CASA DI CURA “BEVERLY”

Denis Johnson

A volte, durante la pausa-pranzo, andavo in un grande vivaio dall’altra parte della strada, un edificio di vetro pieno di piante e terriccio umido, che sapeva di sesso freddo e morto. A quell’ora c’era sempre la stessa donna, che annaffiava le aiuole scure. Una volta le parlai, le parlai di me e, stupidamente, dei miei problemi. Le chiesi il suo numero. Disse che non aveva telefono, ed ebbi la sensazione che tenesse nascosta la mano sinistra, forse perché aveva una fede nuziale. Mi disse di ripassare ogni tanto, ma io me ne andai sapendo che non ci sarei più tornato. Sembrava troppo cresciuta per me.

E a volte una tempesta di sabbia si alzava nel deserto, tanto alta da sembrare un’altra città: l’avvento di una nuova, spaventosa era, che avrebbe confuso i nostri sogni.

Dentro di me, mi sentivo un cane che mugolava. Cercavo lavoro perché la gente sembrava convinta che lo dovessi cercare, e quando lo trovai credetti di essere felice perché quella stessa gente – avvocati, membri dei Tossicodipendenti Anonimi, ecc. – sembrava convinta che un lavoro rendesse felici.
Forse, quando uno sente il nome “Beverly”, pensa a Beverly Hills, gente che cammina per strada con la testa fottuta dai soldi.
Non ricordo di aver mai conosciuto qualcuno di nome Beverly. Ma è un bel nome, suona bene, e io lavoravo in un ospedale a struttura circolare, tutto turchino, per anziani che tenevano duro.

