IN TRASFERIMENTO, 7 NOVEMBRE 1980
Valerio Morucci
"Pensavo di dirti come stanno le cose. Ti sei fatto
un nome in questi posti da mocciosi dove sei capitato.
Ma questo non è un posto da mocciosi. Questa è una prigione.
Prova soltanto a fare qualche cazzata qui, e ti cadrà il mondo
addosso,
ci puoi scommettere. Ti farò scoppiare il cervello a suon di calci. Capito?"
"Sì, signore" dissi. "Voglio scontare la mia pena e uscire di qui il
prima possibile".
Le mie parole erano vere, ma ero risentito per quella minaccia.
(Edward Bunker, Educazione di una canaglia)
(...) Possono esserci eccezioni alla regola che in carcere non comandi il direttore ma il maresciallo. Nei carceri "tranquilli" i due possono trovare un accordo sulla gestione. Finché il carcere rimane "tranquillo". In quelli turbolenti con soggetti a rischio poteva avvenire nel caso che il direttore, anziché comportarsi da "civile", in tutti i suoi significati, assumesse direttamente un ruolo "militare". Cioè di contenimento e contrapposizione con i detenuti. Uno di questi era il direttore dell'Asinara, dove erano detenuti i "capi storici" delle BR. Per legge di compensazione nell'uso della forza, poteva avvenire che in quei casi fosse il maresciallo ad "ammorbidirsi". Ma questo era ancora più raro. E non era il caso dell'Asinara.
Lì era il direttore a essersi assunto il compito di fare da tramite con le richieste dell'Antiterrorismo di Dalla Chiesa. Così, oltre a portare ogni tanto qualche detenuto a fare passeggiate serali sull'orlo di un dirupo, chiedendogli se per caso non volesse saltare di sotto, aveva anche piazzato dei microfoni nelle celle. Cosa alquanto illegale, ma se c'è emergenza non si va tanto per il sottile. L'idea balzana era quella che i "capi storici" delle BR lì rinchiusi avessero le mani in pasta nella gestione dell'organizzazione. Gli uomini dell'Antiterrorismo erano alle prime battute del contrasto con BR ed è comprensibile la cantonata. All'inizio erano andati giù con mano pesante, uccidendo Mara Cagol dopo la sparatoria alla cascina Spiotta, e provando a uccidere Giorgio Semeria in piena Stazione centrale di Milano dopo averlo arrestato. Poi avevano capito che era una battaglia di più lungo periodo e iniziato a studiare in modo approfondito l'avversario. Ma l'abitudine, e i preconcetti accumulati nei passati compiti, potevano portarli a semplificare le cose e a contrastare le BR come fossero una qualsiasi organizzazione criminale, i cui capi erano in grado di continuare a tenere le fila anche dal carcere. Almeno finché le mutate circostanze o qualche recalcitrante sottoposto non li tagliasse fuori.
Ma un conto è gestire "affari" e un altro la Rivoluzione. Anche se alle BR già a quel punto non fregava poi molto di verificare passo per passo la crescita di "coscienza rivoluzionaria" della classe operaia - avendo già intrapreso in suo nome una lotta con lo Stato per il Potere - valeva la regola statutaria secondo la quale chi veniva arrestato era escluso dalla catena di comando. Per l'impossibilità di "avere il polso" del mutare delle condizioni, ma soprattutto perché da prigioniero era sotto il controllo diretto del nemico. Situazione non ideale per condurre una lotta clandestina.
E così il direttore dell'Asinara, oltre a tutto il resto, fece piazzare quei microfoni. Il resto erano le già dette passeggiate serali su un dirupo con invito al suicidio, il pestaggio per la rivolta del '78 quando i detenuti distrussero la sala colloqui coi vetri blindati. Tutti e settanta pestati con uno, Horst Fantazzini, finito in coma per le botte alla testa e ricoverato clandestinamente all'ospedale di Sassari. E poi, nella normalità, le regole interne del "suo" carcere. Si poteva mangiare soltanto la "sbobba della casanza". Non si poteva acquistare nulla né tanto meno cucinare. E i viveri che arrivavano dall'esterno con i pacchi erano sequestrati. L'aria per i detenuti era di un'ora al giorno, in spicchi di una ventina di minuti. Per i familiari che arrivavano per i colloqui, già rari vista la lontananza dell'isola e i costi, poteva succedere che neanche li facesse sbarcare. Su quell'isola, che si era guadagnata il nome di Cajenna del Mediterraneo, la Legge , o la non Legge, era lui.
L'illegalità è però una brutta bestia. Una scimmia sulla spalla come l'eroina. Una volta varcata la soglia ci si può poi confondere nel distinguere quella "buona" da quella "cattiva". Così quel direttore dell'Asinara, pur così intransigente con i criminali, finirà poi condannato per peculato e truffa ai danni dello Stato. Per aver lucrato in modo fraudolento sui lavori di ristrutturazione conseguenti alla rivolta del '79. Assieme alla moglie. Perché lui era il vicerè dell'isola, e in quelle condizioni di lontananza e di piena delega di poteri è normale che il privato travalichi nel pubblico. Ed è normale che, data la già scarsa trasparenza del carcere accentuata dal mare che c'era di mezzo, ci si potesse sentire onnipotenti. Al di sopra degli uomini e della Legge. Ai detenuti era solito dire: "Qui ci siamo solo io, le guardie e i gabbiani, che non parlano". L'intraprendente maresciallo di Cuneo, quello che si sentiva sprecato a fare il guardia-porte, finirà invece invischiato anni dopo, assieme a un suo vecchio amico dell'Antiterrorismo, in una brutta storia di estorsione ai danni della famiglia di un sequestrato. Chi custodisce i custodi? (...).
(Brano tratto dal libro "Patrie Galere - cronache dall'oltrelegge" - Valerio Morucci - Adriano Salani Editore, Milano, 2008.)
Valerio Morucci,
(Roma, 22 luglio 1949 ) è uno scrittore e un ex militante nelle Brigate Rosse.
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