LA FESTA DEL NEWROZ
- Brano del romanzo "La vita dentro" -
Silvia Agostini
C'era stato il Newroz, il capodanno curdo, la festa che più rappresenta questo popolo. Con l'entrata della primavera si festeggia il Newroz per ricordare la vittoria degli oppressi sugli oppressori. La leggenda narra infatti che un re-orco rende il popolo in schiavitù e miseria senza mai saziarsi della sua brama di ricchezza e potere. Un giorno infausto, il re pretende dai suoi sudditi i loro figli per cibarsene. Kawa, un umile fabbro del villaggio, è padre di un bambino che viene rapito dalle guardie per fare da banchetto alla tavola del re. Kawa si ribella al triste destino di suo figlio e decide di partire alla volta del castello in cerca del tiranno per ucciderlo. Il popolo tutto allora si rianima e trova il coraggio di reagire. Il castello viene bruciato con il re dentro, il fuoco ha ridato la vita e la libertà. Il popolo è finalmente libero dalla tirannia.
In onore di Kawa e della libertà ogni anno i curdi festeggiano il Newroz. Si mangia, si beve, si balla intorno al fuoco, come tutte le feste all'origine del mondo, nella speranza che questo popolo possa vincere ancora sulla tirannia.
I primi anni in cui Chiara partecipò a questa festa, ebbe la sensazione di essere parte di una comunità solidale. Ballando in cerchio tutti insieme per mano, pensava di partecipare ad un rito ancestrale che solo alcuni popoli avevano conservato.
Quest'anno il Newroz era diverso, forse perché non c'era il suo Cemil, tuttora agli arresti, ma in lei rimaneva grande la voglia di parteciparvi.
Della festa, anticipata di qualche giorno, aveva saputo per caso da un tipo che non le andava molto a genio, perciò rispose seccamente che aveva da fare e non sarebbe andata. Lui sarebbe andato lì con la figlia di Alise, l'amica che le aveva tenuto tanta compagnia.
I primi tempi, quando Cemil era stato appena arrestato, Chiara andava tutti i giorni nel suo negozio di kebab e Alise l'accoglieva dolcemente, offrendole un tè e insegnandole ad "aprire il pane", come diceva lei, cioè ad ottenere da un impasto di farina, sale e acqua, una grande sfoglia rotonda, sottile e morbida, che poi veniva arrotolata con dentro carne, insalata e i vari condimenti di uno squisito kebab.
Nel programma dei festeggiamenti in corso quella sera ad Ararat, la sede della comunità curda di Roma, era di scena anche G ü l, la figlia di Alise. Avrebbe preso parte ad un piccolo spettacolo teatrale fatto in casa, che riproponeva un'antica storia del popolo mesopotamico.
Il tipo che non le piaceva andò via con G ü l e Chiara rimase con Alise al negozio, dove si era recata per salutarla. Parlando della festa del Newroz decisero di trovare il modo di andare anche loro: lei e Alise insieme sarebbero state di sicuro bene, avrebbero ballato, si sarebbero divertite.
Chiara non era pienamente convinta di andare. Sapeva che avrebbe visto delle persone che non le andavano a genio, uno in particolare, quel ragazzo che aveva lasciato per amore di Cemil, ma propose comunque ad Alise di andare con Kamal. Lui faceva l'ambulante al Testaccio, un luogo di Roma affollato da discoteche e da curdi. Nel suo furgoncino vendeva panini con il kebab a partire dalle tre della mattina, quando tutta la folla di nottambuli affamati usciva dai locali.
All'ora di pranzo Chiara lasciò Alise con la promessa di richiamarla nel pomeriggio. Era contenta. Più passava il tempo più pensava che le sarebbe piaciuto andare al Newroz. Per una volta quest'anno avrebbe respirato aria di festa, avrebbe ballato le danze tradizionali che tanto amava. Di certo la preoccupava incontrare gli sguardi di alcune persone che non vedeva da tempo e con le quali dopo l'arresto di Cemil non aveva più avuto contatti, ma era emozionata al pensiero della festa, di quella festa speciale.
Iniziò a lavorare al Master con molto entusiasmo. Doveva completare un lavoro da consegnare entro breve e lo fece. Si era iscritta a questo corso post-laurea senza pensarci troppo e dopo le primissime incertezze aveva trovato stimolante, come sempre, riprendere a studiare.
