UNA STELLA DI CAMPAGNA
Claire
Varin
Clarice Lispector nasce lungo il cammino per l’America,
il 10 Dicembre 1920.
I suoi genitori, ebrei ucranei, fuggendo dalla persecuzione russa,
fanno una sosta in un piccolo villaggio innevato dell’Ucraina
per darla alla luce, per poi rimettersi in viaggio sulla via
dell’esilio. Portata dalla madre, arriva, all’età di
due mesi, nel nord-est del Brasile, dove trascorrerà tutta
l’infanzia. Dopo alcuni studi in diritto, Clarice sposa
un diplomatico brasiliano e passa 15 anni della sua vita in Europa
e negli Stati Uniti. Stanca di vivere lontano dal Brasile e dalla
sua famiglia stabilitasi a Rio de Janeiro, ci ritorna alla fine
degli anni ’50, con i suoi due figli nati all’estero.
Invia una lettera alle sue due sorelle dalla Svizzera, uno dei
luoghi per lei troppo aridi per trovarcisi senza di loro al suo
fianco. E proprio scrivendo a loro costata: “È curioso
come a pensarci bene, non esista un vero luogo dove vivere. Tutto è terra
degli altri, dove gli altri sono felici.”
Clarice
L. si definisce come “una donna semplice e un po’ sofisticata” un “misto
tra una campagnola e una stella del cielo”. Racconta
di essersi informata un giorno sul significato di un certo
segno nella cavità del suo palmo. “Fatalità” le
fu risposto enigmaticamente. E scrivere le apparirà proprio
come fatale. Fatalità si, ma anche passione per la scrittura
e non per la “letteratura” che, a suo avviso, è a
mala pena il modo in cui gli altri chiamano ciò che
si fa quando si scrive.
Trentatré anni di una storia d’amore con le parole
scorrono a partire dal 1944, data di pubblicazione di Vicino
al cuore selvaggio, fino al 1977, anno della sua morte e della
pubblicazione di L’ora della stella. La sua opera comprende
9 romanzi, circa 70 racconti e più di 300 saggi. Pubblica
Vicino al cuore selvaggio all’età di 22 anni, poco
dopo la scomparsa del padre. Questo primo romanzo costituisce
il punto di partenza della sua ricerca per trasporre la materia
vivente in linguaggio. Convinta, nello scrivere, di utilizzare
innanzitutto la sua intuizione, prima della sua intelligenza,
mette d’accordo la priorità con la sensazione: “Tutto
il suo corpo e la sua anima perdono i loro limiti, si mischiano,
si fondono in un solo caos, soave ed amorfo, lento e dai movimenti
vaghi come la materia semplicemente vivente. Era il rinnovamento
perfetto, la creazione.”
Scrive per fatalità, indovina la realtà: “C’è un
mistero in un bicchiere d’acqua: guardando l’acqua
tranquilla, si direbbe che io ci legga la sostanza della vita.
Come un veggente davanti alla sfera di cristallo scintillante”.
Desidera rifrangere il senso occulto della vita, poiché “tutto
ciò che potrebbe esistere, esiste già. Niente di
più può essere creato, se non rivelato”.
Desidera mettere a nudo l’inverso della cosa: che cos’è una
finestra, se non l’aria, circoscritta tra squadre?” Anziché descrivere
un oggetto, lei lo anima ed espone uno dei fili che lo legano
ad un’altra sostanza: “Le cose fanno il seguente
rumore: chpt! chpt! chpt! Una cosa è un oggetto vivente
storpio (…) ”.
Unica
scrittrice brasiliana invitata al Primo Congresso mondiale
di stregoneria, a Bogotà nel 1975, non cerca tuttavia
l’incantesimo del sovrannaturale. Dal suo punto di vista,
i fenomeni naturali rilevano di per sé della magia. Così respirare,
pensare, rappresentano degli atti magici continui. Lei capta
l’irradiazione delle cose:
“La cosa propriamente detta è immateriale.
Ciò che
chiamiamo ‘cosa’ è la condensazione solida e visibiledi una
parte della sua aura. L’aura della cosa è diversa dall’aura
della persona. L’aura di quest’ultima fluisce e rifluisce, si ritira
e si manifesta, si addolcisce
o si adira, esplode ed implode.
Mentre l’aura della cosa è sempre uguale
a se stessa (…).
L’aura è la linfa della cosa.” |
Clarice
amerebbe senz’altro stregarci. Ci invita ad una ricettività quasi
telepatica e stabilisce una reciprocità tra il lettore
e l’autore.
Ci stimola in Agua
viva:
“Ho
l’impressione di essere sul punto di nascere e di
non arrivarci. Sono un cuore che batte nel mondo.
Tu che mi leggi, aiutami a nascere.
(…)
Ora le tenebre si disperdono.
Sono nata.
