NHÔ CHIC'ANA

- Brano tratto dal romanzo Chiquinho -

Baltasar Lopes



(...) Fu Pimpinha a portare la notizia. Ero seduto nella saletta, subi­to dopo pranzo, a sentire nonna che stava raccontando un fatto successo a Mono Morial. Pimpinha arrivò tutta sottosopra, con la camicetta a quadretti attillata, e non disse neanche buongior­no: Nhô Chic'Ana era morto. Nonna iniziò subito un accenno di lamento funebre. Raccomandò Chic'Ana alla devozione di san Michele Arcangelo, che guidasse i suoi passi fino alle porte del paradiso. Uscii fuori un momento. Gettai un'occhiata intorno, fin dove me lo permetteva la vista. Campi secchi, dominati dal grigio, la vegetazione rada della carestia. Tornai nella saletta. Nonna continuava a pregare le stazioni del Calvario del Santo Figlio di Dio. Pimpinha, appoggiata alla porta d'ingresso, lan­ciava occhiate curiose ai ritratti appesi nella stanza.

Nonna mandò qualcuno a casa del morto. Che Dio recasse conforto a quelli che restavano. Fece a Pimpinha l'elogio di Chic'Ana. Un vecchio discreto, molto amico di tutti i membri della famiglia. Era difficile che passasse davanti alla porta senza dire una parola, senza informarsi di come stavano gli amici."Per Chiquinho poi, faceva pazzie. Gli era tanto affezionato, Nhô Chic'Ana. Si capiva, sembrava che avessero un tesoro in comune...».

Per me, ogni occasione era buona per andare a far due chiacchiere con il vecchio nella sua casetta di Campo. Ed erano discorsi interminabili, in un'atmosfera di grande intimità, Nhô Chic'Ana con la pipa tra i denti e io seduto su un mortaio di legno, attento come un cagnolino in attesa che il padrone gli dia da mangiare.

Lasciai la nonna alle sue rievocazioni e mi diressi alla casa del morto. Cominciava a giungermi alle orecchie il lamento fu­nebre delle donne.

Il vecchio si era allettato. Ultimamente si era molto indebo­lito, la faccia smunta, lo sguardo terreo. Faceva ancora le sue passeggiatine, ma le gambe non ce la facevano a reggere nean­che una breve camminata. E allora si sedeva su un muretto lun­go la strada, a riprendere le forze.

Un'angoscia profonda si impadroniva di me. Nhô Chic'Ana era morto di fame. Ebbi voglia di gridare, perché tutti mi sen­tissero. Nhô Chic'Ana è morto di fame. A destra, a sinistra, il paesaggio era identico. Gli stessi campi spogli, il terreno argil­loso divorato dalle cavallette.

Nella casa del morto c'era già tanta gente. Le donne intonavano un lamento commosso, sottolineato dal controcanto. La fi­glia di Nhô Chic'Ana passeggiava perla stanza, piegata in avanti e con un fazzoletto in mano, con cui continuava a sventolarsi. Nhô Chic'Ana, ora che era morto, era portatore di messaggi per l'oltretomba. Gli davano ambasciate per quelli che non c'erano più. Non dimenticasse di dirgli quanto rimpianto avevano lasciato. Che la vita aveva perso ogni gusto dopo che se n'erano andati. Intercedessero con Nostro Signore per la felicità degli angioletti rimasti orfani del calore dei genitori. Rivolgevano frasi addolorate alla figlia del morto. Mai più avrebbe parlato con Nhô Chic' Ana. Non le avrebbe più chiesto il fuoco per ac­cendergli la pipa. Non le avrebbe più dato la benedizione. Non aveva ormai pia il padre a cui chiedere la benedizione. Addio, Nhô Chic'Ana. Ora doveva pensare a confortare la madre, a stare vicino a lei che restava in questo mondo, piena di angoscia.

Mi avvicinai al letto. Nhanha Bonga mi accolse con sorpre­sa tra le lacrime. Ah, Chiquinho! Il mio grande amico non c'era più. Che ci sarebbe andato a fare Chiquinho d'ora in avanti nella casetta di Campo? Nhô Chic'Ana non mi avrebbe più rac­contato le storie che amavo tanto.

