RAPPRESENTANZE

– Brano tratto dal romanzo Il Maestro di Vigevano


Lucio Mastronardi

 



(…) L'ispettore mi disse: - Signor maestro Mombelli, lei ci rappresenterà ai funerali del maestro Amiconi. Porgerà alla vedova le mie condoglianze e il mio dolore, e le darà questo biglietto. Dirà che è in veste di rappresentanza!

La parola “rappresentanza” doveva suonargli bene all'orecchio. Difatti seguitò a ripeterla, e la ripeteva con un suono particolare, proprio di grande gusto.

“Rappresentanza”.

- Ella dirà: come dirà, signor maestro, alla vedova Amiconi?

- Dirò: sono qui in rappresentanza del direttore, professor Pereghi!

Scosse la testa: - Sono in rappresentanza dell'ispettore direttore professore Pereghi; dell'ispettore, ripeta: sono in rappresentanza…

- Dell'ispettore direttore professore Pereghi! - dissi.

Rifletté un momento e disse: - Guardi che lei non è cittadino privato, ma è pubblico ufficiale: è rappresentante dell'autorità scolastica - . Per i corridoi si diffuse subito la voce che io ero rappresentante del direttore. – Ma perché proprio lui rappresentante? – si lamentava Cipollone. – Proprio uno del coefficiente 202 ha scelto come rappresentante! – borbottava Bragaglia.

Aspettai che il feretro di Amiconi uscisse di casa; e siccome vi era poca gente, andai a chiamare Rino per far numero.

La gente si diradava lungo il viaggio fra una chiesa e l'altra. Le ultime persone rimaste se ne andarono all'imbocco del viale del cimitero. Dietro il carro eravamo io, Rino e la vedova.

Mi avvicinai alla donna e le porsi il biglietto di condoglianze del direttore ispettore.

- Dopo quarantasette anni di scuola! – disse la vedova guardandosi attorno. – Ha avuto migliaia di scolari! Diceva sempre: tutti i miei scolari sono persone per bene; ottimi cittadini sono, non uno che sia finito in prigione; non uno che si sia macchiato di colpe… Anche quelli che ho bocciato si ricordano di me con affetto. Sempre così diceva!.. E diceva: se ogni mio scolaro mi accompagnerà al cimitero ci vorrà la forza pubblica!.. E quando incontrava qualche suo scolaro ora uomo maturo, che lo riconosceva e lo salutava, sapesse come era felice! Vedi, mi diceva, il maestro è più di un padre… Ha dato tutto alla scuola, tutto ha dato… La sua vita l'ha passata fra correggere compiti e preparare lezioni… e diceva sempre: io ho due famiglie, la casa e la scuola! E rideva: sono un vizioso: ho due famiglie…

Il tempo era grigio umido; dai campi si alzava una diafana nebbiolina; camminavamo su di un tappeto di foglie gialle che coprivano la strada, e dava l'impressione di camminare come su di un cuscino. Sembrava che la natura avesse preparato quel tappeto di foglie, proprio per il collega Amiconi.

Dopo aver assistito alla sepoltura, Rino disse:

- Andiamo a trovare la mamma!

- Un'altra volta! – dissi.

- Andiamo, papà!

Siamo andati a trovare Ada. Era sepolta nel cimitero dei poveri: era ricoperta di terra la tomba, di terra bagnata… Saliva un odore da quella terra, un odore così penetrante che prendeva allo stomaco.

Rino era scoppiato a piangere. Io fissavo la foto di Ada… Aveva l'espressione ironica di quando era arrabbiata… anzi: mi parve che la bocca si movesse, che i suoi occhi assumessero l'espressione sarcastica… Rino seguitava a piangere, e lei seguitava a fissarmi con quell'aria di vittoria; con delle sfumature di compatimento.

“Sulla tua tomba non verrà certo a piangere”, sembrava che dicesse quella bocca, quegli occhi, quella puzza.

Rino seguitava a piangere. Pensai che io non sono mai andato a trovare mio padre; che non ho sofferto come soffersi per la morte di mia madre. “Certo, che Rino non verrà a piangere così!”, pensavo con rabbia; e lei da quella foto seguitava a ghignare. E la puzza diventava più rivoltante. Certo, che Rino doveva soffrire, se baciava quella terra.