Meraviglioso scandalo: nasco” |
Per
leggerla, dovremmo dunque legarci a lei?
Come percepire allora il suo quinto romanzo, La passione
secondo G.H.? L’autrice dichiara di aver perduto il controllo del
suo personaggio femminile, nel momento in cui sente che G.H.
doveva finire per assaggiare le interiora di uno scarafaggio.
Se “il mondo è estremamente reciproco”, noi
adempiamo in compagnia di G.H. tutto questo: ci dirigiamo prima
verso un corridoio oscuro, poi entriamo nella camera disabitata
dove il nostro cuore imbianca, “come imbiancano i capelli”,
poiché i nostri occhi vedono il grosso scarafaggio che
si muove nel guardaroba; tocchiamo quel niente madido e brulicante: è che
abbiamo schiacciato l’insetto contro la porta dell’armadio,
e ora tocchiamo il proibito, soccombiamo, penetriamo nella vita
pre-umana bruciante, bruciamo di dire ciò che non si dice,
assaggiamo la materia bianca dello scarafaggio, vogliamo infine
raccontarlo, compito a cui si assoggetta G.H. La sua esperienza
di spersonalizzazione ci conduce nelle viscere dell’inconscio,
alla radice del bene e del male, del buono e del cattivo, là dove
il divino costeggia il diabolico: “Il mio piede si è posato
sull’aria, ed io sono entrata in paradiso o in inferno:
nel nucleo”. Si accede a quel nucleo tramite il paradosso.
L’autrice di G.H. ci previene in epitaffio:
“Questo é un
libro come gli altri.
Ma sarei contenta se fosse letto solo da persone dall’animo
già formato. Quelle che sanno che l’approccio a qualunque cosa,
si
fa gradualmente e dolorosamente, attraversando perfino
l’opposto di ciò che andiamo approdando. Queste persone –
e solo loro – comprenderanno chiaramente che questo libro
non toglie niente a nessuno.
A me, per esempio, il personaggio di G.H. ha dato una gioia
difficile, ma che si chiama gioia.” |
La
gioia di aver accostato il cuore selvaggio: la materia vivente
neutra alla quale G.H. e lo scarafaggio partecipano, il vuoto-pieno
dove coesistono in pace i contrari - gioia/dolore, amore/odio,
santità/peccato:
“È con
una gioia così profonda. Un tale alleluia. Grido
alleluia,
un alleluia che si fonde al più nero grido umano di dolore della
separazione, ma è un grido di felicità diabolica. Perché nessuno
mi
trattiene più. Ho ancora la capacità di ragionare – ho già studiato
la matematica, che è la follia del ragionamento – ma ora voglio
il
plasma – voglio alimentarmi direttamente dalla placenta”. |
Clarice
Lispector esalta il sapere pre-razionale: “Nella confusione,
era inconsciamente la propria verità, cosa che le dava
forse più potere-di-vita che del conoscerla. Questa
verità, anche se rivelata, Joana non avrebbe potuto
utilizzarla perché non formava il suo stelo, ma la radice
che ancorava il suo corpo a tutto ciò che non era più lei,
imponderabile, impalpabile”.
Qui
cerca di fotografare lo sbocciare di un fiore: “la bella
di notte profuma di pieno di luna. Fantasmagorica e un po’ spaventosa, è appropriata
per chi ama il pericolo. Sfiorisce solo di notte, con il suo
odore stordente. La bella di notte è silenzio. Di lati
di strade deserte e tenebrose e di giardini di case dalle luci
spente e dalle finestre chiuse. È molto pericolosa:
un fischio nel buio, cosa che nessuno sopporta”.
“Anche registrare l’evidente fa parte
del lavoro.”
Oppressi da secoli di razionalismo, non possiamo “semplicemente
aprire una porta e guardare?”
Clarice Lispector percepisce ciò che, intrappolati nell’abitudine
del ragionamento, trascuriamo di vedere e di prevedere. In L’uovo
e la gallina, il suo racconto più misterioso, incomprensibile
ai suoi stessi occhi, chiede di non essere letta con il solo
intelletto:
“Al
mattino sul tavolo della cucina vedo l’uovo.
Guardo l’uovo con un’occhiata.
Immediatamente percepisco che non sto guardando
un uovo. Guardare un uovo non si coniuga mai al presente:
appena vedo un uovo, ciò diventa aver visto un uovo tre
millenni fa.
L’uovo è una cosa sospesa (…)
L’uovo è l’esternare.
Avere un guscio é consacrarsi (…)
L’uovo è l’anima della gallina (…)
L’uovo non ha mai lottato. È un dono.
L’uovo è invisibile a occhio nudo (…)
L’uovo è una cosa dalla quale dobbiamo guardarci.
