PREGHIERA PER CERNOBYL’
Svetlana
Aleksievic’
Monologo su un paesaggio lunare
“A un tratto ho cominciato ad avere dei dubbi. Cos’era
meglio: ricordare o dimenticare? Ho sottoposto la questione ai
miei conoscenti. Alcuni hanno dimenticato, altri non vogliono
ricordare, perché tanto non possiamo nemmeno andarcene
da qui...
Quel che mi ricordo... Nei giorni immediatamente successivi all’incidente
delle biblioteche sono spariti i libri sulla radiazione, su Hiroshima
e Nagazaki e perfino sui röntgen. Circolava la voce che
fosse un ordine delle autorità, per evitare il panico.
Comunque sia, sono mancate completamente sia le indicazioni mediche
che l’informazione in generale. Chi poteva, acquistava
delle pastiglie di ioduro di potassio (nelle farmacie della nostra
città non erano in vendita, e per procurarsene ci volevano
le conoscenze giuste). Capitava che qualcuno inghiottisse un
pugno di queste pastiglie accompagnandole con un bicchiere di
alcol puro. Accorreva l’ambulanza e lo rianimavano in extremis.
Poi si è individuato un segno indicatore, e tutti hanno
cominciato a prestarci attenzione: finché in città o
nel villaggio c’erano passeri e colombi, ci poteva vivere
anche l’uomo. Ricordo la perplessità di un conducente
di taxi: non riusciva a capire perché gli uccelli, come
ciechi, si buttassero contro il suo parabrezza, ammazzandosi.
Come impazziti... Era qualcosa che somigliava a un suicidio...
Un’altra cosa che ricordo è il mio viaggio di ritorno
da quei luoghi. Un vero paesaggio lunare... da una parte e dall’altra
della strada si stendevano fino all’orizzonte i campi coperti
di dolomite bianca. Lo strato superficiale contaminato del suolo
era stato asportato e interrato altrove, e al suo posto era stato
sparso un uniforme strato di sabbia di dolomite. Non sembrava
più la nostra terra... Questa visione mi ha tormentato
per molto tempo e ho perfino tentato di trarne un racconto. Vi
immaginavo ciò che sarebbe successo tra cent’anni:
un uomo, o quel che è diventato, stando a quattro zampe
avanza a grandi balzi slanciando all’indietro le lunghe
gambe posteriori con le ginocchia voltate, è notte ma
vede tutto distintamente col suo terzo occhio e il suo unico
orecchio sulla nuca sente perfino l’andirivieni di una
formica. Sono rimaste solo le formiche, tutti gli altri esseri
che popolavano la terra e il cielo sono morti...
Ho mandato il racconto a una rivista. Mi hanno risposto che la
mia non era un’opera letteraria, ma l’esposizione
di un incubo notturno. Naturalmente è anche questione
di scarso talento, ma secondo me c’è dell’altro.
E ho cominciato a chiedermi come mai Cernobyl’ interessi
così poco i nostri scrittori, i quali continuano a scrivere
sulla guerra, i lager, ma di questo tacciono. Pensate che sia
un caso? Se noi avessimo vinto Cernobyl’, se ne parlerebbe
e scriverebbe di più. O se l’avessimo almeno compreso.
E invece non sappiamo che senso trarre da tutto questo orrore.
Non ne siamo capaci. Perché non è commisurabile
né alla nostra esperienza di uomini né al nostro
tempo umano.
E allora, cos’è meglio: ricordare o dimenticare?”
Evgenij Aleksandrovic’ Brovkin, docente dell’Università statale
di Gomel
Monologo su tutta una vita registrata sulla porta di casa
“Voglio rendere testimonianza...
È
successo allora, dieci anni fa, e ogni giorno lo rinvio di nuovo. È sempre
con me.
Vivevamo nella città di Pripjat’. Proprio in quella.
Non sono uno scrittore. Non sarei in grado di descriverlo. La
mia ragione non arriva a comprenderlo. E neanche gli studi superiori
aiutano. Stai vivendo... Da uomo qualsiasi. Piccolo. Come tutti
gli altri, vai al lavoro e ritorni dal lavoro. Ricevi una retribuzione
media. Una volta l’anno vai in ferie. Un uomo normale!
E di punto in bianco, un giorno ti trasformi in un uomo di Cernobyl’.
In un fenomeno da baraccone! In qualcosa che incuriosisce tutti
e che nessuno sa cosa sia. Tu vorresti essere come tutti, ma
non puoi. Non ti è più possibile. Ti guardano con
occhi diversi. Ti fanno delle domande: hai avuto paura laggiù?