Nhô Chic' Ana era tutto rinsecchito, le sue ossa puntute bu­cavano la coperta che lo ricopriva. Il mio vecchio amico era morto di fame. Mi accostai al letto, tenendomi la testa tra le mani sconsolate. I giorni della mia infanzia erano popolati dalla sua presenza. Mi sembrava di rivederlo, quand'era ancora valido, piegato nel lavoro dei campi. La sera, venivo alla caset­ta di Campo. Nhô Chic'Ana mi faceva i pupazzi di argilla, che battezzava con i nomi delle storie di Carlo Magno. A volte mi intagliava barchette di legno, e la mia più grande felicità era farle correre nella cisterna di Antonio Jejê assieme ai miei com­pagni. Mi raccontava fatti della sua vita di marinaio, i paesi che aveva visitato. Le sue parole erano lente, esemplari. Gli chie­devo sempre di raccontarmi nuove storie:

«Raccontatemi un'altra storia, Nhô Chic'Ana».

«Ma non c'è tempo».

«Raccontate, Nhô Chic'Ana!».

«No! Lo sai che raccontare storie di giorno fa pelare le ciglia degli occhi...».

Ma io conoscevo il suo punto debole. Tiravo fuori dalla ta­sca un po' di tabacco, e lui subito tendeva la mano.

E cominciava. Nei tempi antichi c'era una casa molto grande in fondo al mare. Ci abitava da sola una donna, che stava sempre seduta sulla sua sedia a dondolo. Vicino c'era un orcio, nell'orcio c'era una palla di ferro, nella palla c'era una scato­la, nella scatola una colomba, dentro la colomba un uovo, den­tro l'uovo un filo di capelli. In questo filo di capelli c'era la for­za del Maligno, Dio scampi e liberi... E adesso era li, morto, Nhô Chic'Ana. Morto di fame.

II funerale era per il giorno dopo alle due. Alle due Nhô Chic'Ana sarebbe uscito dì casa per la sua dimora sotto terra. Pri­ma dell'accompagnamento a Tabuga, il corteo sarebbe passato in paese, per la preghiera sulla porta della chiesa.

Uscii. Mi incamminai nuovamente in direzione di casa. Toc­cai appena il cibo che mia madre mi diede. Nhô Chic'Ana era morto di fame. La siccità aveva cucito un enorme vestito grigio perché la terra si vestisse a lutto per Nhô Chìc'Ana. Ero come stordito. Il sole lasciava filtrare attraverso le nuvole una luce immobile. A Casinhas, a Jalunga, a Junga sì moriva di fame.

E funerale di Nhô Chic'Ana sarebbe stato alle due. Alle due avrebbero messo il vecchio nella bara dei poveri: quattro assi di agave e una coperta vecchia. Nhô Chic'Ana sarebbe sceso sottoterra avvolto in una coperta vecchia. I compaesani lo avrebbero portato a spalla rispettosamente, come un santo su una portantina. All'uscita il lamento funebre sarebbe aumentato. (Addio, Nhô Chic'Ana, addio, riposate in pace). Il vecchio non avrebbe avuto un commiato con canti sacri, lo avrebbero appena deposto davanti alla porta della chiesa, per una preghie­ra. Dove trovare cinquemila e cinquecento scudi per la messa?

Combota era piena di gente in cerca d'acqua, che scarseg­giava ogni giorno di più. Dalla collina di Alberto ne scendeva un rigagnolo, secco come un'acciuga. C'era guerra dichiarata tra chi doveva riempire i mastelli,

Scesi di nuovo verso la casetta di Campo. Il funerale di Nhô Chic'ana stava per uscire. Tra poco il suo corpo avrebbe lasciato la casa per non farvi più ritorno. Gli uomini si avvicinarono al letto. La vecchia era abbracciata al corpo di Nhô Chic'Ana. La consolarono. Nhô Chic'Ana andava in paradiso. Nostro Si­gnore era amico di Nhô Chic'Ana, perché era stato una perso­na buona. Le invocazioni e i pianti aumentarono. Un vecchio, con aria grave, recitò una preghiera per preservare Nhô Chic'Ana dal fuoco dell'inferno. Composero il corpo nella cassa di agave. Nhanha Bonga rimase sul letto a piangere il vecchio dandogli l'estremo saluto. A che pro, dato che di lì a poco l'avrebbe raggiunto? Ora se ne andava per sempre, il suo com­pagno per oltre cinquant'anni. Perché la lasciava, vecchia e debole com'era in quella vita di pena?

