DAL VERO
Pier Paolo Pasolini
E quella fronte c'ha 'l pel così nero
; e quell'altro ch'è biondo
suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutt'i suoi seguaci,
che l'anima col corpo morto fanno.
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: "Lano, si non furo a corte
le gambe tue alle giostre del Toppo!"
Luogo è in Inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferigno
di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti
come che suoni la sconcia novella.
I' m'accostai con tutta la persona
Lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi
Dalla sembianza lor ch'era non bona.
e vidivi dentro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Più non si vanti Libia con sua rena;
che se chelidri iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenze né sì ree
mostrò già mai con tutta l'Etiopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Al fine delle sua parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche
Con sei occhi piangea, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava
mentre che la speranza ha fior del verde.
Collage da Dante
La gran facciata del penitenziario si staccò e cominciò
lentamente a spostarsi indietro. Gialla, nuda, giganteggiava,
retrocedendo, tra i muraglioni, gialli, nudi anch'essi, in fondo
a cui cominciò ad emergere l'altra ala, come un enorme
scatolone. Man mano che quei due edifici, bucherellati da centinaia
di finestre restavano indietro, si isolavano sempre più
contro il cielo lattiginoso, e contro l'agro lì intorno
spelacchiato: senza un albero per quanto potesse spaziare lo sguardo.
A destra comparve e restò subito indietro, ruotando, la
garitta vuota e scrostata come una latrina: col gesto di due carabinieri
sbragati sulla polvere, il fucile tra le gambe, e sopra sulla
breve ascesa, anch'essa ruotante, un quadro ronzante di vita popolare,
con ragazzi, stracci, cani: che sparirono tra le case da arabi,
a un piano e di calce.
Il Penitenziario continuò a rimpicciolirsi, giallognolo,
e dopo che furono passati radendo gli argini impolverati, comparve
di faccia, sulla grande pressione dell'Aniene, un vasto digradare
di prati formicolanti come cimiteri, di fiori, un cavallo marrone
col lunghissimo collo teso su quei fiori, e, in fondo, spalmata
su tutto l'orizzonte, quant'era lungo, Roma.
Su quella visione di Roma, o piuttosto dei quartieri tiburtini,
da Monte Sacro, Pietralata, giù giù fino a Tor de'
Schiavi, il Predestino, Cento Celle, con migliaia di case come
scatole di scarpe, e baracche, e torracce, l'autobus si inchiodò.
"A fattorì," disse Claudio il liberante, "che
ce 'o fai er bijetto?"
"Come, no," fece il fattorino.
"Vedemo un po' qqua a quanto ce'o metti?"
"Famo venti lire, va'."
"Che te va de scherzà? E quanno 'e rimedio io, venti
lire"
"Aòh, ame me 'o venghi addì?"
"A me nun me va de pagà!".
"Fa' un po' come te pare, a morè, dopo so' affari
tua, dopo."
"E paga, daje a Clà," fece allora Sergio il compare
del liberante.
"E famme contrattà un pochetto, no?", fece Claudio.
"Mbè, famo na tredicina de lire, a fattorì?"
"Ammappete, fijo bello, te 'a passi male, si nun me sbajio!"
pagaiò il fattorino.
Sergio si stufò: "Auffa, già me so stufato,
ssa, a Cla'. Caccia 'ste quaranta lire, 'namo."
"Ahio, quant'è cattivo questo, disse il fattorino.
"Che, le hai lassate a casa 'e pistole,a pischè?"
"Stamo aggravati, fattorì," confessò Claudio.
"Questo è du'anni che nun lavora, e io sorto adesso
de bottega!".
Dato ch'era appena sortito da bottega, Claudio era tutto felice,
e si stava godendo la prime dolcezze della vita in libertà,
tanto che avrebbe preso di petto alla malandrina pure un sasso,
per mettersi a chiacchierare, se non avesse incontrato un fattorino
dell'ATAC o qualche altro dritto. Cacciò magnanimo dalla
saccoccia le quaranta lire, prese i biglietti,e si spinse con
l'aria d'un bocchissiere un po' suonato tra i sedili, seguito
pigramente da Sergio, che si guardava stanco intorno con la sua
faccia di maomettano.