Quando furono le cinque del pomeriggio telefonò a Kamal. Sulle prime non si dimostrò molto entusiasta di accompagnarle a Roma. Voleva partire subito e le disse che non sarebbe tornato prima delle sette del giorno dopo, forse per scoraggiarla, pensò Chiara maliziosamente. Ma poi, quando gli spiegò che per una volta voleva distrarsi un po' e ballare, Kamal cercò di fare del tutto per aiutarla.
Capì quanta distanza ci fosse fra lei e i suoi vecchi amici quando chiamò Mesut per sapere se tornava a casa la sera della festa e se poteva riaccompagnarla. Non lo voleva chiamare ma lo fece perché la voglia di partecipare al Newroz era più forte di ogni altro ritegno. Lui le dette forfait, prima perché non sapeva, non era sicuro di cosa avrebbe fatto a fine festa, poi richiamò dicendole che aveva deciso di passare la notte da un amico a Roma. Era il segnale iniziale di un disagio che alla festa ebbe modo di verificare dal vivo.
Verso le sette andò da Alise al negozio. Le aveva già detto al telefono che non sarebbe andata con lei perché, sosteneva, sarebbe stato più giusto che andasse il marito al posto suo. "Io non vado", le disse, "devo lavorare". Ma come, ci risiamo? pensò Chiara. Quando Alise faceva così la deludeva molto, si sottometteva alle decisioni del marito senza il coraggio o la voglia di reagire. Tutti l'avevano delusa...ancora una volta l'avevano lasciata sola.
Non voleva disfarsi del suo rancore grazie al pensiero ipocrita che i suoi amici erano diversi, di un'altra cultura, stranieri ed estranei alla sua. Erano persone come lei e forse ingenuamente preferiva essere arrabbiata con loro, senza trovargli delle giustificazioni. Magari ci avrebbe riflettuto meglio durante una formazione per mediatori culturali e avrebbe annuito più volte quando il formatore spiegava le differenze fra culture, il trattamento maschilista e razzista riservato alle donne di certi paesi, vittime di ogni genere di soprusi, di mutilazioni genitali e spesso sottomesse al volere del marito. Si sarebbe inoltre interrogata sul valore della cosidetta libertà femminile occidentale e, di conseguienza, sulla differenza fra le due forme di schiavitù, quella della donna con il velo e quella della donna nuda sulla copertina di una famosa rivista di moda.
Ma in quel momento l'amicizia era l'amicizia. Un valore universalmente riconosciuto, anzi, sentito come il più importante. Non c'era altro e comunque non sarebbe dovuto esserci altro ostacolo a ciò.
Stava tornando a casa sconsolata e triste quando entrò nel negozio di Alise un ragazzo afgano che conosceva appena e di cui non ricordava il nome. Parlarono del Newroz, gli chiese se ci sarebbe andato e lui le rispose che sarebbe partito di lì a poco con il motorino. Chiara pensò fosse impazzito. Non era possibile arrivare a Roma con quel mezzo, da così lontano. Le venne in mente che entrambi volevano andare alla festa curda e allora perché non andare insieme con la sua macchina?
Pensò che in barba a tutti quelli che l'avevano tradita sarebbe comunque riuscita ad festeggiare il Newroz.
Partirono, lei e il giovane ragazzo afgano, il quale non smise mai di parlare durante tutto il viaggio. Le raccontò la sua vita, le disse di come era arrivato in Italia e perché. Una storia drammatica, pensò Chiara, nonostante non potesse stabilire se fosse vera. Aveva perso la famiglia una sera a cena, mentre erano tutti intorno al tavolo. Un commando di paramilitari aveva fatto irruzione in casa sparando all'impazzata sui commensali. Solo lui era riuscito a sopravvivere fingendosi morto. Gli uomini che avevano ucciso la sua famiglia si volevano impadronire della terra e del bestiame del padre, questa era la versione del ragazzo che all'epoca aveva solo 10 anni e raccontava di un paese messo a ferro e fuoco da milizie di tutti i generi, non solo talebane, in un'anarchia totale.
Arrivati a Roma si divisero quasi subito. Il giovane ragazzo al quale aveva fatto da autista e da terapeuta sembrava ora non desiderare più la sua compagnia.
