CON UN BUCO DENTRO
Andrea Bonvicini
Se ne stava da solo al ristorante e senza troppa convinzione scorreva il dito sul menù. Per un po' fu attratto dall'idea di un ricco fritto misto, ma poi l'occhio gli cadde sulla riga che prometteva un risotto giallo con l'osso buco. Era tanto che desiderava provarlo e decise che l'investimento di venti euro era adeguato per risollevare le sorti di una giornata incominciata male e proseguita peggio: per esser sinceri, tutto un po' troppo storto per essere rimediabile così, solo con un profumo buono in bocca. “Beh, in qualcosa uno deve sperare, no?”, si disse, ma non ne era poi troppo convinto. Invocò la paterna protezione di Carlo Emilio Gadda e ordinò il piatto a un cameriere piedi dolci che gli si era appressato con fare liquido e ossequioso. Questi raccolse l'ordinazione tutto rannicchiato attorno al suo quadernino untarello anzichenò, come se davvero credesse a quel fardello di responsabilità, e la fece rimbalzare verso le cucine: “Un risottino coll'ossobuco, certo signore, riso e buco al tre!” No, sentirsi ossequiato dallo sparato posticcio del cameriere non gli bastava.
Certo il contesto di quel ristorante non faceva ben sperare in una troppo riuscita transustanziazione di milanesità. “Con quei due slavi lì, e come si fa?”. Rumoreggiavano nel tavolo accanto a lui: occhieggiò verso di lei e la sua minigonna troppo stretta (o le cosce troppo larghe), mentre, dalla catena d'oro grossa un dito che troneggiava sul petto peloso di lui, bagliori corruschi cercavano di farsi largo nel muro di profumo dolce che si spandeva da lei. “Santo Dio, che tristezza”, sospirò. Si sentiva diverso dal caos inverecondo che lo circondava. Per averne riprova si girò a guardare la propria figura riflessa nella specchiera del buffet. Era ben vestito, col viso curato e occhialini leggeri: che ci faceva là dentro? Distolse lo sguardo quando dai suoi stessi occhi raccolse il noto peso dell'insoddisfazione, eccessiva perché avesse soluzione entro sera.
Nulla attirava la sua attenzione in quel guazzabuglio incoerente di facce e insoddisfazioni: tanto valeva risposare gli occhi. Si strofinò il mento barbuto e depose gli occhiali. Era la prima cena al ristorante che si concedeva dacché era morta lei.
Le cose non si stavano mettendo a posto come aveva sperato.
Provò allora a concentrarsi sui suoni attorno a lui: un orrido affastellarsi di schiocchi, risate, tintinnii di piatti e forchette. Avrebbe potuto essere in un suk arabo, se solo avesse chiuso gli occhi.
Provò allora a concentrarsi sui suoni attorno a lui: c'era una voce più fastidiosa di altre, maschile ma alta, e i bocconi di parole che aveva colto lo avevano incuriosito.
– È una cabala, una cabala ti dico: non puoi farci niente è proprio così. È una magia, non c'entra niente se ci credi o no, è un fatto. Per esempio: che il Milan vince le finali se ha la maglia bianca è un fatto. Già, e l'unica volta che ha perso, col Liverpool, lo sai di quella volta no? Ci siamo beccati tre papagne. Quella volta avevano la maglia bianca, solo che poi... Ma è stata una cabala anche quella, al contrario però.
Il cameriere intanto aveva deposto il piatto con l'ossobuco davanti a lui. Sorbì le onde grasse esalate dal cerchio giallo del risotto. Poi tornò a cercare la voce dietro di sé.
– Te ne dico un'altra, che se la mia squadra comincia a perdere e io cambio l'immagine di sfondo del telefonino e ci metto la curva dello stadio di quella volta che abbiamo vinto il derby, beh allora vinciamo. Non è che vinciamo il campionato, magari no, è che da quel momento vinciamo di nuovo. E niente, poi anche a me le cose vanno bene allora, e non mi succedono cose brutte con la curva qui sul telefonino.
