LA LAVAGNA DEL SABATO -
13 aprile 2002
LA
GUERRA CONTINUA
IL MONDO IN GABBIA
Isidoro
D. Mortellaro
Che
paradosso! E' toccato proprio a Kofi Annan, mentre gli si consegnava
a dicembre il Premio Nobel per la pace, rendere l'ennesimo tributo
alla guerra, alla violenza, all'11 settembre come sigillo e forgia
della storia, del tempo: "Siamo entrati nel terzo millennio
per una porta di fuoco". Anche in questa limpida e terrificante
rivelazione, però, straordinario s'avverte il contrasto
tra la precisa sottolineatura della censura, del colpo subito
- anche questo secolo, fin dai primi passi, "è già
stato violentemente disilluso di qualsiasi speranza ce il progresso
verso la pace e la prosperità globale sia inevitabile"
- e l'incertezza dei nuovi orizzonti. Si rinvia al terzo "millennio",
all'indefinito per eccellenza. Finisce così col prevalere
quel 'nulla sarà come prima' che ha campeggiato fin dalle
prime ore sulla dissoluzione delle Twin Towers e che, riproposto
a distanza di mesi, rischia ormai di produrre nebbia e approssimazione.
In verità, proprio il trascorrere di dicembre e del 2001
può aiutare. Coincide con alcune tappe e perciò
con primi bilanci: la prima fase della 'guerra infinita', all'Afghanistan;
ma anche il primo anno di presidenza del giovane Bush'. Con le
perimetrazioni permesse da questi paletti, restringendo così
l'orizzonte, è allora possibile ritornare anche sull'11
settembre e sul suo significato, per meglio cogliere i processi
lì scatenati, provare a schizzarne dinamiche e traiettorie.
L'ultimo
muro
Tanti
di fronte all'11 settembre, a quelle atomiche urbane lanciate
su New York e nei video, nel cervello e nella coscienza del pianeta,
hanno evocato e istituito un confronto con Pearl Harbour. In scia,
quasi tutti hanno sottolineato la fine dell'invulnerabilità
degli Usa, ricavandone, in molti, un ennesimo millenaristico termine:
The end, non più della Storia, ripresa ora in sfrenato
galoppo; ma magari della sicurezza occidentale o, secondo vedute
e convinzioni, della globalizzazione, piombata ora dalla Belle
Epoque nel terrore. Si è scavato poco, invece, in un tratto
pur insistito del gesto terroristico: la scelta ultima del kamikaze.
Stando all'Osama Bin Laden del video 'ritrovato' e 'restaurato'.
Dappertutto, con un'istantaneità da globalizzazione inattinta
anche dall'apocalisse di Hiroshima, un brivido ha raggelato e
annichilito il pianeta: c'è chi fa leva sulla proprio vita
per farla esplodere, moltiplicata all'infinito dalle reti e dai
simboli della globalizzazione; c'è chi osa e costringe
a varcare la soglia della mutua distruzione. Con l'11 settembre
non è crollata soltanto una paratia che divideva da un'epoca
di indistinto terrore. È stato piuttosto abbattuto un muro
che aveva funzionato da architrave per un'intera età, risorsa
e condanna della guerra fredda. Come deterrenza nucleare, per
quasi mezzo secolo aveva trattenuto, congelato il mondo e l'umanità
sull'orlo dell'abisso, del suicidio. Teorizzata e moltiplicata
fino all'inverosimile come minaccia permanente, la M. A. D., Mutual
Assured Destruction, aveva rinchiuso le due super potenze
nel rilancio e nel ricatto della corsa agli armamenti. Le aveva
condannate a vivere come 'scorpioni in bottiglia', ma anche esaltate
come reggenti del mondo sospeso
nella condizione, tratteggiata da Raymond Aron, di "pace
impossibile, guerra improbabile." Nè quel ricatto
s'era dissolto con la fine del bipolarismo. Era sopravvissuto
come risorsa estrema della potenza egemone, gli Usa, attenti,
di fronte alle incognite della globalizzazione, non solo a conservarla,
come ancoraggio, morso del mondo messo a soqquadro dalla globalizzazione
neo liberista, ma a rafforzarla nel monopolio di nuove armi e
scudi stellari.