Chiara chiamò Kamal per avvisarlo che era lì. Lui la raggiunse e insieme seguirono la rappresentazione di un ballo tradizionale curdo in un'angusta stanzetta del Villaggio Globale al Testaccio. Dopo poco Kamal ricevette una chiamata e se ne andò dicendo che sarebbe tornato presto. Chiara non se ne preoccupò più di tanto. Voleva stare sola e sentirsi indipendente. Che facesse pure i suoi comodi, per lei era uguale.
Non lo vide più. Lei intanto girava, stava da una parte e ascoltava la musica, poi rientrava in un'altra stanza dove c'erano gruppi di persone intenti a mangiare e a chiacchierare allegramente. Erano insieme, affiatati, mentre Chiara era l'unica a sentirsi così sola e agli occhi degli altri poteva sembrare un po' spaesata. Stavolta era lei forestiera.
Chi non voleva incontrare lo trovò lì, dall'altra parte della stanza. La guardava sorpreso, seduto a capo di un lungo tavolo pieno di ragazze, senz'altro italiane. Non le andava di rimanere davanti ai suoi occhi, di lasciargli il tempo anche per un solo pensiero malizioso, così tornò nella stanzetta.
Era assurda questa idea e si sentiva stupida per l'imbarazzo che aveva appena provato. Non era fuori posto, non lo sarebbe mai stata finché la fiducia in se stessa, nella sua presenza fisica e psichica in questo mondo le avrebbe dato quella dose di indipendenza che basta a non sentirsi di troppo, a non sentirsi soli quando si è in mezzo agli altri, quando non ci si confonde con il gruppo.
Ogni tanto incontrava qualcuno: Mesut che si giustificava perché le aveva dato forfait, G ü l la bambina attrice che non voleva tornare a casa con lei mentre Alise si era raccomandata di riportargliela la sera stessa, G ü lizar che la salutava da lontano senza darle molta confidenza, sebbene fossero state amiche, almeno un tempo. Altri la guardavano male o forse erano solo fantasie, era la percezione che aveva di sé. In fondo però non le interessava e questa era la cosa più importante. Continuava a girovagare e sentiva che non aveva bisogno di parlare con qualcuno solo per non correre il rischio di rimanere sola. Poteva andarsene quando voleva. Era libera, indipendente, forte e fiera di sé. Nessuno poteva abbatterla o farle male. L'unica cosa che le dispiaceva era notare la mancanza di quella solidarietà di cui aveva fatto esperienza tempo addietro, un pensiero ingenuo il suo, come se l'essere solidali fosse insito in tutti gli stranieri. Chissà, si disse, magari alla fine ognuno pensa a sé, da qualsiasi luogo della terra provenga.
Finalmente, prestissimo quell'anno, arrivarono i fuochi. Tutti uscirono da quel posto stretto e asfissiante. Forse ballerò, trepidò.
Decise di uscire verso il piazzale del Testaccio per prendere una boccata d'aria. Si sentiva soffocare, bloccata e intercettata dagli sguardi dei conoscenti.
All'uscita di Ararat incontrò Azad, finalmente qualcuno che l'accolse con un bel sorriso aperto e sincero. Le parlava di Cemil, le diceva che gli voleva bene, che gli mancava tanto e che era molto dispiaciuto per l'ingiustizia che gli era capitata. Cemil era per lui come un fratello maggiore che l'aveva accolto nella sua casa nel momento del bisogno, che lo aveva ospitato per mesi senza pretendere nulla in cambio. Era assurdo che capitasse proprio a lui di essere rinchiuso in un carcere per motivi che ancora non erano stati accertati, solo perché era straniero. Era proprio una situazione drammatica, che nessuno voleva e poteva ribaltare. Azad e Chiara si sentivano così impotenti che mentre ne parlavano non trovavano le parole per proseguire, per esprimere il loro dolore o anche il semplice disgusto verso un sistema che si autodefiniva democratico e garantista ma che di fatto lo era solo nei confronti di alcuni cittadini, italiani e abbienti.
Lei gli propose di rientrare a ballare. Insieme sarebbero stati forti, pensava. Magicamente ricomparve anche Kamal. Lui coinvolse gli altri nel ballo. Si presero per il dito, intrecciando i mignoli l'uno con l'altro per formare un circolo intorno al fuoco. Fecero una fila di circa dieci persone e si unirono agli altri in un girotondo di voci e sorrisi allegri. Ogni tanto qualcuno intonava una canzone e il coro dei girotondi seguiva a ruota.