II corteo usci. Per strada altra gente si univa. Nhô Chic'Ana non si sarebbe mai aspettato che tanta gente lo accompagnas­se alla sua dimora sotto terra. Vidi ancora, prima che uscisse, la sua faccia smunta, i denti snocciolati in quel suo sorriso rassegnato da paria, nonostante il fazzoletto legato sotto il mento. Sembrava volesse raccontare la sua ultima storia, prima di andare a fumare la pipa all'altro mondo.

Attraversammo Caleijào, scendemmo lungo la Ladeira da Lapa, e si sentiva solo, di tanto in tanto, un accenno di pianto, soffocato nei larghi fazzoletti delle donne. A parte questo, solo lo scalpiccio ritmato dei passi che scendevano verso il paese.

Nhô Chic'Ana fu deposto davanti alla chiesa. Le campane non suonarono a morto. Arrivò il prete con il sagrestano e in fretta recitò una preghiera. Il piazzale della chiesa era silenzioso come non mai. Nemmeno i ragazzini giocavano a pallone. La lancetta dell'orologio della Cattedrale segnava quasi le quattro. Un raggio di sole giocava sul quadrante. La preghiera per Chic'Ana davanti alla chiesa, quasi le quattro.

Il corteo attraversò il vecchio ponte, costruito per stabilire una comunicazione fra i due versanti del paese, nei giorni di piena. Ma ora era malandato, con le tavole pericolanti. All'al­tezza di Lombinho il corteo si attardò lungo le curve della stra­da, sopra Maiama. Intorno tutto secco. Secchi i banani, secche le canne da zucchero sulle terrazze. Solo le palme da cocco si ergevano con i loro corpi slanciati, le cime a spiare il mare, ulu­lando all'imbocco della valle. Più avanti, svoltando un po' sulla destra, c'era la piana affamata di Norte-a-Baixo. La fame li era più rovinosa, più cruda.

Seguivo il funerale di Nhô Chic'Ana. Laggiù si stagliava il cimitero di Tabuga, con i suoi muri imbiancati a calce. E il corpo di Nhô Chic'Ana ondeggiava dolcemente sulle spalle dei suoi compaesani. Era uno di loro che si andava a seppellire. Un fratello da restituire alla terra. Domani altri fratelli avrebbero scavato la loro fossa. Almeno, sotto terra, la pioggia si sente appena arriva. Cinquemila e cinquecento scudi! Il fresco dell'acqua e il rumore della pioggia che cade, un figlio delle isole non potrebbe desiderare messa più bella.

Nhô Chic'Ana fece il suo ingresso nel cimitero. Il becchino con altri due giovani gli avevano preparato il posto in terra. Gli chiusi gli occhi, gli occhi che non avrebbero più visto Chi­quinho.

Adagiarono il corpo sul fondo della sepoltura. Anche quan­do si semina, si adagia il seme perché germogli in libertà. Gli uomini chinarono il capo e recitarono il Padre Nostro e il Glo­ria Patri per il riposo eterno di Nhô Chic'Ana. Poi le pale rovesciarono la terra. In breve la sepoltura fu ricoperta. (...)




(Tratto dal romanzo capoverdiano Chiquinho, Edizioni Lavoro, Roma, 2008. Traduzione dal Portoghese a cura di Vincenzo Barca.)




Baltasar Lopes (1907-1989), narratore, poeta, filologo, antropologo, è riconosciuto come uno dei padri fondatori della letteratura capoverdiana. Chiquinho , romanzo-simbolo di una generazione, è nella lista delle opere stimate dall'Unesco come "patrimonio dell'umanità".




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