Ecco perché la gallina è il travestimento dell’uovo.” |
Sperimenta
la visione diretta dell’oggetto e tenta l’impossibile:
vedere l’uovo prima che la ragione se ne impadronisca.
“Il
mio metodo visuale era totalmente imparziale: lavoravo
direttamente con le prove della mia visione, e senza permettere
che dei condizionamenti esterni alla visione predeterminassero le mie
conclusioni; ero interamente preparata a sorprendermi io stessa” |
Dalla
necessità di una miopia sacra come tappa preliminare
sulla via della conoscenza: una pietra diventa il mondo; un
uccellino nel palmo della mano, l’universo. E un’arte
germoglia: quella di saper considerare l’arbusto prima
della montagna e di imparare a demolire un canone sociale di
bellezza, lezione che G.H. assimila mangiando le viscere di
un insetto.
In Gli
incidenti di Sofia, Clarice L. si avvicina al professore
che sorride al suo allievo:
“Ciò che
vedevo era anonimo come un ventre aperto
per un’operazione all’intestino. Ho visto formarsi una
cosa sul suo viso – il malessere già pietrificato montava
con sforzo fino alla sua pelle, ho visto la smorfia leggermente
esitante spezzare una crosta – ma questa cosa (…) assomigliava
ancora così poco ad un sorriso, come se un fegato o un piede
cercassero di sorridere, (…). Ciò che ho visto, l’ho visto
così da vicino che non so ciò che ho visto. Come se il mio occhio
curioso si fosse incollato al buco della serratura e ci fosse un
altro occhio che mi guardava dall’altra parte.” |
Dal
buco della serratura spunta “La più piccola donna
del mondo”, la cui tribù è stata scoperta
da un esploratore francese. Misura 45 centimetri.
“La
fotografia di Piccolo Fiore fu pubblicata sul supplemento
a colori del giornale della Domenica, riprodotta a grandezza
naturale. Era avvolta in una stoffa, avendo il ventre in stato
avanzato. Il naso piatto, la faccia nera, gli occhi incavati, i
piedi palmati. Assomigliava ad un cane.” |
Piccolo
Fiore ride “tra le spesse foglie del Congo centrale”.
Questo ridere, l’esploratore, disorientato, non riesce
a classificarlo e “lei continua a gioire del proprio
ridere dolce, lei che non si faceva divorare. Non essere divorato è il
sentimento più perfetto. Non essere divorato è l’obiettivo
segreto di tutta una vita.” Allora l’esploratore,
dimostrando una delicatezza di sentimenti di cui sua moglie
non lo avrebbe mai creduto capace, le dà timidamente
un nome: “Tu sei Piccolo Fiore”. E, proprio in
quel momento, “Piccolo Fiore si toccò là dove
una persona non si tocca. L’esploratore – come
se ricevesse il più grosso premio di castità al
quale un uomo – sempre se idealista, osi aspirare -,
l’esploratore, così avveduto, allontanò lo
sguardo.”
Un’energia gioiosa percorre i racconti di Clarice, quelli
di “Legami di famiglia”, per esempio:
“-
Catarina! Disse la vecchia, con la bocca aperta e gli occhi
sgomenti, e alla prima scossa del treno, la figlia la vide
portare le mani al suo cappello: questo le era caduto sul
naso, e del suo volto non si vedeva che la sua nuova dentiera.
Il treno si scuoteva, e Catarina agitava la mano.” |
I racconti le fanno da ricreazione, dopo una dura giornata alla
scuola del romanzo. Movendosi con agilità sul terreno
di gioco e di tentativo del testo corto, intercetta degli
esseri in movimento: una nonna di ottantanove anni indignata
dell’ossequiosità dei suoi nipoti: “Li
guardò con il suo sdegno di vecchia. Assomigliavano
a dei ratti incollati, la sua famiglia. Non resistendo più,
voltò la testa e con una forza insospettata sputò per
terra.”
Clarice sorprende il sentimento. Il narratore
di L’ora
della stella, Rodrigo S.M., “afferra nell’aria in
un batter d’occhio il sentimento di perdizione sul viso
di una giovane ragazza del Nord-est”. Ci racconta la storia
di una immigrante nella grande città di Rio, “la
storia di un’innocenza calpestata, di una miseria anonima”,
di una ragazza “così povera che mangiava solo hot-dogs”.
Cosciente della necessità di non poetizzare le “deboli
avventure di una ragazza in una città costruita per esserle
contro”, C.L. precisa per bocca del narratore:
“Sicuramente,
come tutti gli scrittori, ho la tentazione di
utilizzare dei termini succulenti: conosco degli aggettivi
splendidi, dei sostantivi carnosi, e dei verbi così affilati che
attraversano, acuti, l’aria in vista dell’azione, poiché la
parola è azione, non siete d’accordo? Ma non voglio
imbellire la parola, perché se tocco il pane della ragazza,
quel pane si trasformerà in oro (…).
