COMMENTO AL CANTO GENERALE, DI PABLO NERUDA

Ernesto Che Guevara

Quando il tempo avrà un po’ sfumato gli andamenti politici e contemporaneamente – ineluttabilmente – avrà assegnato al popolo la sua definitiva vittoria, questo libro di Neruda si porrà come il più vasto poema sinfonico d’America.
E’ poesia che rappresenta una pietra miliare e forse una vetta. In essa tutto, persino i pochi (e inferiori) versi personali del finale, traspirano grandezza. Il poeta cristallizza quel mezzo giro di volta che dette quando abbandonò il dialogo con se stesso e discese (o salì) a dialogare con noi, semplici mortali, che facciamo parte del popolo.
E’ un canto generale d’America che ripercorre tutto ciò che è nostro, dai giganti geografici fino alle povere bestioline del signor monopolio.
Il primo capitolo s’intitola La lampada della terra e fra l’altro vi risuona il suo saluto al gigantesco Rio delle Amazzoni:

Rio delle Amazzoni,
capitale delle sillabe dell’acqua,
padre patriarca,…

All’esatta coloritura unisce la giusta metafora, pone l’ambiente, mostra il suo impatto con esso, canta non come un fine dicitore, ma come uomo. E infatti il primo capitolo della sua descrizione che potremmo chiamare “precolombiana” si chiude con “Gli uomini”, i nostri avi remoti:

Come la coppa d’argilla era
la razza minerale, l’uomo
fatto di pietre e d’atmosfera,
lindo come le brocche, sonoro.

Poi il poeta trova la sintesi di quello che era la nostra America, il suo più grande simbolo e canta allora le “Alture di Machu-Picchu”. Il fatto è che Machu-Picchu è l’opera d’ingegneria aborigena che arriva più a noi; per la sua elegante semplicità, per la sua grigia tristezza, per il meraviglioso panorama circostante, per l’Urubamba che ulula in basso. La sintesi di Machu-Picchu è data da tre versi che sono tre definizioni di una categoria quasi goethiana:

Madre di pietra, spuma dei condor.
Alta scogliera dell’aurora umana.
Pala perduta nella prima rena.

Ma non si limita a definirla e storicizzarla, e in uno slancio di follia poetica vuota tutto il suo sacco di metafore abbaglianti e talora ermetiche sulla città simbolo, invocandone poi l’aiuto:

Datemi il silenzio, l’acqua, la speranza.
Datemi la lotta, il ferro, i vulcani.

Che cosa è successo? Tutti conoscono la sequenza della storia: all’orizzonte comparvero “I conquistatori”.

I macellai devastarono le isole.
Guanahaní fu la prima
In questa storia di martirii.

E così scorrono Cortés, Alvarado, Balboa, Ximénez de Quesada, Pizarro, Valdivia. Tutti sono squartati senza pietà dal suo canto detonante come una revolverata. L’unico per cui abbia parole affettuose è Ercilla, il cantore delle gesta araucane:

Uomo, Ercilla sonoro, sento il polso dell’acqua
del tuo primo risveglio, frenesia d’uccelli
e stormire di fronde.
Lascia, lascia la tua orma
d’aquila bionda, spacca
la guancia contro il mais selvaggio,
tutto sarà nella terra divorato.

Tuttavia la conquista continuerà e darà del suo all’America, e pertanto dice Neruda, “Nonostante l’ira”:

Ma attraverso fuoco e ferratura
come da una sorgente illuminata
dal sangue oscuro,
con il metallo fuso nel tormento
si riversò una luce sulla terra:
numero, nome, linea e struttura.

Così, al sanguinario
Titano di pietra,
falcone inferocito,
non venne solo sangue bensì grano.

La luce venne malgrado i pugnali.

Ma la notte della Spagna finisce e la notte del monopolio è minacciata. Tutti i grandi d’America hanno il loro posto nel canto, dagli antichi libertadores fino ai nuovi, i Preti, quelli che combattono con il popolo gomito a gomito.
Ora la detonazione svanisce e un gran canto di gioia e di speranza irrora il lettore. Ma risuonano particolarmente le gesta della sua terra. Lautaro e i suoi guerrieri e Caupolicán l’ostinato.
“ Lautaro contro il centauro (1554)” dà l’idea del certame.

La fatica e la morte conducevano
la truppa di Valdivia tra le fronde.

Avanzavan le lance di Lautaro.
Tra morti e foglie andava
Come in un tunnel Pedro de Valdivia.

Fra le tenebre arrivava Lautaro.
Pensò all’Extremadura petrosa,
al dorato olio, alla cucina,
al gelsomino lasciato oltremare.

Conobbe l’ululato di Lautaro.

Vide venire la luce, l’aurora,
forse la vita, il mare.

 

Era Lautaro.

Non poteva mancare nel suo canto la riunione misteriosa di Guayaquil e fra le righe dell’incontro politico palpita lo spirito dei grandi generali.
Ma non fu tutto fortuna eroica e limpida dei libertadores, si ebbero anche tradimenti, carnefici, carcerieri, assassini. “La rena tradita” si apre con “I carnefici”:

Sauria, squamosa America avvinghiata
allo sviluppo vegetale, all’albero
radicato nel fango:
hai allattato figli terribili
con velenoso latte di serpente,
torride culle covarono e coprirono con fango giallastro
una progenie incrudelita.
Il gatto e la scorpiona fornicarono
nella patria selvatica.

