PARTORIRE EDUCAZIONE INDIGENA
Loretta Emiri
Dedico questo brano alle donne indigene brasiliane
che partoriscono idee oltre che figli.
Taurepang
Il viaggio, di cui l'attesa fa parte, è un'esperienza tra le più affascinanti. Mi piace arrivare con molto anticipo sull'orario di partenza. Mentre aspetto, faccio igiene mentale. Elimino pensieri legati al passato prossimo per fare spazio a quelli che con il cambiamento arriveranno. Mi trovavo nella stazione dei pullman di Boa Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima. Ero riuscita a vendere la casetta in riva al fiume, la quale aveva continuato a regalarmi la sensazione di essere fisicamente legata al Brasile pur vivendo in Italia da due anni. Un senso greve d'addio pesava su quella partenza. Per non guardarmi dentro, presi ad osservare ciò che stava accadendo intorno a me; per non farli riempire di lacrime, poggiai gli occhi su persone, bagagli e il loro andirivieni.
In regioni sperdute come Roraima, possiamo veder caricare di tutto sui pullman: lattine d'olio e sacchi di zucchero, combustibile e pezzi di ricambio, utensili tra i più svariati e animali domestici. Ero circondata da persone e merci, essendo ormai vicina l'ora della partenza, quando vidi arrivare un'insegnante Taurepang di cui ero amica. Mi avvicinai, ci salutammo e iniziammo a chiacchierare. Avremmo preso lo stesso pullman: lei per scendere un po' prima del confine; io per raggiungere Santa Elena, cittadina venezuelana di frontiera. Contrariamente al solito, non sfoggiava il suo dolce sorriso. Mi raccontò che il figlio, un giovanotto ormai, da mesi era malato. Lo aveva seguito da un ospedale all'altro per assisterlo e fargli compagnia, sino a lasciarlo nella lontanissima Manaus. Stanca, e preoccupata dato che i medici non erano ancora riusciti a capire cosa il ragazzo avesse, stava tornando al suo villaggio per riprendere il lavoro di maestra.
In Venezuela li chiamano Pemon e sono circa millenovecento. Distribuiti in tre villaggi, e tenendo conto di alcune famiglie che vivono isolate, in Brasile i Taurepang non arrivano a duecentocinquanta individui. Sono sempre stati mediatori commerciali; ancor oggi, ad esempio, acquistano grattugie per manioca dai Mayongong e le rivendono ai Macuxi. Situati in piena foresta, i tre villaggi conoscono l'abbondanza; i prodotti eccedenti sono venduti in Santa Elena e nella cittadina brasiliana sviluppatasi a ridosso della frontiera, o in luoghi più interni dei due paesi quando i trasporti lo permettono. Anche se è considerato Taurepang, uno dei villaggi ospita individui Macuxi e Wapichana; la loro presenza ha modificato le relazioni di potere al punto che, negli ultimi anni, esponenti delle tre società si sono avvicendati nel ruolo di capovillaggio; a complicare la situazione si aggiunge il fatto che Macuxi e Wapichana sono cattolici, mentre i padroni di casa, come del resto tutti i Taurepang che abitano in Brasile, sono protestanti della Chiesa Avventista del Settimo Giorno.
Divenendo avventisti, i Taurepang hanno dovuto modificare alquanto il loro modo di vivere. Ad esempio, non consumano bevande alcoliche, non mangiano la carne di certi animali né pesci senza squame; grande parte del loro universo simbolico è entrato in crisi; persino lo scamanismo è proibito. Il culto è realizzato quasi giornalmente ed è diretto dal capovillaggio che, oltre al potere politico, esercita così anche quello religioso. Nonostante tutto, persistono la mitologia relativa alla foresta, certe paure culturali, le regole che padre e madre rispettano nel periodo del parto. Forse grazie alla necessità di comunicare con i parenti che abitano in Venezuela, i Taurepang mantengono viva anche la lingua. Ma il fenomeno secondo me più interessate è il loro profondo coinvolgimento nelle lotte intraprese dagli indios di Roraima per difendere terre e diritti. Al contrario di quei Macuxi e Wapichana che, evangelizzati da sette protestanti, si astengono dal partecipare a manifestazioni e rivendicazioni politiche, leader Taurepang sono sempre presenti in riunioni, corsi e incontri; così che contribuiscono attivamente alla crescita e consolidamento dell'organizzazione indigena.