Hai visto bruciare la centrale? Com’era? Cos’hai
visto? E, in generale, puoi avere dei figli? Tua moglie non t’ha
lasciato? All’inizio siamo diventati dei fenomeni ambulanti...
Tuttora la parola “cernobyliano” è come un
segnale acustico... Si voltano tutti a guardarti... Viene da
laggiù!
I primi giorni, era questa la sensazione... Di aver perduto non
soltanto la città, ma tutta la nostra vita...
Abbiamo lasciato la nostra casa il terzo giorno... Il reattore
stava bruciando... Mi sono rimaste impresse le parole di un nostro
conoscente: “C’è odore di reattore”.
Un odore indescrivibile. Ma ne hanno già parlato anche
i giornali. Hanno voluto fare di Cernobyl’ una fabbrica
degli orrori, anche se poi quello che è venuto fuori è un
cartone animato. Io racconterò solo quel che ho vissuto
di persona... La mia verità...
È
andata in questo modo... L’avevano annunciato per radio:
proibito portare via i gatti! Subito la gatta nella valigia!
Ma non ci voleva stare, si divincolava. Ha graffiato tutti! Proibito
portare con sé le proprie cose. E io non mi sarei portato
via niente comunque. Tranne una cosa, una cosa sola! Dovevo togliere
la porta d’ingresso dell’appartamento e portarla
via, non potevo in nessun caso lasciarla lì... E avrei
sbarrato l’ingresso con assi e chiodi...
La nostra porta... Il nostro talismano! La reliquia della famiglia.
Quand’era morto, mio padre era stato messo disteso su questa
porta. Non so in base a quale usanza, e se sia diffusa e dove,
ma da noi, mi ha detto mia madre, si usava mettere il defunto
sulla porta di casa. Avrebbe aspettato lì l’arrivo
della bara. Ho vegliato tutta la notte mio padre disteso su quel
catafalco... E la casa è rimasta aperta... Tutta la notte.
Sulla porta ci sono delle tacche fin quasi al bordo superiore...
Di quanto crescevo... E c’è anche indicato: classe
prima, seconda. Settima. Inizio del servizio militare. E accanto,
la crescita di mio figlio... Di mia figlia... Su questa porta è registrata
tutta la nostra vita. Come potevo lasciarla?
Ho chiesto a un vicino che aveva la macchina: “Dammi una
mano!”. Mi ha fatto capire gesticolando che dovevo avere
qualche rotella fuori posto. Ma l’ho recuperata lo stesso...
Due anni dopo... La porta... Di notte... In motocicletta... Attraverso
la foresta... Il nostro appartamento era ormai stato depredato.
Ripulito. Avevo alle calcagna quelli della milizia: “Fermo
o spariamo! Fermo o spariamo!” Sicuramente mi avevano preso
per un saccheggiatore. Non ci avrebbero mai creduto che stavo
rubando la porta di casa mia...
...Ho fatto ricoverare in ospedale mia moglie e mia figlia. Avevano
delle macchie nere diffuse su tutto il corpo. Che apparivano
e scomparivano. Grandi come monete da cinque copechi... Indolori...
Hanno fatto tutti gli esami. Ho chiesto: “E i risultati?”. “Non
sono per lei.” “E per chi sono, allora?”.
A quel tempo, tutti non facevano altro che ripetere: moriremo
moriremo... E dicevano che per l’anno 2000 sarebbero scomparsi
tutti i bielorussi. Mia figlia aveva sei anni. La metto a letto
e lei mi sussurra all’orecchio: Papà. Voglio vivere,
sono ancora piccola"” E io che pensavo non potesse
capire...
Riesce a immaginarsele sette bambine piccole completamente calve,
tutte in una volta? Nella stanza erano in sette... No, ne ho
abbastanza! Ho finito! Quando racconto di questo ho come la sensazione, è il
cuore a suggerirmelo, di commettere un tradimento. Perché devo
descriverla come un’estranea... Le sue sofferenze... Mia
moglie rientra dall’ospedale... Non ce la fa più a
resistere: “sarebbe meglio se morisse, invece di soffrire
a quel modo! O che muoia io piuttosto, per non doverla più vedere!”.
No, basta! Ho finito! Non posso. No!
L’abbiamo posata sulla porta... Su quella porta dove a
suo tempo era stato disteso mio padre. Finché non hanno
portato la piccola bara... Era piccola, come la scatola di una
bambola, di quelle grandi.
Voglio rendere testimonianza che mia figlia è morta a
causa di Cernobyl’. E si pretenderebbe da noi che dimenticassimo...”
Nikolaj Fomic Kalugin, un padre
Monologo
su un mostricino che verrà comunque
amato
“Recentemente mia figlia se ne è venuta fuori con
queste parole: “Mamma, se metterò al mondo un piccolo
mostro gli vorrò bene lo stesso”. Ma si rende conto?