"Sbragàmise qqua, a Sé," fece Claudio.
"Sbragàmise qqua," fece Sergio.
Dal fondo dell'autobus il fattorino si intromise: "Tutta
festa oggi, eh?"
"Come, no," ammise Claudio.
"Quale festa, quale festa, ma si nun pagano manco li ciechi!"
disse Sergio con l'occhio perso.
"E lèvate, a Sè," ribattè il compare,
"che tu dichi così perché nun ce sei stato
llà dentro! Ma mmejio n'anno ssenza na lira e magnà
da li frati, stacce, che un ciorno ssolo llà dentro
".
"E' regolare," concluse il filosofo laggiù, col
berrettino paragulo sugli occhi, contando gli spiccioli.
Tutt'a un botto Claudio e Sergio zomparono in piedi, e gettandosi
sui vetri della cabina del conducente, cominciarono a picchiarvi
con le nocche. Il conducente che con la matita sull'orecchio stava
consultando alteramente il listino degli orari, e facendo a mente
i suoi calcoli, voltò di sguincio la faccia gialla e nera,
e fissò con freddezza quei due sciamannati. Ma essi eran
troppo di buon umore per capire che tra la gente libera ci fosse
qualcuno che non gliene importasse un cavolo della libertà
e anzi c'avesse i nervi. Senza badare all'espressione scura del
conducente, gli fecero allegramente cenno di partire, di mettere
in moto l'autobus, di accendere il motore.
Il conducente, dietro i vetri come un'immagine sacra sotto la
campana, li riguardò ancora un poco: poi alzò di
scatto l'avambraccio fino a portare la mano con le dita serrate
all'altezza della bocca e del naso, e agitandola qui con un gesto
secco e insolente d'interrogazione.
Neanche al gran gesto napoletano della dritteria nazionale, i
due pivelli s'arresero.
Claudio gridò: "Dàje, a conduce', fai finta
che metti in moto er motore".
"E dàje, che te possino ammaitte!" insistette
Sergio.
E il fattorino, dal fondo dell'auto: "See, quello ve manna
ormi tutt'è ddue!"
Che succedeva? Tre ragazze, vestite dei più accesi colori
che si possano stampare negli abiti in vendita, bell'e fatti,
alle bancherelle di Piazza Vittorio, stavano correndo su dalla
strada del Penitenziario, tutte affannate per paura di perdere
l'autobus, con le facce rosse come cocomeri.
Visto che il conducente non gli dava retta, i due misero testa,
spalle e braccia fuori dal finestrino, guardando tutto quel ben
di Dio che veniva avanti ballonzolando sotto il sole dolce come
l'olio.
"Forza, amorette," si accorò Claudio, "daje
che mo l'auto parte!"
E Sergio: "Ammappele, quanto corono, daje che famo la bella!"
Il fattorino, invece si mise a cantare:
Io stongo carcerato emamma more
Vojo morì pur io prima 'e 'sta sera,
oi carceriere mio, oi carceriere
"A fattorì," gridò Claudio, "che
te va de sfotte?..."
"Io stongo carcerato
" ricominciò il fattorino.
"E ariocace!"
Le
tre ragazze salirono, scottanti e sospirose dentro l'autobus,
tutte felici d'averlo preso. Si guardavano e ridevano: poi un
po' alla volta gli passò l'affanno e il prurito del riso,
e andarono a mettersi a sedere sui sedili sgangherati, facendosi
aria con le mani.
Claudio e Sergio andarono a mettersi seduti appresso a loro,e
cominciarono a darsi ai madrigali; e non si sarebbe potuto dargli
torto, se, con in gran poeta di Roma, si sarebbe potuto dir delle
pischelle:
Uh, bene mio, che brodo de pollanche.