Cincischiò con la forchetta scavando il midollo dell'ossobuco. Era ormai freddo e inerte nel piatto e a dire il vero non era buono come aveva sperato. Tutto andava storto, ancora, e quel delirio di parole lo metteva a disagio. Era ormai molto vicino alla decisione di lasciare la serata al suo destino e mandare affanculo tutto, l'osso, il buco e i piedi fessi del cameriere, il suk e il casino. E anche quel cretino là dietro. Ma lo sentì che diceva: – E sennò in che cazzo speri? In cosa speri tu? Io almeno della cabala sono sicuro e tu in cosa speri, ce l'hai una speranza, eh, dimmi?
Non avrebbe dovuto dirlo: sbiancò in volto e le sue spalle quasi scattarono per girarsi. Dentro di sé si era alzato e gli stava urlando in faccia: “Quella parola, coglione, la speranza, non la devi usare, non devi neanche pronunciarla, non mentre ci sono qui io!”. Pensò di schiacciargli la faccia nel suo risotto, se lo stava mangiando anche lui, e ce l'avrebbe soffocato volentieri. Ma non era un violento e si dominò. Non si girò nemmeno per guardarlo in faccia, se lo poteva immaginare benissimo.
Cercò di controllarsi, e guardò in basso invece, nel buco di disperazione in cui viveva da quando lei era morta. Perché lei era morta, ed era lei che gli parlava di speranza, lei era certa, lei non aveva paura, mentre lui era terrorizzato. Lei diceva “sono contenta” e intanto il tumore le mangiava le ossa, che, dopo un mese, neanche ad alzarsi riusciva più e quando un po' era stata bene aveva dovuto usare la carrozzina prima e le stampelle poi: ma lei se la rideva e ci faceva sopra anche le battute, dell'ironia ci faceva. Ma chi le dava la forza? Una volta gli aveva anche detto che il problema per lui non era che non credeva, ma che credeva a tutto. Gli diceva che lui era un sentimentale (“di un sentimentalismo ributtante”, per la precisione) mentre lei era razionale, “tomista di terzo grado”. “Fides substantia rerum sperandarum, caro mio, e non è che ti manca la fede: a te manca la materia, tu non tocchi la materia,” gli diceva palpandogli il braccio per dare sostanza alle sue parole. “Ti manca l'umano, non la fede”. Insomma non l'aveva mai capita, ma mentre la malattia la mangiava non era cambiata di un millimetro, era rimasta bellissima fino all'ultimo giorno, ma magra, ogni giorno più magra, con le braccia scarne come rami secchi di sambuco, vuoti dentro, senza midollo.
Vide l'ossobuco impotente nel piatto davanti a lui e non ne poté più. Con una manata spazzò via il piatto che si fracassò con fragore per terra. Scoppiò a piangere.
Ci fu il gelo intorno, i visi di tutti erano imbarazzati. Arrivò il cameriere a risolvere la situazione, planando lì come una papera imbalsamata.
Lo blandì con voce servile: – C'è qualche problema? Non era forse buono?
Alzò lo sguardo senza capire. Dopo un tempo quasi infinito, rispose: – No, non va bene per niente! E che cazzo c'entra quello schifo che mi hai messo nel piatto? È che lei è morta. È morta, hai capito? È morta contenta e io sono qui ancora e mi devo sorbire il tuo risotto da schifo e le cazzate degli stronzi qua attorno!
Si alzò e lanciò sul tavolo una manciata di banconote davanti al cameriere basito ma indifferente. Uscì ruggendo dalla porta a vetri e la fece sbattere col massimo della forza dietro di sé.
L'aria fredda lo calmò, almeno un tanto, almeno la scorza della faccia. Ma dentro continuavano a urlare lo schifo e l'amarezza. Si appoggiò con le spalle al pilastro di un portone e si sforzò di respirare a fondo per qualche minuto mentre cercava di controllare il tremore delle membra e della mascella.
Non c'era mai stato nulla di semplice con lei. Non era certo tenera, ma quello era il suo modo di amarlo.
Si ricordò dell'ultima volta che era stata un poco meglio e aveva voluto essere portata al recinto dei pavoni nella sua fattoria. La vide lì davanti a sé, con i suoi occhiali fuori moda, un cappello di paglia in testa, quella testa caparbia. Era arrivata fino alla staccionata con le stampelle, scendendo da sola dalla macchina.