Non tutti quelli che vivevano alla Beverly Home erano vecchi e deboli. Alcuni erano giovani ma paralizzati. Alcuni non erano neanche di mezza età ma già rimbambiti. Altri stavano bene, ma talmente deformi che non potevano girare per strada. Guardandoli, pensavi che Dio fosse un maniaco insensibile. Un uomo aveva una malattia congenita alle ossa che lo aveva trasformato in un mostro di due metri e mezzo. Si chiamava Robert. Ogni giorno si metteva un completo elegante, o una combinazione blazer-pantaloni. Le sue mani erano lunghe quaranta centimetri. La testa era una noce di cocco di venti chili con sopra una faccia. Io e voi non sapremo nulla di queste malattie finché non le prenderemo, e in quel caso anche noi verremo celati alla vista del prossimo.
Era un lavoro part-time. Curavo il bollettino della casa di cura, poche pagine ciclostilate che uscivano due volte al mese. Anche toccare le persone faceva parte del mio lavoro. I pazienti non avevano niente da fare se non barcollare o spingersi sulla sedia a rotelle attraverso quelle grandi sale. Il traffico procedeva in un solo senso, così stabiliva il regolamento. Io avanzavo controcorrente, secondo le istruzioni ricevute, e salutavo tutti, stringevo mani, davo pacche sulle spalle, perché avevano bisogno di essere toccati, cosa che non succedeva molto spesso. Dicevo sempre “salve” a un uomo coi capelli grigi: aveva poco più di quarant’anni, era energico e muscoloso, ma non ci stava più con la testa. Mi prendeva per la camicia e diceva cose del tipo: “C’è un prezzo da pagare per i sogni”. Io mettevo le mie dite sulle sue. Vicino a noi c’era una donna che rischiava sempre di cadere dalla sedia a rotelle, e strillava: “Padreterno? Padreterno?” I piedi puntavano a sinistra, la testa a destra, e le braccia contorte stavano intorno al corpo come nastri appesi all’Albero di maggio. Le mettevo le mani tra i capelli. Intanto, intorno a noi camminavano persone con occhi che mi ricordavano le nuvole e corpi che facevano pensare a cuscini. E c’erano altri che pareva gli avessero aspirato via la carne con strani macchinari nascosti negli armadi, robe per l’igiene. La maggior parte dei pazienti era ben lontana dall’autosufficienza. Bisognava lavarli, e lo facevano dei professionisti, usando canne con beccucci particolari.
C’era un tizio che credo avesse la sclerosi multipla. Uno spasmo perenne lo costringeva a chinarsi di lato sulla sedia a rotelle fin quasi a toccarsi le dita nodose con la punta del naso. Quella cosa lo aveva colpito all’improvviso. Non riceveva mai visite. Sua moglie stava divorziando. Aveva solo trentatré anni, me l’aveva detto lui, almeno credo, era difficile capire cosa diceva di se stesso perché non riusciva più a parlare: stringeva le labbra intorno alla lingua sporgente, e rantolava.
Non c’era finzione: era completamente, e palesemente, devastato. Nel frattempo, noialtri cerchiamo di imbrogliarci a vicenda, come sempre.
Tenevo sempre d’occhio un uomo di nome Frank, che aveva tutte e due le gambe amputate al ginocchio, e mi salutava con composta tristezza accennando alle gambe vuote del suo pigiama. Stava tutto il giorno a letto a guardare la televisione. Non erano le sue condizioni fisiche a tenerlo là: era la tristezza.
La casa di cura stava in una via chiusa della parte orientale di Phoenix, con vista sul deserto che circondava la città. Parlo della primavera dell’anno scorso, la stagione in cui spuntano fiorellini dalle spine di certi cactus. Tutti i giorni, per prendere l’autobus e tornare a casa, attraversavo un terreno sgombro, e a volte ne trovavo uno, un fiorellino arancione che sembrava atterrato da Andromeda, circondato da un mondo dipinto in millecento sfumature di marrone, sotto un cielo il cui azzurro sembrava perdersi nella propria distanza. Mi sarei sentito altrettanto confuso, altrettanto incantato, se avessi incontrato un elfo per strada seduto su una sediolina. Le giornate erano già afose, ma nulla avrebbe potuto soffocare quei fiori.