Je metterebbe addosso un par de branche
Da nun faje restà manco la pelle.
Ma
l'autobua fece davvero la bella, si scrollò tutt'a un botto,
ebbe un rumore di ferrivecchi molto in contrasto con l'aria ufficiale
del suo conducente: e si lasciò, radendo le grandi praterie
con frane di papaveri e margherite, giù per la strada di
Casale dei Pazzi.
Volarono a destra e a sinistra i pezzi di agro pinguentemente
nutriti dall'Aniene, scuri e caldi, ronzanti al sole; volarono
le casette costruite a metà e già abitate, volarono
le villette e i vecchi casali
"A Sé," fece Claudio, "dimme un po', come
se comporta la Intesse?"
"Che, me lo domandi, a Cla'," rispose Sergio. "Er
zolito, che si la vedo me viè voja da dàje na pignata
in faccia."
"Mo con chi se la fa?"
"Cor palletta, llà."
"Chi Palletta?"
"Er Fijo de sora Anita, llà, quella che c'ha er banco
a Piazza Vittorio
Quer roscietto, un po' fusto, che te posso ddì
"
"Ah, ho ccapito
Bè, con quer brutto lì
s'è messa?"
"Che vòi fa? Ma mo cambia
"
"Che, stacca ancora tutta 'e sere a 'e sei"?
"Come no?"
"Stasera 'a vado a trova
"
"Me fai rabbia, me fai. Ma che c'ha che te sfagiola tanto,
me 'o vòi ddì"?
"Aòh, me sfagiola."
Claudio si mise a pensare con una faccia beata all'incontro di
quella sera con la Ines, e se non era lei, qualche altra ragazza
di San Lorenzo, di quelle che conosceva da pischello, che era
uguale. Si sbragò meglio sul sedile, e come se stesse solo,
si mise a cantare
Io stongo carcerato e mamma more
Vojo morì pur io prima 'e 'sta sera,
oi carceriere mio, oi carceriere.
Teneva
la testa ritratta fra le spalle, le corde del collo gli si erano
tirate, e le narici gli si aprivano e gli si chiudevano sulla
bocca che mostrava la sua intera dentiera di cavallo: e scuoteva
leggermente il capo, come per secernere meglio la passione che
ci metteva a cantare.
Alla fermata di Ponte mammolo l'autobus si riempì di gente.
Poi imboccò la Tiburtina, passò sopra l'Aniena,
e puntò dritto verso Roma.
Presso i due malandri s'era venuto a mettere all'impiedi, leggendo
superbamente il Corriere dello Sport, un giovanotto pettinato
alla Rudi, con le scarpe bianche di quelle bucherellata, un vestito
a righe bianche e nere e l'argentina gialla. Claudio lo sbirciò
per un pezzo senza farsi capire, guardando le novità che
andavano di moda quell'estate. Poi, dopo aver ben bene allumato,
si ricosse e diede una gomitata a Sergio, che se ne stava, canticchiando,
sul sedile, col fazzoletto annodato alla malandrina, e la faccia
negra e lucente, come ce l'avesse dipinto Caravaggio.
"A Sé," fece Cleudio, "me vojo fa una de
quelle camicie a buchi che vanno de moda'st'anno, e un paro de
scarpine bianche llà
"
"Ammappete, vòi fa proprio l'acchittone, vòi
fa, beato tte!"
"Quale beato, quale beato see
Tengo na fame addietrata
"
Si morse le nocche delle dita, facendo "mmh", gettò
uno sguardo affamato alle due rose de fuego che gli stavano accanto,
e l'occhio guardandole gli si puntò fuori dal finestrino
"Te ricordi, a Sé?" sia ccorò.
"De che?" "Qquà quanno ch'eramio ragazzini
"
"Mbè?"
"Che ce stava er circo, giù a Pietralata
che
noi eramioscappati de casa
"
Si era parato davanti, dalla sinistra, tra Montarozzi e Spianate,
il Forte di Pietralata, brulicante davanti dei fez rossi dei bersaglieri,
con una tromba in mezzo al cortile che suonava il rancio.