Devo allora parlare semplicemente per captare la sua esistenza
vaga e delicata” |
Ecco
Olimpico, di Jesus Moreira Chaves, l’amante della Nordestina:
“Nel
Nord-est, aveva risparmiato di stipendio in stipendio per
farsi togliere
un canino perfetto e sostituirlo con un dente d’oro scintillante.
Quel dente gli assicurava una posizione nella vita (…).
Ma non sapeva di essere un artista: durante le ore di svago
scolpiva figure di santi, (…) Ci metteva tutti i dettagli e,
senza voler mancare di rispetto, scolpiva tutto del Bambino Gesù.
Credeva che ciò che è, lo è veramente, e che Cristo era
stato,
oltre a un santo, un uomo come lui, anche senza denti d’oro” |
Clarice
Lispector, una delle pioniere del giornalismo femminile in
Brasile collabora durante la vita alla stampa scritta ed in
particolare, per sei anni e mezzo, collabora con un settimanale
di un prestigioso quotidiano di Rio, il Jornal do Brasil. Si
dichiara ciononostante incapace di trattare la “cosa
sociale” seguendo la moda letteraria, anche se, madre
del mondo, si prende cura – con i suoi occhi – delle
migliaia di favelados che vivono nelle baracche accanto alle
colline di Rio. Tuttavia redige su un fatto sociale, uno dei
suoi testi preferiti, che commenta l’assassinio di un
bandito da parte della polizia, omicidio che, all’epoca,
farà parlare i titoli di tutti i giornali brasiliani.
Minerinho morì di “13 pallottole quando ne bastava
una sola”.
“Anche
se qualcosa mi fa sentire il primo e il secondo colpo
con un certo sollievo di sicurezza, il terzo mi allerta, il quarto
mi inquieta, il quinto e il sesto mi coprono di vergogna, il settimo
e l’ottavo li sento con il cuore che palpita d’orrore, al nono e
decimo la mia bocca trema, all’undicesimo invoco stupefatta il
nome di Dio, al dodicesimo chiamo mio fratello. Il tredicesimo
colpo mi assassina, perché io sono ormai l’altro. Voglio essere
l’altro. Questa giustizia che veglia sul mio sonno, la ripudio, umiliata
di averne bisogno” |
La
qualità dello sguardo che posa sul delinquente Minerinho
attesta la sua comprensione della condizione umana:
“Come
non amarlo, se visse fino al tredicesimo colpo mentre io
dormivo? La sua violenza spaventata; la sua violenza innocente – non
nelle sue conseguenze, ma innocente in sé come quella
di
un bambino di cui il padre non si è preso cura, (…) è una
cosa che è in noi tanto intensa e limpida quanto un grammo di pericoloso
radium, questa
cosa è un granello di vita che, calpestata, si trasforma in minaccia – in
amore calpestato. (…)
Mineirinho ha vissuto la rabbia per me, quando io ero tranquilla. È stato
fucilato nella sua forza disorientata, mentre un Dio fabbricato
all’ultimo momento benedice in fretta e furia la mia cattiveria
organizzata e la mia giustizia abbrutita”. |
Minerinho è lo
specchio dei nostri crimini, grandi o piccoli: assassinio di
scarafaggi o morte di personaggi, trucidati da colei che prestò loro
la vita:
“Muoio
di pena per i miei personaggi. Se potessi, ah se potessi,
come faciliterei loro la vita, e darei loro più amore. Ma non posso
fare niente, se non dar loro speranza, e delle leggere spinte in
avanti. È con pietà e rassegnazione che li lascio soffrire (…)
Sono i miei figli, e ciò nonostante abbasso la testa di fronte
ai loro dolori (…) Ma non posso farci niente: tutto ciò che
vive soffre”. |
Essendo
la vita “un colpo di pugno nello stomaco”, Clarice
non sfugge all’esperienza della sofferenza: “Io,
io, se ho buona memoria, morirò. È che tu non
sai quanto pesa una persona senza forza. Dammi la tua mano.
Ho bisogno di stringerla, affinché niente faccia tanto
male.”
Clarice si spenge il 9 Dicembre 1977, per un cancro
generalizzato. Qualche mese prima, ci esortava a non piangere
i defunti: “Perché non
ci si lamenta dei morti: loro sanno ciò che fanno.”
Fintanto che abita questo spazio-tempo eterno
dove senza dubbio, anche lei sa ciò che fa, i suoi testi,
proseguono la loro esistenza e camminano, vivendo come un albero
o come una persona:
“Tutto
finisce, ma ciò che ti scrivo continua. Ciò che è buono.
Molto
buono. Il meglio non è ancora stato scritto. Il meglio è fra le
righe (…)
Ciò che ti scrivo continua e io ne sono stregata.” |
(Traduzione
dal francese di Simona Cappellini)
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