Un giorno, dopo aver attraversato quel terreno, stavo camminando lungo una fila di case quando sentii una donna cantare sotto la doccia. Pensai alle sirene: la musica indistinta dell’acqua che scorre, la melodia struggente che veniva dalla stanza umida. Scendeva la sera, gli edifici parevano sospesi a mezz’aria ed emanavano calore. Era l’ora di punta, ma il cielo del deserto ha un modo particolare di assorbire i rumori del traffico, facendoli sembrare sordi e lontani. La voce della donna era il suono più chiaro che mi giungesse alle orecchie.
Cantava con l’inconsapevolezza e l’oblio di un naufrago. Probabilmente non pensava che qualcuno potesse sentirla. Sembrava un inno religioso irlandese.
Pensai che ero abbastanza alto per vederla dalla finestra, e intorno non c’era nessuno che potesse cogliermi sul fatto.
Quelle casette si adattavano al paesaggio desertico: ghiaia e cactus al posto del giardino. Dovevo camminare piano per non fare rumore, anche se nessuno avrebbe potuto sentirmi, ma ero io che non volevo sentire me stesso.
Sotto il davanzale, a nascondermi c’era un rampicante di campanelle avvolto intorno a un traliccio. Il traffico continuava a scorrere come sempre, nessuno s’accorse di me. Una di quelle finestre da bagno, alte e strette. Mi misi in punta di piedi e m’aggrappai al davanzale per poter sollevare il mento. Era già uscita dalla doccia, una donna morbida e giovane come la sua voce, ma non più ragazza. Era piuttosto tarchiata. Aveva capelli chiari che le ricadevano dritti quasi fino al fondoschiena. Mi dava le spalle. Lo specchio era appannato, e anche la finestra, ma solo un po’... Diversamente, avrebbe potuto vedere i miei occhi riflessi nello specchio. Mi sentivo senza peso, stare aggrappato al davanzale non mi costava nessuna fatica. Sapevo che se fossi caduto avrei potuto riarrampicarmi, e forse in quel momento lei si sarebbe girata e avrebbe urlato.
Si asciugò in fretta, senza alcuna sensualità, senza indugiare su nessuna parte del corpo. Che delusione. Ma anche quella castità era eccitante. Pensai di sfondare il vetro e violentarla, ma mi sarei vergognato se mi avessero visto. Forse, con addosso una maschera, avrei anche potuto farlo.
Il mio autobus, il 24, tirò dritto senza nemmeno rallentare. Vidi i passeggeri solo per un attimo, ma da come si tenevano appesi e si lasciavano sballottare qua e là capii che erano tutti molto stanchi. Molti di loro li conoscevo, seppure vagamente. Eravamo sempre gli stessi, all’andata e al ritorno, casa-lavoro, lavoro-casa, ma non quella sera.
Non era ancora buio. Passavano meno automobili. Quasi tutti i pendolari erano ormai nei loro salotti a guardare la tv, ma non il marito della donna: arrivò mentre stavo appeso alla finestra del suo bagno e spiavo sua moglie. Ebbi un presentimento, una specie di scossa all’attaccatura del collo, così mi nascosi dietro un cactus prima che la sua macchina entrasse nel vialetto e lui potesse vedermi. La macchina fece il giro dell’edificio, poi sentii spegnersi il motore, e l’eco del suo ultimo scoppio nella sera.
La moglie aveva finito di lavarsi, e si chiuse la porta alle spalle. In quel bagno non sembrava esserci rimasto niente, solo la porta chiusa.
Ora che era uscita, l’avevo persa. Non potevo guardare dalle altre finestre, perché erano sull’altro lato e davano sulla strada.
Me ne andai e aspettai l’ultimo autobus. Arrivò dopo tre quarti d’ora, quando era già buio pesto. Presi posto nella strana luce artificiale col mio taccuino in grembo, e lavorai sul bollettino della casa di cura: “Abbiamo anche una nuova ora di lavori artistici”, scrissi con grafia irregolare, “tutti i lunedì alle 14. L’ultimo nostro progetto è stato fare animali con pane. Grace Wright ha fatto un grazioso Snoopy e Clarence Lovell ha fatto una nave da guerra. Altri hanno fatto dei laghetti con tartarughe, rane, insetti ecc.”