È agli Usa di 'Bush il giovane', del rinnovato 'scudo spaziale'
che il terrorismo sottrae la minaccia e l'arma della mutua
distruzione assicurata. Non solo osando l'impensabile, l'unthinkable
su cui s'erano arrovellati per decenni scienziati e strateghi,
schiere di Stranamore, ma anche negando un punto dì applicazione
alla dissuasione nucleare, sottraendosi allo sguardo e alla mira,
alla rappresaglia dell'iperpotenza americana. Si è parlato
di guerra asimmetrica per raffigurare la dissoluzione del terreno
di battaglia tra opposte statualità e la sua dispersione
nelle reti e soggettività del post-guerra fredda. Minore
attenzione si è piuttosto prestata alla straordinaria simmetricità
con cui il terrorismo ha mimato e riprodotto l'asimmetria messe
in campo dall'Occidente e dagli Usa con la guerra celeste,
la guerra intelligente, condotta da lontano, al riparo
dalla risposta e dai colpi dell'aggredito. Da ambo i campi si
sceglie simmetricamente invisibilità e distanza,
ancorchè conquistate e conservate i forme e con mezzi diversi.
L'11 settembre viene infranta la pietra angolare su cui gli Usa
avevano conquistato a sè il primato e al mondo un rovinoso
equilibrio. Ne è ben conscio - e non a caso - il vice presidente
Dick Cheney, ora vero uomo ombra della presidenza e
pivot di tutta la squadra di cold warriors, strateghi
della guerra fredda, che contorna Bush e che ora dirige le operazioni
di guerra. IN unam delle sue rare interviste, Cheney ha espresso
con chiarezza il salto: "Un tempo c'era la guerra fredda,
ma noi ci difendevamo con la deterrenza...ora siamo vulnerabili
come società, perchè ci sono persone che ci vogliono
morti e sono pronte a morire per ottenerlo".
Con il sistema della mutua distruzione crolla l'ultimo muro.
Aveva delimitato i grandi spazi del bipolarismo, degli imperi
contrapposti. ma anche garantito un confine, un contenimento,
una misura della potenza spaventosa accumulata dalla guerra moderna.
E non è un caso che ora, dopo l'11settembre, non vi sia
più remota nè freno. L'atomica - arma fondativa
della globalizzazione, dell'unificazione del mondo e dell'umanità
in comunità di destino - torna a popolare l'incubo planetario
quotidiano. Osama Bin Laden nel suo primo proclama, in risposta
all'attacco in Afghanistan addita Hiroshima e Nagasaki a peccato
originale degli Usa e dell'Occidente, a moderno confine tra
credenti e miscredenti. Di converso Rumsfeld non esclude l'utilizzo
della bomba. E l'atomica torna a farsi minaccia sul confine indo-pakistano
o nel triangolo mediorientale disegnato da Israele, Iran ed Iraq
in cui matura la nuova puntata della guerra al terrore . In attesa,
la dismisura promessa dal suo utilizzo fa da padrona nella
condotta concreta del conflitto, che, come Guerra Santa, del Bene
contro il Male, del 'Dio è con Noi', diventa onnipotenza
tecnologica, escalation nell'utilizzo di ordigni sempre più
terrificanti. Ossessionati dal Ground Zero sempre più
larghi e profondi nelle montagne afghane. Conquista attenzione
e audience uno dei conservatori più battaglieri,
Charles Krauthammer, che rifacendosi all'insegnamento di Bin laden
- "quando il popolo vede un cavallo forte e uno debole per
sua natura sceglie quello forte2 - pontifica dalle colonne del
"Washington Post": "Come vincere una guerra santa?
Bombarda i guerrieri della jihad e intimidisci gli spettatori...la
vittoria cambia tutto". A ruota, Kissinger, dimentico dell'abisso
volta a volta contornato e evitato, si produce nella revisione
a tutto campo dell'ultimo mezzo secolo e nell'elogio sperticato
di guerra e violenza: guai ad affidarsi "unicamente alla
diplomazia", si ripeterebbe "l'errore degli ultimi cinquant'anni".
E conclude sulla vacuità di una lotta al terrorismo risolta
nella diplomazia, "non appoggiata dalla minaccia della forza".
