LA DIVISA NON SI PROCESSA


Ascanio Celestini

 



Io sto fermo al semaforo nella mia auto. Arriva il negro che mi pulisce il vetro. Adesso esco e gli dò un calcio nelle palle. Anzi no, gli dò un euro e una pacca sulla spalla. Anzi no, gli dò un calcio nelle palle. Perché io sono quello che esce dalla macchina della polizia ferma all'autogrill lungo l'autostrada. Dall'altra parte della strada c'è una rissa. Forse è una rapina, forse no. Lo saprò dopo che era una robba tra tifosi. Intanto adesso io sono quello che tira fuori la pistola, forse non sono l'unico con la pistola in mano che esce dall'auto della polizia, o forse no. Forse non lo saprete mai. Io sono quello col braccio dritto che spara davanti a sé e vede che la rissa si placa. Poi lo saprò più tardi che è morto uno. Pure io ho visto il nome sul giornale scritto sotto alla fotografia. Se quello non moriva sul giornale non ci finiva e non ci trascinava nemmeno il mio nome accanto al suo. Adesso sarà più difficile scordarlo.

Scordare lui e scordare me. Anche perché io c'ho un nome buffo. Da ragazzino a scuola mi ci prendevano in giro. Forse è anche per questo motivo che ho indossato la divisa e preso la pistola in mano. Adesso prendetemi in giro. Come si dice? Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi. Adesso il santo è lui. Il martire. E io sono il fante.

Allora prendetemi in giro e scherzate con la mia divisa, ma il processo no. Non me lo farete il processo come fareste a lui se fosse stato quello che sparava a me. Perché la divisa non si processa.

Io sto fermo al semaforo nella mia auto. Arriva il negro che mi pulisce il vetro. Adesso esco e gli dò un calcio nelle palle. Anzi no, gli dò un euro e una pacca sulla spalla. Anzi no, gli dò un calcio nelle palle. Perché io sono quello accanto al guidatore nel Defender, il gippone. Ci hanno tenuto un sacco di tempo chiusi in caserma a raccontarci che questi teppisti avrebbero saccheggiato la città, ci avrebbero accolto con le bombe molotov, avrebbero lanciato gli aranci con le lamette, il sangue infettato. Ci hanno chiuso nelle camionette sotto il sole, poi mi sono trovato questo ragazzo con l'estintore in mano. E poi mi sono trovato in mano la pistola. Ma dove cazzo ce l'aveva l'estintore? Ma che è... Eta Beta che c'ha l'estintore in tasca? Mannaggia a questa città che manco mi piace!

Pure il pesto mi fa schifo di questo posto. Io sono calabrese, a me mi piace il peperoncino. 'Sto basilico coi pinoli è una pappetta per neonati. Mi dispiace che è morto, ma se lo doveva aspettare. Lo dicono pure i cowboy che «quando un uomo con il fucile incontra un uomo con la pistola... l'uomo con la pistola è un uomo morto». Ecco, fate conto che al posto del fucile ci sta la pistola mia e al posto della pistola ci sta l'estintore suo. Lo dicono pure i film che l'uomo con l'estintore soccombe.

Io sono finito sul giornale per un po'. Poi mi hanno mandato in pensione. Mo' mi chiamano per parlare ai convegni. Come quello che ha inventato la bomba atomica o la penicillina, quello che è stato sulla Luna o al Grande Fratello. Io sono quello che ha ammazzato il ragazzo di Genova. Sono diventato bravo a parlare, mo' mi sa che mi butto in politica. Però la commissione d'inchiesta no. Quella non si deve fare. Sarebbe un pessimo esempio per tutti i colleghi che non tirerebbero più fuori la pistola manco per spolverarla. Perché la divisa non si processa.

Io sto fermo al semaforo nella mia auto. Arriva il negro che mi pulisce il vetro. Adesso esco e gli dò un calcio nelle palle. Anzi no, gli dò un euro e una pacca sulla spalla. Anzi no, gli dò un calcio nelle palle. Perché io sono quell'americano con l'aeroplano che ha fatto tutto quel casino al Cermìs, o quell'altro che ha sparato a quell'italiano dei servizi segreti al posto di blocco. Ma se voglio posso essere anche peggiore. Sono quello che ti porta in guerra, che bombarda una scuola per motivi umanitari. Che per vendicare tremila americani morti l'11 settembre ha ammazzato trecentomila arabi. Che per ogni euro che regala ai paesi del Terzo Mondo se ne riprende indietro dieci per fargli pagare il debito. È una porcheria? Ma non importa, perché io sono lo Stato. E lo Stato non si processa. E poi tanto domani ti sei già dimenticato. Come con quel laziale che è morto sull'autostrada. Chi si ricorda più. Ne muore così tanta di gente sull'autostrada il sabato sera. Quello è morto domenica mattina, ma che cambia? Certo che ti rodeva il culo la settimana dopo quando sono saltate le partite del campionato. Cosa hai fatto senza il calcio? Te ne sei andato al cinema. Per non perdere l'abitudine ci sei andato con la sciarpa della tua squadra. Che palle il cinema! Sei andato a cena fuori? Che palle la pizzeria che manco si può fumare. Meglio un dvd a casa con la pizza nel cartone. Meno male che dopo una settimana si è ripreso a giocare. Tifosi da una parte e guardie da quell'altra, questa è la vera partita. Quella volta siete andati d'amore e d'accordo. Niente calci nelle palle, solo pacche sulle spalle.