La prima donna con cui uscii in quel periodo la incontrai a una “festa sobria”, evento per alcolizzati e tossici in via di recupero, gente come me. Non che lei avesse quel problema, ma ce l’aveva suo marito, che se n’era andato molto tempo prima. Ora lei faceva volontariato qua e là, anche se aveva un lavoro a tempo pieno e una bambina piccola. Iniziammo a uscire insieme regolarmente, tutti i sabati sera, e andavamo a letto insieme, nel suo appartamento, anche se non rimanevo mai per la colazione.
Era una donna bassa, sul metro e cinquanta, anzi, anche meno. Aveva braccia sproporzionate rispetto al tronco, e anche le gambe erano eccezionalmente corte. Tecnicamente era una nana, ma non te ne accorgevi subito. Aveva grandi occhi mediterranei, pieni di fumi, mistero e anche sfortuna. Sapeva come vestirsi in modo che non si notasse il nanismo. Quando facevamo l’amore eravamo alti uguali, perché il tronco era normale, solo braccia e gambe erano troppo corte. Facevamo l’amore sul pavimento nella stanza della tv, dopo che aveva messo a letto la bambina. Tra i nostri lavori e la routine con la bambina, avevamo tempi fissi: quando si faceva sesso la tv trasmetteva sempre gli stessi programmi. Erano spettacoli idioti da sabato sera, ma mi spaventava l’idea di scopare con lei senza avere nelle orecchie i discorsi e le risatine di quel falso universo, perché in fondo non volevo conoscerla bene, né volevo che fossero i nostri occhi a riempire i silenzi.

Di solito, prima di quello, eravamo andati a cena in qualche ristorante messicano – quelli costosi, con pareti in mattone cotto e dipinti su velluto che avrebbero sfigurato in casa di chiunque . e ci eravamo raccontati gli eventi della settimana. Le dicevo tutto sul mio lavoro alla Beverly. Stavo cambiando attitudine, cercavo di lavorare bene, non rubavo, m’impegnavo a fare ogni cosa fino alla fine. Lei invece lavorava alla biglietteria di una compagnia aerea, credo stesse a uno sportello. Aveva un animo comprensivo, non avevo problemi a farmi vedere come effettivamente ero, con una sola eccezione.