È il logico approdo di una corsa che ha abbattuto ogni
ostacolo e che ora, alla chiusura del decennio aperto dalla Guerra
del Golfo, allinea, assieme a una miriade di conflitti civili,
più o meno locali, ben tre guerre globali, lanciate nel
mondo in nome e per conto dell'umanità.
Dismisure
e metamorfosi
Ma
è nella risposta all'attacco terroristico che la dismisura
della guerra si rivela appieno, mettendo a nudo non già
un ritorno della politica e del Leviatano, dopo la sbornia globalista
del mercato, ma le loro iperboliche metamorfosi nel mondo,
nella globalizzazione del XXI secolo.
Contrariamente alla vulgata dominante nella maggior parte dei
commenti e delle analisi, il Congresso americano non ha largheggiato
con George W. Bush nella concessione dei poteri di guerra. Anzi.
Il 14 settembre, nelle aule del Senato e della Camera dei Rappresentanti
riuniti per votare la guerra, prevale ancora il sospetto per un
presidente imposto, al paese e agli elettori spaccati, da un colpo
di mano della Corte Suprema. Aleggiano diffidenza e sconcerto
per chi, sballottolato per cieli e basi segrete nelle prime ore
dopo l'attacco, si è rivelato clamorosamente spaesato e
assente. Anche così si spiega la strada scelta da deputati
e senatori. Sicuramente quella della guerre. Lo sottolinea, se
ce n e fosse bisogno, il ricorso alla War Power Resolution,
la Risoluzione sui poteri di guerra con cui il Congresso
era riuscito finalmente, nel novembre 1973, a disciplinare e ridurre
l'ampia discrezionalità conquistata in materia dalla presidenza,
in particolare con l'escalation vietnamita. Viene però
fatta una scelta precisa fra le tre possibili soluzioni che la
legge contempla per dare la parola alle armi: una formale dichiarazione
di guerra; una autorizzazione legislativa; una risposta improvvisa
a una emergenza. Le Camere escludono la dichiarazione di guerra:
si spoglierebbero d'ogni potere a favore della presidenza. Provano
a tenere le briglie al collo di Bush e scelgono così l'autorizzazione
legislativa, con il voto su una risoluzione congiunta: è
una strada che la legge costella di controlli periodici e rapporti
al Congresso. L'illusione di mantenere il controllo è però
vanificata ab imis dall'oggetto stesso della risoluzione:
scegliere la guerra in risposta al terrorismo, all'iperterrorismo
dell'11 settembre. È come acchiappar mercurio a mani nude:
fatica vana e infinita. La lettura del dispositivo rivela subito
come l'oggetto sfugga a qualsiasi misura o contenimento: intanto
alla forma tradizionale della guerra che, nell'individuare il
nemico, si dà spazi di intervento e manovra, obiettivi
precisi su cui mirare e vie da percorrere e tempi, quelli
della propria e dell'altrui resistenza e sopravvivenza. Niente
di tutto questo. Nelle risoluzione si legge che "il presidente
è autorizzato a usare tutta la forza appropriata e necessaria
contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che, a suo giudizio,
hanno pianificato, autorizzato, commesso o agevolato l'attacco
terroristico dell'11 settembre o hanno ospitato simili organizzazioni
e persone, anche per prevenire ogni futuro atto di terrorismo
internazionale contro gli Usa". La carta bianca, negata nelle
forma, è imposta dalla sostanza di una guerra su scala
planetaria, dichiarata ad un nemico senza volto, che il presidente
degli Usa volta a volta potrà individuare e nominare anche
per prevenire attacchi futuri. Si gareggia con l'Onnipotente:
si punisce non solo il 'peccato di opere', ma anche quello di
'pensiero. Di lì a poco Bush aggiungerà quello di
'omissione' quando, all'inizio dei bombardamenti sull'Afghanistan,
ma poi anche nel massimo consesso mondiale, all'assemblea dell'Onu,
proclamerà che "ogni nazione dovrà scegliere.
In questa guerra non c'è neutralità".