Aveva la stessa faccia di quando mi diceva: “Ti disprezzo”, di quando mi diceva: “Maestrucolo”, di quando mi ha detto che Rino non è mio… La stessa espressione. E ancora ghigna, ancora ghigna, ancora è lì che ghigna. “Ada, finiscila”, dissi. E lei seguitava a ghignare con una soddisfatta aria di vittoria. Ancora ghigna, ancora…

“Finiscila, Ada!”

Rino seguitava a singhiozzare e lei era lì tronfia, ancora mi guardava con quel suo sorriso sarcastico. E la puzza aumentava ancora…

“Ada, piantala!.. Ti ho detto di piantarla… Ada, piantala…”

Ancora ghigna, ancora lì che ghigna. Con la stessa espressione di quando si comprava i bracciali d'oro e diceva che glieli avevo regalati io. “Sì, proprio”, disse lei.

Ho sentito bene. Ha detto proprio: “Sì, proprio”.

“Ti ho sempre tradito… Non è tuo…”

“Piantala, Ada…”

“… non è tuo, Rino”, disse con un ghigno feroce. Fissai il ritratto: - Rino, tu non sai chi sia stata tua madre, - dissi sputando sulla tomba.

Rino mi fissò. Vidi che Ada sorrideva con un'aria mesta. Lo sputo biancheggiava sul marrone della terra, una bollicina mi specchiava. “Non è niente”, sembrava dire il malinconico sorriso di Ada.

- Cos'hai fatto? – disse Rino.

Mi accorsi di essere in un cimitero. Che dai marmi, dalle croci veniva freddo ghiaccio: ero lì su una tomba. “Quello sputo l'ho fatto io”. Lo fissavo, e pensavo: “l'ho fatto io”. Guardavo ancora Ada. Ancora il suo sorriso mesto che si stava tramutando in ghigno.

- Cos'hai fatto! – disse Rino.

Dette un urlo e scappò. Rimasi solo davanti a quel ritratto, davanti a quello sputo, su quella terra che puzzava di corpo in decomposizione. “Ma che credevi?”, sembrava che mi dicesse Ada.

E attorno a me tutto silenzio, tutto freddo e io ancora lì che pensavo: sono qui, sono sveglio, sono vivo, ho sputato su una tomba.

Guardai per l'ultima volta Ada, che aveva ripreso a sorridere malinconica e mesta, e me ne andai pensando: “Ho fatto un'azione!”

Camminavo sul tappeto di foglie gialle a testa bassa mentre scendeva la sera e un pezzo di luna si affacciava fra le nuvole.

Alla svolta del viale, ecco che mi compare davanti l'ispettore. Doveva essere da tempo lì, a giudicare dall'umido che gli scendeva per il cappotto.

- Ha fatto la missione di rappresentanza?.. Come ha detto alla vedova?

Missione di rappresentanza! Avevo davanti a me una montagna di catrame. Il catrame si taglia col coltello, pensai.

- Ho detto che il signor Pereghi mi ha mandato al suo posto, - dissi, premeditato.

- Ha detto il signor… Ma io sono direttore professore ispettore! – ringhiò lui. – Ha detto davvero il signor…

Avevo bisogno di dimostrare a me che avevo ancora un po' di coraggio.

- Ho proprio detto il signor Pereghi… Mi sono dimenticato i titoli! – dissi deciso, sicuro.

Pereghi si appoggiò al muro. – Ah sì? Ha detto signor… E io che l'ho fatto mio rappresentante… Mombelli, ci vedremo alla visita scolastica… Ci vedremo col verbale… A me signor… a me…

Lo lasciai ancora appoggiato al muro, pensando:

“Quell'uomo soffre…”

Ma nella mia mente mi ballava davanti uno sputo su uno sfondo scuro. Respiravo la puzza: la emanavo io! (…)



(Brano tratto dal romanzo Il Maestro di Vigevano, Einaudi Editore, Torino,1962.)








Lucio Mastronardi
nacque a Vigevano nel 1930 e vi morì suicida nel 1979. Presso Einaudi pubblicò, oltre a Il Maestro di Vigevano, Il calzolaio di Vigevano, A casa tua ridono e altri racconti e Il meridionale di Vigevano.



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