Era ormai primavera inoltrata, le giornate si allungavano, e io perdevo spesso l’autobus perché mi fermavo a spiare la donna della doccia.
Come potevo fare una cosa del genere? Come mai uno si spinge tanto in basso? Capisco la vostra domanda, ma rispondo: State scherzando? Quello era niente. Ero stato molto più in basso di così, e mi aspettavo di fare peggio.
Fermarmi là, vederla farsi la doccia, uscire nuda, asciugarsi e uscire dal bagno, poi ascoltare il rumore dell’auto del marito che rientrava... Tutta la sequenza divenne parte della mia routine quotidiana. Facevano la stessa cosa ogni giorno. Non so dire se nei week-end fosse lo stesso, perché non lavoravo. In ogni caso, non credo che nei week-end gli autobus avessero gli stessi orari.
A volte la vedevo, a volte no. Non faceva mai niente di potenzialmente imbarazzante, e non scoprii nessuno dei suoi segreti, anche se avrei voluto, soprattutto perché lei non mi conosceva. Non sapeva nemmeno che esistevo.
A volte il marito rincasava prima che me ne andassi, ma non si accorgeva di me. Una volta andai da loro più tardi del solito, e passai davanti alla casa anziché sul retro, proprio mentre il marito scendeva dalla macchina. Niente di speciale, solo un uomo che tornava per cena come chiunque altro. Ora che avevo dato un’occhiata, ero sicuro che non mi andava a genio. Era calvo in cima alla testa, e aveva un abito sformato, stazzonato, ridicolo. Aveva la barba, ma non i baffi.
Pensai che non andasse d’accordo con la moglie. Lui era di mezz’età, forse anche più vecchio. Lei era giovane. Anch’io ero giovane. Immaginai di fuggire con lei. Giganti crudeli, sirene, perfidi incantesimi, una voglia di tutte quelle cose sembrava emergere dalla primavera nel deserto, con le sue trappole e i suoi profumi.
Lo guardai entrare in casa, poi aspettai alla fermata dell’autobus fino a sera inoltrata. Non m’importava dell’autobus: aspettavo il buio, aspettavo di poter stare di fronte alla casa senza essere visto dalla strada, per spiarli nel loro salotto.
Attraverso la finestra, li vidi cenare. Lei aveva una gonna lunga e qualcosa di bianco sulla testa, una specie di zucchetto. Prima di mangiare, chinarono la testa e pregarono per tre o quattro minuti.
L’avevo notato, che il marito aveva un aspetto tetro e antiquato, col suo abito scuro e le sue scarpe grandi, la barba alla Lincoln e la testa lucida. Vedendo la moglie conciata in modo simile, capii che erano Amish, o forse Mennoniti. Dei Mennoniti sapevo che avevano missioni lontane, facevano volontariati in strani mondi dove si parlavano lingue sconosciute ai più. Ma non mi sarei mai aspettato di trovare una coppia di Mennoniti a Phoenix, in un appartamento, perché di solito quelle sette vivono in aree rurali. Lì vicino c’era un collegio di studi biblici: forse erano venuti a fare un corso.
Ero eccitato. Volevo vederli scopare. Se fossi tornato a notte fonda, avrei potuto aggrapparmi alla finestra della camera da letto. L’idea mi diede le vertigini. Provavo schifo per me stesso ed ero pieno di gioia. Vedere la donna per pochi attimi dopo che aveva fatto la doccia non era più abbastanza. Di nuovo, mi misi ad aspettare l’autobus, ma era troppo tardi, l’ultimo era già passato.

Ogni giovedì, alla Beverly, radunavamo i pazienti più vecchi nella caffetteria, davanti a latte in bicchieri di carta e biscotti su piatti di carta. Facevano un gioco chiamato “Mi ricordo”, una cosa per tenerli occupati coi dettagli delle loro vite, prima che la senilità li catturasse per sempre. Ognuno di loro parlava di ciò che era successo quella mattina, di ciò che era successo la settimana scorsa, di ciò che era successo pochi minuti prima.
Qualche volta c’era una festicciola con una torta. Si festeggiava l’ennesimo anno nella vita di qualcuno. Avevo una lista di date, e tenevo tutti informati:
“ Il 10, Isaac Christopherson ha raggiunto la veneranda età di novantasette anni! Tanti auguri! Il mese prossimo ci saranno dieci compleanni. Leggete i nomi dei festeggiati sul Beverly Home News di aprile!”
Le stanze erano lungo un corridoio circolare, tu andavi avanti finché non ritrovavi la camera che avevi controllato per prima. A volte sembrava di essere in una spirale sempre più stretta, tutto convergeva verso il nucleo, la stanza da cui eri partito, poteva essere una stanza qualunque, quella dell’uomo che teneva i propri moncherini sotto la trapunta e li coccolava come dei cuccioli, o quella della donna che urlava: “Padreterno?”, o dell’uomo con la pelle blu, o del marito e moglie che non ricordavano più il nome l’uno dell’altra.
Non passavo molto tempo là dentro, dieci-dodici ore alla settimana, più o meno. C’erano altre cose da fare. Cercavo un vero lavoro, andavo alle sedute di un gruppo terapeutico per eroinomani, mi presentavo regolarmente all’Alcoholic Reception Center, facevo passeggiate nella primavera del deserto. Ma il corridoio circolare della Beverly mi faceva pensare al posto in cui, tra una vita e l’altra su questo pianeta, torniamo a mescolarci con le altre anime in attesa di nascere.