E compaiono sfilando i Rosas, i Francias, i Garcìa Morenos, e via dicendo, e non solo nomi, istituzioni, caste, gruppi. Ai suoi colleghi, “I poeti celesti”, chiede:

Che avete fatto voi gidisti,
intellettualisti, rilkisti,
misterizzanti, falsi stregoni
esistenziali, papaveri
surrealisti accesi
su una tomba, europeizzati
cadaveri della moda,
pallidi lombrichi del cacio
capitalista…

E, quando arriva alle compagnie nordamericane, la sua possente voce trasuda pietà per le vittime e schifo e odio per le piovre, per tutti quelli che fanno a pezzi e inghiottono la nostra America:

Quando la tromba suonò, tutto
fu pronto sulla terra
e Geova spartì il mondo
fra Coca-Cola Inc., Anaconda,
Ford Motors e altre entità:
la Compañía Frutera Inc.
si riservò il miglior succo,
la costa centrale della mia terra,
la dolce cintura d’America.

A González Videla, il presidente che lo manda in esilio, grida:

Triste clown, miserabile
mistura di scimmia e topo, la cui coda
pettinano a Wall Street con pomata d’oro.

Ma non tutto è morto e dalla speranza sgorga il suo grido:

America, non invoco il tuo nome invano.

Quindi si concentra sulla sua patria, con il “Canto generale del Cile” dove, dopo averla descritta e cantata, lancia la sua “Ode d’inverno al fiume Mapocho”.

Oh, sì, neve imprecisa,
oh, sì, tremante in pieno fior di neve,
palpebra boreale, piccolo raggio gelido,
chi, chi ti chiamò verso la cinerea valle,
chi, chi ti trascinò dal picco dell’aquila
fin dove le tue acque pure toccano
i terribili stracci della mia patria?

E allora viene la terra, “La terra si chiama Juan” e, fra il canto incerto cui ogni operaio si abbandona, si ode quello di Margarita Naranjo che strazia con la sua nuda emotività:

Sono morta. Sono di María Elena.

E poi si volge furioso contro i principali colpevoli, contro i monopoli e dedica a un soldato yankee la poesia “Si desti il taglialegna”:

Ad ovest del Colorado River
C’è un luogo che amo.

E lo avverte:

Sarà implacabile il mondo per voi.
Non solo saranno le isole spopolate, ma anche l’aria
che già conosce le parole a lei care

...

E dal laboratorio coperto di rampicanti
uscirà anche l’atomo liberato
verso le vostre superbe città.

Gonzàlez Videla scatenò la persecuzione contro di lui e lo convertì ne “Il fuggiasco”, dove però il suo canto subisce una caduta come se l’improvvisazione avesse da questo momento la meglio perdendosi quindi l’altura della sua metafora e il delicato ritmo della sua idea. Segue quindi “I fiori di Punitaqui” e poi saluta i suoi colleghi di lingua spagnola.
Nel “Corale di Capodanno per la mia patria nelle tenebre” polemizza con il governo del Cile e dopo ricorda “Il grande Oceano” con il suo Rapa Nui:

Tepido-Te-Henùa, ombelico del mar grande,
laboratorio del mare, spento diadema.

E il libro termina con il suo “Io sono”, dove fa il suo testamento dopo essersi riveduto e corretto:

Lascio ai sindacati
del rame, del carbone e del salnitro
la mia casa sul mare d’Isla Negra.
Voglio che lì riposino i vessati figli
della mia patria, saccheggiata da asce e traditori,
dissipata nel suo sacro sangue,
consumata in vulcanici brandelli.

...

Lascio i miei vecchi libri, raccolti negli angoli del mondo, venerati
nella loro tipografia maestosa,
ai nuovi poeti d’America,
a quanti un giorno
fileranno nel roco telaio interrotto
le significanze di domani.

E infine grida:

Termino qui.
Questa parola nascerà di nuovo,
chissà in un altro tempo senza pene,
senza le impure fibre che attaccarono
nere vegetazioni al canto mio,
e di nuovo su in alto starà ardendo
il mio cuore infuocato e stellato.
Così termina il libro, qui vi lascio
questo mio Canto Generale scritto
nella persecuzione cantando, sotto
le ali clandestine della patria.
Oggi, 5 febbraio di quest’anno
1949, in Cile, a “Godomar
de Chena”, alcuni mesi prima
dei miei quarantacinque anni d’età.

E con questo finale alla François Villon (1) si conclude il libro più alto dell’America poetica. L’epica del nostro tempo di toccare con le sue ali curiose tutto il bene e il male della grande patria.
Non vi è spazio che per la lotta; come in La araucana del suo geniale predecessore, tutto combattimento continuo e la sua carezza è la carezza goffa del soldato, ma non per questo meno amorosa e tuttavia carica di tutte le forze della terra.

Note:

  1. Poeta francese (1431-1463). Considerato il poeta medievale che più si avvicina alla sensibilità moderna. (N.d.t.)


(Tratto dal libro Poesie e scritti sulla letteratura e l’arte di Ernesto Che Guevara – Grandi Tascabili economici Newton editore, Roma, Maggio 1999, a cura di Elena Clementelli e Walter Mauro)




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