quando salii e il suo sguardo cadde sulle mie labbra. Io
aspettavo solo azione e, lo confesso, mi deluse la tenerezza delle sue domande.
Ma, tornando alle mie gambe, istintivamente gli spostai la mano, benché senza
eccessiva convinzione e lui la prese, sono sicura, come un invito. Di modo che
nel suo secondo tentativo la mano si posò più fermamente sulla
mia coscia ed anche più in alto. Quando fu parecchio in alto, il suo dito
medio fece cedere parte della cucitura dei pantaloni, poi giunse ai bottoni e
finalmente iniziò a sbottonarli. Avevo dei Levis 505 color bianco sporco,
portati sulla pelle. Quando il suo dito fu ben dentro di me lo strinsi tra le
cosce, respirai più profondamente che potei, sentii sollievo però poi
mi alzai. Lo presi per la mano, la mano del dito che era umido, e scendemmo.
Ci trovavamo vicino al porto e c’era ancora troppa luce. Camminammo, come
se lo avessimo sempre fatto, fino ad alcuni silos scuri e silenziosi. Lì ci
rincantucciammo. Lui mi toccava con la sua mano come se avesse un piano prefissato.
Io lo guardavo solamente e mi concentravo su ognuno dei suoi sfioramenti. Mi
limitavo ad indicargli il percorso. Non permisi che mi togliesse il rossetto
con le labbra e neppure che la sua lingua lambisse qualche parte del mio corpo.
Volevo solo la sua mano, la sua palma tesa e le sue grandi dita tentoni tra il
tessuto e la pelle. Così percorse il mio volto, la fronte, le ciglia,
il mento, le labbra. Poi scese sulle mie braccia e si diresse al seno. Si fermò sul
suo contorno e dovetti bloccarlo perché non mi mordesse un capezzolo.
In cambio gli permisi di torcerlo a suo piacimento con le dita. Giunse al ventre,
pose una delle sue dita, non so quale, nel mio ombelico e poi con quello stesso
dito s’infilò tra le mie cosce e fu dentro, più che poté.
Io lo accompagnai e seppi di che cosa erano fatti la mia umidità e il
mio tepore. In quel momento iniziai a pulsare con tanta forza che quasi mi fu
insopportabile. Lo presi per il polso e lo scansai con dolcezza e decisione.
Era giunto il mio turno e andai direttamente al punto. Volevo fare con la lingua
quel che lui mi aveva fatto con la mano. Con la bocca gli aprii la braghetta
e indagai. Rimasi sorpresa: lì mancava qualcosa o c’era qualcos’altro.
Un pube frondoso come il mio fu quello che scoprii e solo allora compresi il
suo sguardo ambiguo, i suoi capelli femminili, il suo profumo costoso. Mi alzai
e, unicamente a causa di questa scoperta, le offrii la mia bocca e lasciai che
mi strappasse il rossetto dalle labbra con un bacio tenue, ritardato e ampio
e mi preoccupai che il suo pube sfregasse con forza contro il mio. Con il mento
ancora umido, mi allontanai. Le dissi Tante grazie e uscii dalla zona dei silos.
Tornai a dipingermi le labbra a memoria e senza lo specchietto. Non mi seguì.
Probabilmente rimase tra i marinai.
(Il
racconto Ragazza facile è stato pubblicato
a Buenos Aires nel 1995, da Espasa Calpe, e in Spagna, nel
2000, dalla
Casa editrice Aconcagua. È anche stato uno dei finalisti
del premio La sonrisa vertical della Casa editrice Tusquets nel
1995. È inedito in Italia. Traduzione dallo Spagnolo
di Alessandro Fiandra)
(Cristina
Civale è argentina e vive a Genova, dove organizza worshop
di sceneggiatura e di adattamento
cinematografico Il suo sito Internet è: www.trovarelamerica.org).
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