IN USCITA

Vesna Stanic'


Il giorno che incontrammo Tito, facevo la pipì nel parco. Non fu un vero e proprio incontro, né la mia azione un atto di protesta. Quella mattina, mio padre e io ci preparammo per la solita passeggiata, e come sempre, ognuna aveva un preciso contenuto. Girammo per giorni e giorni per i musei della città, e gli animali dello zoo divennero i nostri conoscenti abituali, i parchi la meta obbligatoria per studiare la natura.
Non mi ricordo né il mese né la stagione, ma avendo indossato il cappotto blu, i pantaloni alla zuava, gli stivali e il cappello di lana rossa, deduco che si trattasse dell'inverno. Milan indossava l'unico cappotto in suo possesso, grigio e un po' vecchio, che mia madre rese più prezioso e soprattutto più caldo cucendovi all'interno la sua giacca di pelliccia, disfatta e adattata per l'occasione. Dunque era l'inverno, o perlomeno una stagione che lo precede o lo segue. Piovigginava, ma mio padre disse di non preoccuparmi per la nebbia nell'aria che di sicuro si sarebbe dissolta velocemente. Franciska, esperta nelle variazioni del tempo, abituata a studiare il cielo, guardandolo per ore prima di mettere il naso fuori casa, insistette che si trattava di vera pioggia, ed ebbe ragione. In ogni modo, armati di ombrello ci trovammo a passeggiare in uno dei parchi della città, perché muoversi era salutare, e inoltre osservare gli alberi e le piante gocciolanti era comunque istruttivo. Camminavamo, lui appoggiandosi al bastone a soli quarant'anni, cercando di apparire più un inglese dell'Ottocento che un uomo sofferente, e io correndo avanti e poi aspettandolo come se fossi responsabile dei suoi passi, e ci trovammo su una altura.
- Non possiamo procedere, sotto c'è la strada.- disse lui, sorridendo; - qualche volta bisogna tornare indietro.
Stavamo per girarci quando mi ricordai di un bisogno da tempo rimandato.
- Devo fare la pipì! - annunciai preoccupata, dato il luogo non proprio adatto a tale funzione.
- Dove è il problema? - disse ridendo, indicandomi un grosso albero, proprio ai margini del bosco.
Ero con i pantaloni abbassati, il pullover e il cappotto alzati, guardavo le sue scarpe come un punto di riferimento, avendogli chiesto ripetutamente di starmi vicino, quando lui si mosse.
- Papà - lo chiamai agitata, non potendolo seguire, - papà!
- Zitta, stai buona! - il tono della voce era così serio, le parole quasi bisbigliate, che rimasi immobile del tutto. Allora guardai sotto di me. Arrivarono tre automobili. Gli sportelli delle prime due si aprirono contemporaneamente e scesero degli uomini vestiti di scuro. Rimasero fermi in quell'aria umida e ovattata, mentre solo due di loro si affrettarono verso la terza macchina, che fino a quell'istante non aveva dato segni di vita. Aprirono lo sportello di destra e scese un uomo col cappotto grigio chiaro, di robusta corporatura. La terza macchina ripartì subito, mentre le altre due rimasero con gli sportelli semiaperti. Erano delle vetture lunghe e scure, mai viste prima. Gli uomini stettero qualche minuto fermi, intenti ad ascoltare l'uomo in grigio. Mi sentivo così vicina che vidi il suo volto e il fiato che si condensava a ogni parola pronunciata. Pensai che avrebbe potuto alzare lo sguardo da un momento all'altro e vedermi in quella posizione.
Finalmente, tutti gli uomini sotto di noi entrarono nella villa di fronte, inghiottiti da un grande portone ornato. Il silenzio che subentrò fu interrotto ancora da due autisti che, correndo e con modi solleciti, chiusero gli sportelli delle macchine, tornandosene subito in quell'edificio. Se non fosse stato per le autovetture ancora parcheggiate, il tutto mi avrebbe fatto pensare solo a uno dei racconti del nonno.
- Ti puoi alzare - la voce di mio padre mi giunse incolore, da lontano. Mi vestii in fretta, mentre lui tentava di aiutarmi molto maldestramente, confuso tra le varie sovrapposizioni del mio vestiario.
Tornavamo in silenzio. Sentivo che aveva visto qualcosa di importante sulla strada, lo vedevo turbato.
- Era Tito. - disse piano, come parlando con se stesso.
- Il nostro presidente? - dissi di rimando. - Lo devo dire alla mamma!
In silenzio ci avviammo verso casa, mentre le sue scarpe facevano rumore, pestando il fogliame bagnato sparso sul viale.





Vesna Stanic', cittadina italiana nata a Zagabria dove studia all'Accademia teatrale di Belle Arti, scrive per alcuni settimanali e collabora con la Radiotelevisione locale.
Alla fine degli anni settanta si trasferisce a Roma, insegna croato e serbo alla Berlitz School of Languages e collabora con il Centro culturale italo-jugoslavo. Recentemente ha ultimato la traduzione del romanzo di Mesa Selimovic La fortezza. Attualmente vive e lavora a Firenze.

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