Ballarono molto, il fiato le mancava, non era più abituata. Ad un certo punto le avevano dato il compito di condurre la fila, cosa che non aveva mai fatto. Doveva tenere un fazzoletto in mano e sventolarlo mentre batteva il passo per dare inizio alla danza. Gli altri la seguivano nei passi. Che emozione! Era un incredibile riconoscimento per una donna, le veniva da pensare.
Aveva preso il ritmo e un po' le dispiacque lasciare il ballo ma non ce la faceva più. Incontrò un compagno con il quale lavorava e parlarono un po'. Si avvicinò un'altra ragazza che conosceva, li presentò. I due entrarono subito in confidenza. Chiara li salutò e li lasciò discorrere. Voleva girare, cercare la sua indipendenza. Non le andava di rimanere lì a sentirli parlare come qualcuno davanti alla televisione. Nel pomeriggio al negozio di Alise aveva deciso che non voleva più stare impalata a guardare, aspettando che un'amica si decidesse a darle considerazione. Non le interessava. Aveva la sua strada da fare.
Poco più in là c'era Welat, era come se lo sapesse. Rimase a parlare con lui a lungo e finalmente sentì di aver trovato una persona seria con cui conversare, un amico. Scherzarono sul ballo, Welat non ballava mai a queste feste e Chiara lo provocava dicendogli di buttarsi nella mischia.
Parlarono della sua vita, del suo lavoro. Viveva da solo, aveva una ditta da due settimane e stava chiedendo la cittadinanza italiana. Ancora non aveva una compagna ma non sembrava troppo preoccupato. Era un tipo chiuso, introverso, un bel tipo. Una persona intelligente e riflessiva con la quale le era sempre piaciuto parlare. Si capivano, sembravano sintonizzati sulla stessa lunghezza d'onda, forse perché Welat era diverso dagli altri. Manteneva le caratteristiche di ospitalità e generosità della sua gente e inoltre aveva la mente aperta, tratto tipico di chi ha fatto molte esperienze nella vita e le ha interiorizzate.
Parlarono della scuola che Chiara voleva fare per diventare insegnante. Lui le disse che in Turchia si insegna subito dopo l'università. "E' vero", rispose lei, "in Italia sarà così forse con la prossima legge.".
Lo trovò molto bene. Quando scherzarono a proposito dell'enorme fuoco che ora stava invadendo il cielo, risero al pensiero di finire arrostiti come quei kebab che avevano mangiato poco prima per cena. Chiara gli propose provocatoriamente di saltare il fuoco, così come voleva la tradizione, che vedeva i più giovani, a ballo concluso, levarsi in alto al di sopra del fuoco, scavalcandolo. Welat rispose che aveva ancora molte cose da fare nella vita e non voleva rischiare di privarsene.
Nel frattempo era arrivato Azad. Era ora di rincasare. Chiara raccolse la figlia di Alise che già da un pezzo ciondolava dalla stanchezza e insieme al padre ed un'altra ragazza si diressero verso la sua macchina, che li avrebbe riportati a casa. Salutarono Azad e Welat già in partenza.
Le dispiacque molto distogliere lo sguardo da chi era riuscito, anche solo per qualche minuto, a darle il calore di quel fuoco e di quella gente così come l'aveva conosciuta. Si sentì rasserenata: tutto sommato aveva assaporato il lato peggiore e quello migliore dell'umanità.
Silvia Agostini nasce a Roma nel 1971. Durante i primi anni di università, tra il 1990 e il 1991, inizia ad annotare e raccogliere pensieri e poesie su un diario che poi distruggerà. Infatti, dal Natale del 1995 e nei successivi cinque anni, la vita dell'autrice sarà caratterizzata dallo "star male di testa". Grazie all'incontro propizio con il Dott. Anepeta, suo analista e psicoterapeuta, inizia un percorso di crescita psicologica e
interiore, riuscendo così a rivalutare se stessa e a scoprire che la scrittura è parte integrante della sua vita.
Dopo la laurea in lingue e letterature straniere moderne, diversi anni di volontariato come insegnante di italiano per migranti e rifugiati politici, consegue il Master in Mediazione Culturale all'Università Roma Tre e, trasferitasi a Viterbo, lavora come operatrice per l'integrazione di rifugiati politici.
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