Rispetto ad un conflitto che dilaga nel mondo, si stenta ad enumerare
tempi, obiettivi e forme. Esponenti dell'amministrazione Usa parleranno
di oltre 60 possibili scenari. da bush e dai suoi collaboratori
arriveranno profezie di guerre che sorpasseranno le generazioni
e le forme conosciute. Figlie e profeti della società dell'informazione
dovranno abituarsi al segreto, a operazioni invisibili. la comunicazione
deve cedere il passo alla deformazione. Non sorprende ceh
per battezzare l'annuncio non di una semplice guerra, ma di una
nuova fase della storia degli Usa e del mondo, si sia scelto il
nome di Infinitive Justice. Inappropriato il sostantivo
sommamente se applicato alla guerra. Ma l'aggettivazione esprimeva
a pieno la dismisura di intenzioni e processi. Nomina sunt
consequentia rerum: gli Usa hanno avviato il mondo per una
guerra senza confini, globale, e perciò inevitabilmente
guerra civile. Anche questo è un portato dell'era atomica,
quando il conflitto contempla inevitabilmente l'umanità
come bersaglio e non conosce più il nemico esterno, non
sa e non può più trattenersi in spazi e contenitori
dati.
A rafforzare la deriva verso un conflitto civile planetario hanno,
però, contribuito potentemente la crisi manifesta dell'Onu
e la subalternità del Consiglio di Sicurezza rispetto alla
lettura di scenari e conflitti proposta dagli Usa. Le deliberazioni
dell'Assemblea generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite del 12 settembre provvedevano alla pronta condanna dell'atto
terroristico, alla più piena attivazione di tutti gli Stati
nella lotta al terrorismo, considerato, nella risoluzione del
Consiglio di Sicurezza, come "una minaccia alla pace e alla
sicurezza internazionale", sulla scia di precedenti risoluzioni
che individuavano nella "soppressione del terrorismo internazionale
un atto essenziale per preservare la pace e la sicurezza internazionale".
E' con la deliberazione del 28 settembre, successiva alla concessione
dei poteri di guerra a Bush, che il Consiglio di sicurezza - opportunamente
pungolato dal rappresentante Usa Jhon Negroponte - imbocca una
via senza ritorno. Come già nella Risoluzione del 12, si
provvede a "riaffermare il diritto naturale di legittima
difesa individuale i collettiva". Ma si tratta, come ben
chiarisce l'Art. 51 della carta delle Nazioni Unite, di un diritto
naturale esplica "rispetto ad un attacco armato"
e "fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia
preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza
o internazionale." Non sta al Consiglio di sicurezza o alle
Nazioni Unite riconoscerlo o meno. Insistere nel riconoscimento,
senza assumere alcuna misura volta ad assorbire o sostituire l'autodifesa
in atto, significa solo legittimare, come ha già chiarito
Gianni Ferrara, le decisioni americane. Queste però, in
base alla deliberazione congiunta da parte del congresso del 14
ottobre, non sono affatto rivolte solo all'Afghanistan, come sottolinea
Ferrara. Consegnano al presidente e alle forze armate americane
un mandato e un raggio di azione planetari. E perciò, quando
il Consiglio di sicurezza con i commi successivi, decide il 28
settembre di chiedere a tutti gli stati di prevenire o reprimere
ogni atto terroristico, provvede all'interruzione e al prosciugamento
di canali e fonti di finanziamento, scompaginando reti di reclutamento
e addestramento, collaborando sul piano internazionale con lo
scambio di informazione, e segnalazioni, mobilitandosi insomma
a ogni livello contro ogni forma di terrorismo internazionale,
disfatto e formalmente chiede ad ogni Stato di disporsi a terminale
e ganglio dell'azione globalmente proclamata dagli Usa, ma amministrata
su scala mondiale dalla presidenza americana e dai suoi vari bracci
esecutivi. Quanto e come gli Usa siano pronti a utilizzare nuovi
spazi aperti alla propria azione da questa risoluzione del consiglio
di Sicurezza diviene chiari il 7 ottobre, mentre iniziano i bombardamenti
nell' Afghanistan. Il rappresentante permanente degli Usa all'
Onu indirizza al Presidente del Consiglio di Sicurezza in cui
notifica l'avvio delle azioni militari in Afghanistan, "
nell'esercizio di diritto naturale di legittima difesa" dagli
atti terroristici dell'11 settembre: una 'legittima difesa' preannunciata
dalla Risoluzione del 28 settembre.