I giovedì sera andavo alla riunione degli Alcolisti Anonimi, nel seminterrato della chiesa episcopale. Ci sedevamo attorno ai tavoli pieghevoli e avevamo tutta l’aria di essere intrappolati in una palude: scacciavamo insetti che non c’erano, ci contorcevamo e dimenavamo sulle sedie, ci grattavamo, ci pizzicavamo le braccia e il collo... “Me ne andavo in giro di notte”, disse un tale di nome Chris (eravamo più o meno amici, ci eravamo disintossicati insieme), “tutto solo, messo malissimo. Vi siete mai ritrovati a camminare in quel modo? Passate davanti alle case con le tende tirate, e vi sembra di trascinare un carro pieno di peccati, e pensate: dietro quelle tende, la gente vive una vita normale e felice”. Era solo retorica, cose che diceva sempre quand’era il suo turno di parlare.
Quella volta mi alzai e uscii, rimasi per un po’ di fronte alla chiesa, fumando sigarette a bassa percentuale di catrami (facevano schifo), le viscere che sussultavano e dicevano cose incomprensibili, finché la riunione non finì e potei chiedere un passaggio.

Quanto ai coniugi Mennoniti, ormai i nostri tempi si incastravano alla perfezione. Passavo molto tempo davanti alla loro casa, dopo il tramonto, il buio che portava con sé il fresco. Qualunque finestra andava bene: l’importante era vederli in casa, insieme.
Lei portava sempre una gonna lunga, scarpe da ginnastica o comunque senza tacchi, calze bianche. Teneva i capelli a crocchia sotto lo zucchetto. Quando non erano bagnati, erano molto biondi.
Mi piaceva vederli seduti in salotto, quasi sempre in silenzio, a leggere la Bibbia e ringraziare Dio prima di cenare, mi piaceva quasi quanto vedere lei nuda sotto la doccia.
Se mi andava di restare fino a tarda notte, potevo spiarli in camera da letto senza essere visto dalla strada. Per diverse volte rimasi là fuori finché non s’addormentarono, ma non facevano mai l’amore. Si sdraiavano e non si toccavano nemmeno, per quanto ne sapevo. Mi feci l’idea che in quella comunità religiosa le coppie seguissero una specie di calendario: quante volte potevano fare l’amore? Una volta al mese? O una volta all’anno? O solo allo scopo di fare figli? Iniziai a chiedermi se non lo facessero di mattina, e che forse avrei dovuto venire di mattina. Ma ci sarebbe stata troppa luce. Ero ansioso di vederli fare l’amore, perché in quei giorni dormivano ancora con la finestra aperta e le tendine appena scostate, ma presto avrebbe fatto troppo caldo, avrebbero chiuso la finestra e acceso l’aria condizionata.
Dopo un mese, finalmente una notte la sentii gemere. Erano usciti dal salotto pochi minuti prima. Forse non avevano nemmeno fatto in tempo a spogliarsi. Prima di alzarsi, avevano messo da parte i libri e conversato tranquillamente, lui sdraiato sul divano e lei seduta su una poltrona, proprio di fronte. In lui non c’era niente dell’amante, non m’era sembrato agitato, forse un po’ nervoso: teneva una mano sul bordo del tavolino e lo faceva dondolare.
Ma non stavano parlando: era come se lei cantasse, le stesse cose che cantava quando pensava che nessuno la sentisse. Mi appostai fuori della camera da letto: avevano chiuso la finestra e le tendine, non sentivo cosa dicevano, ma sentivo i cigolii delle molle, ne ero sicuro, e sentivo i gemiti. Di lì a poco anche lui si mise a urlare, come un predicatore dal pulpito. Io origliavo nelle tenebre, e tremavo dalla bocca dello stomaco alla punta delle dita. Cinque centimetri di fessura tra le tendine, non avevo altro, era come se non potessi avere altro nella vita. Vedevo un angolo del letto, e movimenti di ombre nello spiraglio di luce che arrivava dal salotto. Mi sentii male – quella notte non faceva tanto caldo, altre famiglie avevano le finestre aperte, sentivo voci, musica, l’audio dei televisori, rumore di auto e acqua che sprizzava dagli annaffiatori automatici... Ma dei Mennoniti, non sentivo quasi niente. Mi sentii abbandonato, scacciato dal gregge. Stavo per rompere il vetro a sassate. ma i gemiti erano già finiti. Provai sull’altro lato della finestra, dove le tendine erano più chiuse, ma l’angolazione era migliore. Da quel punto vidi le ombre muoversi in controluce. Non erano nemmeno arrivati al letto, lo stavano facendo in piedi, e non si stringevano con passione: stavano lottando. Si accese la luce della camera, poi una mano scostò la tendina. Il volto della donna, proprio di fronte a me.
Pensai di scappare, ma mi si era chiusa la bocca dello stomaco e non riuscivo a muovermi. Poi mi accorsi che non importava: la sua faccia era a meno di mezzo metro da me, ma fuori era buio e lei vedeva solo il proprio riflesso. Era da sola nella stanza, ed era ancora tutta vestita. Il cuore mi batteva forte, come quando ti capita di passare di fianco a una macchina parcheggiata, con una chitarra o una giacca di pelle scamosciata sul sedile anteriore, e tu pensi: potrebbe rubarla chiunque. Lei era controluce e non vedevo molto bene, ma mi sembrava sconvolta. Mi sembrò di sentirla piangere. Ero tanto vicino da toccarle una lacrima. Ero sicuro che, nell’oscurità, non si sarebbe accorta di me, a meno che non mi muovessi, quindi rimase immobile mentre lei si portava una mano alla testa e si toglieva lo zucchetto. Scrutai quel volto finché non fui certo che stesse soffrendo: si mordeva il labbro inferiore, guardava nel vuoto e lasciava che le lacrime le scendessero sulle guance.
Suo marito tornò dopo un minuto. Fece qualche passo nella stanza e si fermò come qualcuno (un pugile, o un calciatore) che cerca di camminare nonostante un infortunio. Avevano litigato, e lui era mortificato: lo capii da come se ne stava là in piedi, con la mascella bloccata su una parola e le scuse strette in mano. Ma sua moglie non si girava.
Pose fine al litigio chinandosi di fronte a lei e lavandole i piedi.
Uscì di nuovo dalla stanza, e dopo un po’ tornò con una catinella di plastica gialla, di quelle per lavare i piatti. La portava con cautela, era ovvio che era piena d’acqua. Aveva un asciugamano ripiegato su una spalla. Posò la catinella sul pavimento, si chinò su un ginocchio solo e abbassò la testa come se le stesse facendo la dichiarazione. Per un po’ lei non si mosse, forse per un intero minuto, che a me sembrò più lungo, là fuori , in un ‘oscura solitudine, con la terrificante sensazione di una vita non ancora vissuta, e i televisori e gli annaffiatori che producevano i rumori di migliaia di vite mai vissute, e le macchine che passavano con suoni di passaggi e movimenti, intoccabili, imprendibili. Poi lei si girò verso di lui, fece scivolare i piedi fuori dalle scarpe da tennis e si piegò per togliersi le calze bianche. Mise nell’acqua la punta del piede destro, poi tutto il piede, che scomparve dentro la catinella. Senza mai guardarla, lui si tolse l’asciugamano dalla spalla e cominciò a lavare.