Io sto fermo al semaforo nella mia auto. Arriva il negro che mi pulisce il vetro. Adesso gli dò un euro e una pacca sulla spalla. Dieci-cento-mille volte di seguito gli darò una pacca e un euro, poi una volta ogni tanto arriverà il momento del calcio nelle palle. Tanto per ricordare a tutti che il mondo non si divide tra buoni e cattivi, dove i buoni sono quelli che danno gli euro e le pacche, mentre i cattivi sono quelli dei calci nelle palle. Il mondo è un'automobile e chi sta dentro comanda, chi sta fuori lava il vetro. Chi sta dentro decide se dare calci o pacche sulle spalle, chi sta fuori può soltanto prenderle. E tornarsene a casa con le palle rotte o con gli euro nelle tasche. Per questo non serve essere sempre violenti. Basta picchiare una volta su mille per ricordare il concetto. I poveri erano così poveri che presero la loro fame, la misero in bottiglia e andarono a vendersela. Se la comprarono i ricchi. I ricchi che nella vita avevano mangiato tutto dal caviale ripieno all'ossobucodiculodicane allo spiedo e volevano conoscere anche il sapore della fame dei miseri. Per un po' quei poveri tirarono avanti, ma poi tornarono a essere poveri come prima. Allora imbottigliarono la loro sete e andarono a vendersela. Se la comprarono i ricchi che nella vita avevano bevuto tutto, dal Brunello al Tavernello ma non avevano ancora assaggiato la sete dei miseri.

Ancora un po' i poveri tirarono avanti, ma poco tempo più tardi tornarono nella povertà. Allora presero la loro rabbia la misero in bottiglia e andarono a vendersela. Se la comprarono i ricchi. I ricchi che nella vita si erano sentiti indispettiti, che avevano avuto un po' di rodimento di culo, ma la rabbia vera non l'avevano mai provata. Così se la comprarono dai poveri che ce n'avevano tanta. I poveri tirarono avanti, ma poi vendettero anche il loro pudore, la loro vergogna, il loro dolore. Imbottigliarono la commozione e l'insubordinazione, la violenza e il riscatto, la rivolta e la pietà.

Col tempo le cantine dei ricchi si riempirono di bottiglie. Accanto ai grandi vini d'annata collezionavano la fame dei sanculotti della rivoluzione e la rabbia dei braccianti che occupavano le terre del Meridione. Tra gli spumanti e gli champagne trovavano posto la pazzia dei pellagrosi nelle campagne o l'orgoglio dell'aristocrazia operaia che aveva difeso le fabbriche dai nazisti e s'era guadagnata i diritti nelle lotte sindacali. Tra i novelli e i passiti c'era il disgusto dei precari e dei senza casa o la determinazione dei zapatisti che marciarono verso città del Messico col passamontagna.

Dopo qualche generazione i poveri s'erano venduti tutto. I poveri diventarono così poveri che presero la loro povertà, la misero in bottiglia e andarono a vendersela. Se la comprarono i ricchi che volevano essere così tanto ricchi da possedere anche la miseria dei miseri. Quando i poveri restarono senza niente si armarono. E non di coltello e forchetta, ma di pistole e fucili perché la rivoluzione non è un pranzo di gala, la rivoluzione è un atto di violenza.

Marciarono verso il palazzo. Però quando arrivarono sotto il balcone del podestà si fermarono e rimasero zitti. Perché senza la rabbia e la fame, senza l'orgoglio e il disgusto, senza cultura e coscienza di classe non si fa la rivoluzione. Così il podestà scese in cantina, tornò con una bottiglia e la riconsegnò al popolo. C'era imbottigliata la libertà che avevano conquistato i loro nonni, ma che i padri s'erano già venduta da un pezzo. Potevano farci un inno o un partito, un circolo o una bandiera. La stapparono, ma non riuscirono a farci niente. Perché la libertà da sola non serve. Allora il podestà si cercò in tasca e trovò una scatola di caramelle alla menta. La consegnò al popolo. E da quel momento i poveri furono liberi.



(I due monologhi di Ascanio Celestini sono tratti dalla trasmissione televisiva Parla con me (Raitre) di Serena Dandlni. Il testo è stato pubblicato nell'antologia Italia underground , a cura di Angelo Mastrandrea, Sandro Teti editore, Roma, 2009).








Ascanio Celestini è nato a Roma nel 1972. In questi ultimi anni ha spe­rimentato i linguaggi del teatro, del cinema e della canzone. Parole sante , suo primo cd pubblicato nel 2007, segue il film documentario prodotto da Fandango, stesso anno e stesso titolo, incentrato sul mondo del lavoro e sullo sfruttamento dei precari dell'Atesia, il più grande call center ita­liano. Tra i suoi libri ricordiamo Scemo di guerra (Einaudi, 2005), La pe­cora nera (Eìnaudi, 2006), Cecafumo (Donzelli, 2002), Fabbrica , (Donzelli, 2003), Radio Clandestina (Donzelli, 2004).



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