L'effetto di questa richiesta globale dell'Onu di mettere il mondo
in sicurezza, in coda e coordinamento all'azione americana, è
duplice. Da un lato, l'organizzazione della lotta globale al terrorismo,
si muta in legittimazione e incrudelimento, nei punti più
caldi del pianeta, di conflitti civili o intestini preesistenti
o preannunciati. Sono in molti, e tra i più potenti, a
celebrare sacrifici sull'altare di quella guerra santa: kla Russia
di Putin offre la Cecenia, la Cina le sue minoranze musulmane
o buddiste, Israele prova a stroncare l'Intifada, l'India chiede
che il Pakistan smetta di fomentare il Kashmir, per rimanere ai
casi più noti. A ruota segue la militarizzazione di ordinamenti,
la stretta di vite e l'espansione della legislazione anti-terroristica,
a imitazione e amplificazione delle restrizioni varate negli Usa
in materia di libertà civili, di movimento e di difesa
legale. Dall'altro lato, gli Stati Uniti vedono moltiplicare il
loro potere di coalition building, la capacità di assemblare
alleanze e coalizioni il cui unico denominatore è la battaglia
dei propri interessi e prerogative, nazionali o imperiali. Finora
agli Usa non è costato nulla tessere queste reti, fino
a potersi permettere il lusso di tenere in riserva la Nato, prontamente
scesa in campo nell'inedita attivazione dei meccanismi per la
difesa comune.
La
presidenza imperiale
Appropriatamente Edward Luttwak si è rifatto alla Santa
Alleanza per provare a delineare contorni e baricentro di questa
inedita costellazione di poteri. Il paragone è felice e
potrebbe sprigionare ampie possibilità analitiche se inserito
in un giudizio adeguato sul profilo internazionale dell'amministrazione
Bush. Ma in materia quasi unanimemente hanno imperversato, dapprima,
la fascinazione per il nuovo corso di politica estera inaugurato
dalla presidenza Bush, in risposta all'11 settembre, e, successivamente,
lo sconcerto, a mano a mano che sui campi più disparati
e sui capitoli più scottanti- dalla denuncia del trattato
Abm alle proposte di finta riduzione dell'armamento atomico, dai
rifiuti su varie convenzioni in materia di armamenti alle trattative
in materia di commercio internazionale - Bush il giovane e la
sua squadra sono ritornati, accentuando toni e sostanza, a posture
più schiettamente unilateralistiche.
Nel merito, nulla più del capitolo scottante dei prigionieri
di guerra può permettere di fare chiarezza. E' noto
intanto come l'amministrazione americana preferisse evitare un
dopoguerra - impensabile, per definizione, in una 'guerra infinita'
- o un retroguerra, costellato di carceri e tribunali, potenziali
altari o tribune di un terrorismo votato al martirio e ferratissimo
nella comunicazione. Di qui la condotta più volte esplicitamente
teorizzata e praticata dal ministro della Difesa Rumsfeld, al
grido del 'niente prigionieri' e col vanto di ordigni inumani
dispensati sulla già desolata gruviera afghana. Parallelamente
Bush, in collaborazione con il retrivo Ashcroft ministro della
Giustizia, approntava, tra approssimazioni e modifiche progressive,
tribunali militari dipendenti dall'esecutivo e paralleli al sistema
giudiziario americano, incaricati di perseguire e processare su
scala globale i sospettati di terrorismo. E' seguito l'approntamento,
a Guantanano, di una base militare collocata non su suolo americano
ma fittata dal governo cubano, di un carcere assemblato con tiger
cages, gabbie da tigre, in cui trasferire e serrare i 'detenuti'
della guerra afgana. A costoro, in assoluto contrasto con lo stato
di guerra proclamato istituzionalmente e a ogni livello della
vita nazionale e internazionale, si nega sia la qualifica di 'prigionieri
di guerra'- dovrebbero godere della protezione di varie convenzioni
internazionali e comunque essere liberati alla cessazione delle
ostilità, se non indagati di circonstaziati crimini di
guerra- sia l'accesso al suolo americano, per impedire che possano
chiedere di essere giudicati dal sistema giudiziario americano.