Il quel periodo non uscivo più con la bellezza mediterranea. Stavo con un’altra donna, che era di statura normale ma era sciancata.
Da piccola aveva avuto un’encefalite, che l’aveva tagliata a metà per il lungo, come un ictus. Il braccio sinistro era quasi inutile. Riusciva a camminare, ma a ogni passo la gamba sinistra descriveva strani semicerchi. Quando era eccitata, soprattutto quando faceva l’amore, il braccio paralizzato cominciava a tremare e si alzava, fluttuava verso l’alto in un miracoloso saluto. Allora cominciava a imprecare come uno scaricatore, diceva parolacce a mezza bocca, la metà dove non aveva la paresi.
Rimanevo nel suo monolocale una o due volte alla settimana, fino al mattino. Mi svegliavo quasi sempre prima di lei. Quando capitava, mi mettevo a lavorare sul bollettino della Beverly mentre fuori, nel nitore del deserto, la gente sguazzava nella piccola piscina del condominio. Stavo seduto al tavolo da pranzo con carta e penna, controllavo i miei appunti e scrivevo: “Annuncio Speciale! Il 25 aprile, alle 18,30, la compagnia teatrale della Southern Baptist Church di Tollson metterà in scena episodi della Bibbia, in esclusiva per i residenti della Beverly. Sarà istruttivo: non perdetelo!”
Lei rimaneva sdraiata sul letto, cercando di rimanere sveglia, ancora aggrappata a quell’altro mondo. Dopo un po’ si alzava e saltellava per l’appartamento, ancora mezza avvolta nel lenzuolo, con la gamba che le orbitava intorno. In quei primi minuti la sua paralisi era terribile, indescrivibile e molto erotica.
Prendevamo il caffè, caffè istantaneo con latte scremato, e lei mi parlava dei suoi ex ragazzi. Si era fatta più storie di chiunque conoscessi, ma quasi tutti erano morti giovani.
Mi piacevano gli attimi trascorsi insieme in quella cucina. Piacevano anche a lei. Solitamente, eravamo nudi. Mentre parlava, i suoi occhi brillavano. Dopo, facevamo l’amore.
Il divano era a due passi dalla cucina. Faceva quei due passi e si sdraiava. Intorno a noi danzavano spettri, raggi del sole e ricordi, ricordi di bei momenti, tutti ci guardavano. Uno dei suoi fidanzati era stato investito da un treno: la macchina s’era fermata sui binari e lui pensava di poterla rimettere in moto prima che la motrice lo investisse, ma si sbagliava. Un altro era un medico degli alberi o qualcosa del genere, era caduto sulle montagne dell’Arizona, attraverso un migliaio di rami di conifera e s’era spaccato la testa. Due erano morti nei marines: uno in Vietnam e l’altro, un ragazzo più giovane, in un inspiegabile incidente stradale dopo l’addestramento reclute. Poi c’erano due neri: uno morto d’overdose e un altro accoltellato in prigione con un utensile della falegnameria. Quasi tutte quelle persone, quand’erano morte, l’avevano già lasciata per proseguire sui loro sentieri solitari. Gente come noi, ma più sfortunata. Ero pieno di compassione per loro mentre stavamo distesi in quella cameretta assolata, la loro morte mi metteva tristezza, mi ubriacava di tristezza, non ne avevo mai abbastanza.

Durante le mie ore di lavoro alla Beverly, gli impiegati a tempo pieno cambiavano turno, e molti di loro si raggruppavano in cucina, dove si timbrava il cartellino. Ci andavo anch’io e corteggiavo le infermiere più belle. Stavo ancora imparando a vivere sobrio, ed ero spesso confuso, soprattutto perché prendevo l’Antabuse, che mi faceva un effetto insolito. A volte mi sentivo voci bofonchiare in testa, e per quasi tutto il tempo il mondo sembrava incenerirsi ai bordi. Ma la mia salute migliorava di giorno in giorno, e anche il mio aspetto, e anche il mio morale, e quello era un periodo felice.
Tutti quei tipi strani o deformi, e io che miglioravo in mezzo a loro. Non m’era mai passato per la testa, non mi ero mai immaginato che potesse esserci un posto per gente come noi.


(Tratto dalla raccolta Jesus’ Son, Einaudi, Torino, 2000, traduzione di Jack Delaney)


Dennis Johnson, prima di Jesus’ Son, ha pubblicato i romanzi Fiskadoro, Ressuscitation of a Hanged Man, Angels (tradotto in Italia da Feltrinelli) e due libri di poesia, The Incognito Lounge e The Veil. Vive nel nord del Idaho.



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