– Che te ne pare di me? ti piace questo antropoide a quattro gambe? – gli aveva chiesto. Con una mano si reggeva sul legno e rimirava intanto i suoi pavoni.
– Ma che cosa ti piace così tanto in questi uccelli inutili? – le aveva domandato, quasi risentito.
– Tu, l'unica cosa che sapresti farci sarebbe contarli – sorrise – ma non hai neanche una buona ragione per farlo. Che ti devo dire: se la sbrigano da soli e non si ficcano nei guai credendo troppo o troppo poco a quello che fanno, – lo guardò sardonica da dietro gli occhiali – come fai tu invece.
Aveva provato a guardare i pavoni come faceva lei, ma continuava a vedere solo gallinacci vanitosi.
– Lascia stare i pavoni, non fanno per te. Tu, piuttosto, che cosa sei disposto a sborsare?
– Per cosa?
– Per esser felice, o santo, come vuoi.
– E che c'entrano queste cose tra loro? Sono un uomo, mi interessa d'essere felice, sì. Ma la felicità: quale? E la santità poi: è un'astrazione, un simbolo, bene che vada.
– Se è un simbolo, allora che vada pure al diavolo, e tu con lei.
L'avevo guardata, stupito: aveva questa dolcezza e questa violenza assieme dentro di sé: “Il suo sangue pulsa più forte del mio,” si trovò a pensare “dove trova questa saggezza?”.
Si riscosse dai suoi ricordi.
Fu in quel momento che il suo vicino di tavolo fece il secondo errore della serata. Uscì fuori proprio quando non doveva. Sarebbe bastato forse qualche minuto ancora perché lui fosse già andato via. Ma non accadde così. Certo sarebbe stato meglio se fosse rimasto dentro a parlare ancora. Invece uscì. Non avrebbe dovuto farlo.
Lo riconobbe dalla voce, mentre salutava con larghe manate sulle spalle la combriccola degli amici. Un'ira sconosciuta lo prese da dentro: si ritrasse nel buio del portone e lasciò che l'altro gli sfilasse davanti senza farsi vedere. Cominciò a seguirlo, abbastanza da vicino. Mentre camminava, la violenza del sangue gli rombava nella testa e con esso cresceva la sua rabbia, ogni passo una parola e ogni passo un rombo più forte dentro. Lei sperava, sì, lei era certa, lei aveva fede, e con ciò? Lei diceva “sono sicura della mia speranza”. Ma era morta. Morta! E quello stronzo di tifoso di merda invece camminava ancora per le strade. Lo seguì trascinato dal trambusto che aveva dentro, senza sapere bene che fare.
A un angolo più buio degli altri vide la ferrovia che passava accanto alla strada. C'era un passaggio a livello. Capì quel che voleva. Controllò l'ora sull'orologio e annuì. Allungò il passo e in un istante gli si avventò addosso. Lo afferrò per le spalle, lo trascinò per qualche metro e poi lo scaraventò per terra. Non reagì, non aveva modo, lui era una furia. Gli piantò un ginocchio nelle reni per immobilizzarlo. Gli sbattè per terra la testa mentre con l'altra gli frugava nelle tasche seppure quello tentasse, debolmente, di divincolarsi. Forse era svenuto e provava a riprendersi. Gli premette allora con ancor maggior forza la faccia proprio nella fessura di acciaio del binario dove lo aveva sbattuto. Trovò quello che cercava, il telefonino. La bocca era di taglio sull'acciaio, gli girò di più la faccia così che potesse vedere.
– Lo vedi? Lo vedi? – urlò mentre gli ficcava lo schermo davanti agli occhi. Lo udì mugolare.
– Di' sì o no! – sbraitò, e l'eco nella strada vuota e nera amplificava la rabbia nella sua voce. Lo raggiunse qualcosa di simile a un'implorazione, quanto gli bastava per poter proseguire. – È il tuo telefonino? E ha la magia vero? – L'altro non poté che mugolare di nuovo.