Quando arrivò l'ora di accomodarsi in pullman, si scoprì che erano stati venduti più biglietti del dovuto. Il corridoio venne ostruito da una massa irata di passeggeri che litigavano fra di loro e con il controllore. Mi avrebbe fatto piacere portare avanti il nostro dialogo, ma non riuscii a sedere accanto ad Úrsula Taurepang. Durante il viaggio continuai a pensare a noi due e ai momenti vissuti insieme. Lo sguardo interiore si posò dapprima sulle situazioni personali; l'immagine di lei preoccupata come mamma, e la mia che mestamente lasciava il Brasile, mi provocarono un senso di disagio, un principio di autocommiserazione. Poi emerse il ricordo della dimensione sociale delle esperienze vissute insieme. Úrsula faceva parte di un gruppo di persone che avevano aderito fedelmente ad alcune iniziative imprimendo loro il valore della continuità. Nelle diverse situazioni l'avevo sempre vista sorridente, entusiasta del suo lavoro. Durante il primo corso realizzato in seno a un progetto di formazione dei maestri indigeni di Roraima era stato prodotto un libro in forma collettiva; significativamente, è suo il nome che apre la lista dei coautori. Era stata tra i primi indigeni a praticare l'insegnamento bilingue, con il risultato che le sue sperimentazioni si erano trasformate in stimolo e riferimento per altri maestri e per gli specialisti in materia. La firma dell'insegnante Taurepang fa bella mostra di sé in calce a documenti prodotti durante incontri statali e della regione amazzonica; le rivendicazioni e i suggerimenti in essi contenuti erano stati incorporati a leggi, e avevano contribuito a far sì che il governo ripensasse le sue relazioni con i popoli indigeni.
Quando vidi Úrsula prepararsi per scendere, avevo già messo in ordine i ricordi dando loro una disposizione più organica. Passandomi accanto si fermò per salutarmi. L'abbracciai e sentii
che il nostro non era un addio. Avevamo lavorato per abbattere ostacoli e aprire un sentiero attraverso cui l'educazione indigena passasse. Nessun problema personale, nessun viaggio ci avrebbe allontanate da quel dato di fatto.
Waiwai
La funzione di direttore del Centro di Artigianato rientrava nella categoria definita "incarico di fiducia", e veniva attribuita a chi se ne fosse servito per ottenere risultati elettorali. Idoneità e competenza non erano requisiti richiesti. Ad eccezione di un funzionario che venne subito rimosso dall'incarico, nessuno di coloro che vidi alternarsi nella gestione del centro si preoccupò di sviluppare una politica per il settore; tantomeno dimostrò un minimo di serietà in relazione alla produzione indigena.
Correndo dietro alle false promesse dei politici, a ondate successive erano giunti in Roraima contingenti di poveri e diseredati provenienti da tutto il Brasile. La maggior parte degli oggetti esposti nel Centro di Artigianato denunciava il progressivo deterioramento dei valori etici e culturali degli emigranti. La manipolazione capitalista in atto stava facendo sì che un artigianato banale e omologato prendesse il posto di quelle che erano state arti regionali. Quanto agli indios, era chiesto loro di modificare, ad esempio, le dimensioni di alcuni oggetti o sopprimere parti di essi, così da facilitare il trasporto agli acquirenti. Ci fu un'epoca in cui la direttrice di turno utilizzava il centro per promuovere la sua produzione personale; e si serviva di cesti indigeni come basi di appoggio per bamboccetti e utensili in miniatura che riproducevano scene di vita quotidiana.
Nonostante queste premesse, a volte e del tutto casualmente, tra la chincaglieria esposta era possibile scovare pezzi indigeni originali, che in ogni loro particolare rispettavano e riproponevano materiali, tecniche e parametri artistici del gruppo etnico cui l'autore apparteneva. Quando l'occasione mi si presentava non me la facevo proprio scappare. Mettevo quegli oggetti al sicuro a casa mia, dove abbellivano spoglie pareti o sostavano in attesa di essere donati. In occasione di viaggi al sud del Brasile o in Italia, infatti, cosa di meglio offrire ad amici e conoscenti se non manufatti indigeni?