Sta finendo le medie e ha già di questi pensieri in testa.
Le sue amiche... Pensano tutte a questo... A una copia di nostri
conoscenti è nato un bambino... Un bambino talmente desiderato,
il primo figlio. Di una copia giovane e bella. Ma è nato
con una bocca che gli arriva fino alle orecchie, che però non
ci sono... Io non vado più a trovarli con la frequenza
di un tempo, ci vado anzi il meno possibile, è più forte
di me, invece mia figlia, appena può, ci fa un salto.
C’è qualcosa che la spinge da loro, quasi volesse
vedere com’è veramente, come si fa ad abituarsi
a una cosa del genere...
Ci hanno proposto di andar via, ma io e mio marito abbiamo riflettuto
e deciso di rimanere. temiamo l’ignoto. Qui siamo tutti “cernobyliani”.
Non ci facciamo paura l’un l’altro, se qualcuno ci
offre una mela o un cetriolo del suo orto o frutteto, lo prendiamo
e lo mangiamo, non lo nascondiamo timorosi in tasca o nella borsetta
per gettarlo via appena voltato l’angolo. Noi condividiamo
una stessa memoria... Uno stesso destino. Al contrario, in qualsiasi
altro posto si vada, siamo degli estranei. Dei lebbrosi. Tutti
hanno fatto l’abitudine a espressioni come “quelli
di Cernobyl’”, “i bambini di Cernobyl’”, “gli
evacuati di Cernobyl’”... Ma in realtà di
noi non sapete niente. Perché ci temete... Probabilmente,
se a suo tempo non ci avessero lasciati uscire di qui, se avessero
circondato la zona con dei cordoni di polizia invalicabili, molti
di voi sarebbero stati più tranquilli. (Si ferma.) Non
cerchi di dimostrarmi il contrario. Di convincermi che ho torto.
L’ho vissuto sulla mia pelle... Nei primi giorni... Ho
preso mia figlia e mi sono precipitata da mia sorella, a Minsk...
Mia sorella, dico mia sorella, non ci ha neanche lasciati entrare
in casa perché aveva un bambino piccolo che ancora allattava.
Si rende conto? E abbiamo dovuto trascorrere la notte alla stazione.
I folli propositi che non mi sono passati per la testa, allora!
Dove potevamo scappare? Forse era meglio farla finita, per non
dover più soffrire... Erano i primi giorni... Tutti quanti
ci immaginavamo delle malattie spaventose. Inconcepibili... E
io sono medico. Figuriamoci cosa potevano pensare gli altri!...
Guardo i nostri figli. Dovunque vadano, si sentono estranei anche
in mezzo ai propri coetanei... In un campo estivo di pionieri,
dove mia figlia un anno ha trascorso le vacanze, avevano paura
anche solo a toccarla: “Un riccio di Cernobyl’. Una
lucciola. Brilla al buio”. La sera la chiamavano in cortile
per vedere se era vero.
Si dice: la guerra... La generazione della guerra... Fanno dei
confronti... La generazione della guerra? Ma è stata fortunata!
Hanno avuto la vittoria. Hanno vinto! Questo ha dato loro una
potente energia vitale, o, per usare termini più attuali,
un fortissimo orientamento verso la sopravvivenza. Non avevano
paura di niente. Volevano vivere, studiare, mettere al mondo
dei figli. Noi invece? Noi abbiamo paura di tutto... Paura per
i nostri figli... Per i nipoti, che ancora non ci sono... Ancora
non ci sono e noi già temiamo per loro... La gente sorride
meno. Alle feste non si canta più come un tempo. Non solo
cambia il paesaggio, perché foreste e boschi tornano a
crescere dove c’erano i campi, ma anche il carattere nazionale.
la depressione regna incontrastata. E ci sentiamo condannati
senza scampo. Cernobyl è una metafora. Un simbolo. Ed è anche
la nostra vita quotidiana, il nostro modo di pensare.
Qualche volta mi viene quasi da credere che sarebbe meglio se
non scrivessero più di noi. la gente ci temerebbe meno.
Del resto, chi va a parlare di tumori in casa di un ammalato
di cancro? Allo stesso modo, non è il caso di parlare
della scadenza di una pena nella cela di un condannato all’ergastolo...”.
Nadezda Afanas’evna Burakova, abitante
della cittadina di Chojniki
(Brani
tratti da Preghiera per Cernobyl’, E/o editrice, Roma, 2002,
traduzione dal russo di Sergio Rapetti)
Svetlana
Aleksievic’, scrittrice
e giornalista bielorussa tradotta e premiata in tutto il mondo,
scrive romanzi-reportage basati su decine di interviste.
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