– Adesso cerco la foto della squadra e la metto di sfondo, lo vedi? – armeggiò sui tasti finché gli riuscì. Ci mise un po' ma non doveva far nemmeno troppa fatica a tenerlo fermo: ormai era in suo possesso. Sudava però, e si passò un braccio sulla faccia. Si sentiva lucido e sicuro.
– La vedi la tua squadra? la vedi? – non rispondeva – La vedi pezzo di merda? – lo strattonò per i capelli e gli sbatté la bocca sul metallo. – La vedi adesso? – l'altro non poteva che piagnucolare, ma lui prese per un sì il mugolio che scivolò fuori dalla bocca sanguinante. – E adesso le cose andranno bene vero? Andranno bene perché c'è la magia, c'è la cabala, vero? – non aspettò nemmeno la risposta, stavolta. –- Bene, – la sua voce era un sibilo adesso – sappi che massimo cinque minuti e passerà il treno, e io e te lo prenderemo da sotto, da qui sotto, io e te insieme, qui sul binario. Tu ci speri nel tuo telefonino vero? nella magia, nella cabala. Allora non ci succederà nulla di male, ci credi vero?
Il silenzio che seguì fu una consolazione. Si gustò quei minuti. Faceva freddo ma non lo sentiva. Sentiva solo il potere di quello che stava facendo. Non pensava a niente, aspettava solo che passasse il treno. Non fu un tempo lungo, ma gli parve un tempo bello.
Da lontano si sentì lo sferragliare nella notte. Di nuovo sotto di lui qualcosa si mosse
– La senti? La senti la morte che viene?
La forza della sua rabbia lo inchiodava. Ormai il treno doveva essere vicino, il metallo vibrava. Si abbassò accanto al suo orecchio e sentì l'odore della paura che si mischiava al tanfo aspro della massicciata, un misto di polvere e vuoto. Insinuò la sua voce nell'orecchio: – Ci credi, ci credi ancora? Dov'è la cabala, la magia, la speranza? – Sentì tutta la molle vigliaccheria di quel corpo, sentì odore di urina e ne ebbe, se non pietà, schifo. Mollò la presa e il corpo rotolò via scappando a quattro zampe, cadendo e rialzandosi, girandosi e scappando. Si alzò anche lui: le gambe non gli rispondevano più per la tensione. Gli tirò con tutta la forza che aveva il telefonino che si ritrovò in mano, urlandogli dietro: – Eccola la tua speranza!
Si voltò mormorando tra sé: – Tifoso del cazzo, – scosse la testa.
Cercò di snebbiarsi la vista dalla rabbia massaggiandosi gli occhi e il viso.
– Certo, l'ha salvato la cabala – ghignò – Dio, che mare di stronzate.
Si girò come richiamato da qualcosa alle sue spalle e alzò gli occhi giusto in tempo per vedere i fari del treno avventarglisi addosso come un uccello di rapina. Un lampo. Uno schianto. E un soffio che lo prendeva e gli sussurrava gaio all'orecchio strappandolo lontano. L'immagine che ebbe, e fu l'ultima, o forse la prima, fu il volto di lei, pieno di luce lieta e di speranza.
Andrea Bonvicini nasce a Trento il 14 maggio 1962, dove ancora risiede con la sua famiglia. La sua attività lavorativa si svolge però a Milano, dove dirige una società di servizi. Le lunghe serate milanesi danno spazio alla scrittura e alle parole.
Tra i suoi riferimenti letterari Flannery O'Connor, Cormac McCarthy, Bernard Malamud, Giovanni Testori, Raymond Carver, Carlo Emilio Gadda, Dino Buzzati, Franz Kafka, Luigi Pirandello. Vincitore del Premio “Racconti nella rete 2009” organizzato da LuccAutori, del premio “ Osservatorio 2008 ” (sezione Narrativa) e del premio “Antologia Aperta 2009” di Samperi Editore. Ha pubblicato con LuluPress il romanzo “Come la pioggia” e la raccolta di racconti “Le parole sono come pietre”. Pubblica on-line nel proprio sito www.comelapioggia.it .
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