Scarsissime erano le notizie relative ai Waiwai che circolavano in Roraima. Comunque si sapeva che producevano un fine artigianato; che impiegavano molti giorni, addirittura settimane, per realizzarlo; che le donne si specializzavano nella lavorazione della ceramica e nella produzione di ornamenti con semi e perline; che nei raffinati cesti da loro eseguiti gli uomini includevano disegni stilizzati di animali o di altri elementi della natura. Delle otto società indigene ancora rappresentate in Roraima, dal mio punto di vista, era la Waiwai a produrre i manufatti più sofisticati.
Durante una ricognizione al Centro di Artigianato ebbi la fortuna di imbattermi in materiale appena giunto dall'area Waiwai. Mi portai a casa i pezzi più finemente lavorati, che erano: un cesto-setaccio, piatto e rotondo, con disegni di animali; un cestino cilindrico realizzato a partire da una base quadrata, abbellito con disegni geometrici e mazzetti di penne multicolori; un cesto-contenitore di forma parallelepipeda, anch'esso impreziosito da intrecci geometrici e penne variopinte, e composto da due volumi dei quali uno si sovrappone completamente all'altro e funge da coperchio. Inoltre feci incetta di pettini, piccoli oggetti che sintetizzano mirabilmente la grande arte Waiwai.
Il pettine ha forma rettangoloide. I denti sono costituiti da sottili e appuntite asticelle di legno legate ad un asse, che è di legno a sua volta. Formato da due sezioni unite con filo di cotone bianco avvolto simmetricamente, e guarnito alle estremità con ciuffetti di piume di ara, l'asse delimita il punto in cui i denti spariscono sotto un compatto e levigato intreccio di fibre vegetali dando origine all'impugnatura del pettine. Le fibre sono bicolori e vengono lavorate in modo da riprodurre disegni geometrici. L'impugnatura è inserita dentro un osso tagliato longitudinalmente, che diviene il dorso del pettine. Le estremità dell'osso, non tagliate e più lunghe rispetto all'impugnatura, sono anch'esse guarnite con piccoli ciuffi di piume di pappagallo. Due cordicelle legano le estremità dell'asse di legno al dorso di osso, con il risultato di rendere compatto e robusto l'oggetto. Le tecniche seguite e i materiali usati sono gli stessi, ma non ci sono pettini uguali fra di loro. La creatività degli autori si manifesta soprattutto nelle infinite varianti dei disegni geometrici. Affermazioni di identità personali all'interno di un'appartenenza sociale, su me quei disegni esercitavano un grande fascino, una forte attrazione.
Partecipai a un incontro statale di maestri indigeni. Ad eccezione di un'insegnante Taurepang, erano tutti Macuxi e Wapichana. Per la prima volta nella storia di questo tipo di eventi, era rappresentato anche il popolo Waiwai, nella persona di una giovane donna che stava a sua volta preparandosi per divenire maestra. Me la presentò un bianco che insegnava nell'unica scuola amministrata dallo stato di Roraima in area Waiwai. Non riuscimmo a dirci molte cose perché io non parlavo la sua lingua e lei conosceva ancora poco il portoghese, ma l'empatia si manifestò ugualmente. Un bel sorriso illuminava il volto della donna. Lunghissimi, neri e lucenti erano i suoi capelli. Mi tornarono in mente i tanti pettini che nel corso degli anni avevo comprato, ammirato, regalato. Nell'intimo formulai la speranza che i Waiwai seguitassero ad affermare la propria identità sociale pur facendo politicamente parte del Brasile, che continuassero a esprimere la loro creatività anche attraverso la scuola.
(I brani "Taurepang" e "Waiwai" sono capitoli del libro inedito Amazzone in tempo reale. Riuniti sotto il titolo "Partorire Educazione Indigena", e tradotti in spagnolo, sono stati pubblicati in Sin carne, a cura di Mercedes Arriaga Flórez, Università di Siviglia, 2004.)
Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português e il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver . In italiano ha scritto Amazzonia portatile , e gli inediti Amazzone in tempo reale , Quando le amazzoni diventano nonne . È membro del CISAI - Centro Interdipartimentale di Studi sull'America Indigena dell'Università di Siena.
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