Sergio e Claudio, piccoletti, scappati di casa, se n'erano venuti
da quelle parti, come magnanimamente ricoradava Claudio, e se
n'erano stati un par di settimane, digiunando o magnando qualche
cipolla o qualche persica grattata ai mercatini, oppure un po'
di cotiche fregate dalla borsa di qualche commare
Se n'erano
iti di casa così, perché gli piaceva di divertirsi
Dai
bersaglieri rimediavano da fumare
Poi trovarono da dormire
sotto la tenda di un cocomeraio, sopra i cocomeri, il cocomeraio
aveva un maiale, dalle parti di Bagni di Tivoli, e visto che facevano
buona guardia ai cocomeri, li mandò a sorvegliare il maiale,
anzi, il maiale e un coniglio
Che tremarella la notte nella
campagna disabitata, dentro la capanna
Dormivano con una
mazza sotto al testa
Una mattina la madre del cocomeraio
era venuta lì, li aveva mandata Bagni a comprare del pane,
e intanto, approfittando che non c'erano s'era pappata il coniglio
Trovarono
gli ossicini interrati davanti alla baracca
A Pietralata, che il cocomeraio li aveva cacciati via a causa
del coniglio, avevano lavorato in un circo
coi leoni
litigando
coi maschietti concorrenti della borgata
Una sera scappata
Rondella, la cavalla maremmana, e via per prati e mucchi di immondezza,
lungo le rive dell'Aniene
L'autobus arrivò in fondo alla Tiburtina, passò
sopra il cavalcavia tra fischi di treni, e andò a ormeggiare,
nella gran caciara, al capolinea del Portonaccio. Bianchicci,
nel biancore del giorno, brillavano i lumini del Verano. L'11
era pronto. Claudio e Sergio zomparono giù dall'auto, tagliarono
gridando e ridendo tra la ressa, balzarono sul tram già
in corsa, e restarono attaccati al predellino, cioccando sempre
più, mentre la vecchia vettura risaliva sferragliando il
lungo viale che sotto i muraglioni del cimitero portava a San
Lorenzo.
Tutti
smandrappati, con l'aria del quartiere che gli scapigliava la
chioma, appresi in fondo al grappolo che gli si accalcava al predellino,
volavano verso casa. Ammazza, quant'è bella la vita, mica
pei micchi, ma per quelli che le soddisfazioni se le sanno pigliare
come
loro due
Mentre alzavano moina Claudio pensava a se stesso
con la camicia a buchi e le scarpine bianche, all'Ambra Jovinelli
o nella rotonda di ostia, con la Intesse o qualche altra ragazza
che gli veniva appresso: a completare il quadro della sua bellezza
Intanto, sotto i muraglioni del Verano, passava nella luce invetrita,
qualche coppia, un vecchio, o un garzone in piedi sul sellino
spingeva allaccato il suo triciclo su per la salita
E loro
due, con al mano a imbuto contro la bocca, li sfottevano
"A nennaccio, nannaccio, a pampuzzo
"
"Fra du' anni sei bona pure subito!"
"A dondolina
"
"Nun je dà retta, e dopo dì che so stato io
"
"Se seguiti così quando lo piji marito?"
"Che, stai a sputà li pormoni, a pischè?"
"Daje, che mo' arivi
"
"See, quanno affitta quello
"
Intanto ecco venire avanti le prime case brune di San Lorenzo,
le prime strade rossicce, ecco profilarsi in fondo e ingrandirsi
sempre più, biancheggiando. L'arco di santa Bibiana, e
poi il vecchio giardinetto in mezzo al quale sfilavano, gesticolando,
le più allegre compagnie della gioventù sanlorenzina,
acchittata per la sera, le panchine e le aiuole col verde della
vecchie estati.
1953-54
(da
Alì dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti, 1975)
Pier
Paolo Pasolini.
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