Lo ius ad bellum squarcia con immensi Ground Zero
lo ius in bello e il diritto internazionale. In attesa
che si decida come processare realmente i 'detenuti', li sospende
in un limbo amministrato dalla presidenza Usa e dalle sue emanazioni,
in barba a ogni regolamentazione internazionale ma anche all'equilibrio
dei poteri della repubblica americana. Inquieto s'affaccia un
dubbio: potrebbe costituire un precedente, ritorto magari contro
i tanti marines che s'aggirano per il mondo da chi dovesse ritenere
illegittima guerra a stelle e strisce.
In vitro il caso è rivelatore di uno straordinario
terremoto che sta mutando la scene internazionale americana. Bush
il giovane - che con la sua risicata vittoria doveva segnare il
tramonto definitivo della 'presidenza imperiale' - è ora,
con la sua squadra di pretoriani, al centro di una ridefinizione
imperiale dei poteri e della politica di inusitata estensioe e
profondità. Alcuni esempi, sulla scorta dei tribunali militari
speciali, sono particolarmente illuminanti: con Putin si è
abbozzata una riduzione degli armamenti atomici per gentleman's
agreement e non per trattato, e perciò non soggetta
a ratifica congressuale; così è stato anche per
la denuncia del trattato Abm, decisa senza il concorso del Congresso;
il presidente ha ottenuto da un ramo parlamentare il cosiddetto
fast track, ovvero mano libera nelle trattative in sede
di Wto, su materie e contenziosi paragonati da Zoellik, il rappresentante
americano, a vere e proprie bombe atomiche, in particolare tra
Europa e Usa; e così via.
Si può allora capire meglio l'insistenza, soprattutto ad
opera di Rumsfeld e Cheney, nel paragonare la 'guerra infinita'
alla 'fredda', alla loro Cold War. Allora la costrizione
ultima della deterrenza atomica impediva il conflitto aperto.
La guerra cessava di essere la continuazione della politica,ma
diveniva a sua volta politica. Stato duale, camicia di forza che
segnava i confini di sistema e condizionava il gioco degli attori,
le loro lealtà. Anche con la guerra infinita, la lotta
al terrorismo, la ricerca del nemico diviene costrizione generale,
codice che alimenta la riscrittura delle regole.
Quel che muta è l'unilateralismo dell'attore fondamentale.
Allora gli Usa, con presidenza e Congresso affratellati nel 'consenso
della guerra fredda', tennero a battesimo Onu e Nato, Ocse e successivi
sviluppi comunitari, Fmi e World Bank. Oggi una nuova presidenza
imperiale affastella coalizioni che si nutrono della decomposizione
delle istituzioni internazionali affidata alle cure esclusive
degli esecutivi e al riparo di Parlamenti. Ma nel fuoco di un
conflitto che prova a ricondurre a disciplina il mondo uscito
dai cardini a Seattle e Genova.
Mai come in quest'alba di secolo pace e guerra appaiono
nitidamente forme alternative alla politica. Non quella auspicabile,
ma quella vissuta e agita dai due campi contrapposti - quello
oligarchico e quello democratico - che da trent'anni e passa provano
a regolare, a costituzionalizzare la polis globale in cui il mondo
si viene organizzando. L'11 settembre ha rivelato, sotto l'urto
di una guerra intestina alle oligarchie del pianeta, tra i vincitori
della guerra fredda, che siano a un salto e un'accelerazione nella
regolazione oligarchica e neoliberistica del mondo. Chi finora
ha vinto - nella moderna guerra dei trent'anni aperta dall'emergere,
con il '68, di un globalismo democratico, partecipato - sta accelerando
il passo nella riscrittura delle regole del gioco. Sarà
un passo più lungo della gamba, se dall'altro lato il globalismo
democratico, riemerso a Seattle e Genova, saprà continuare
a mettere in crisi egemonie liberiste e pretese oligarchiche e,
soprattutto, vorrà fare della pace il cardine di un'altra
agenda e di una nuova politica.
(da
La Rivista del Manifesto n. 25, febbraio 2002)
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