GRANDE SERTÃO


Luciana Stegagno Picchio

 



– Recensione pubblicata per l'edizione del 1985 –


A quindici anni di distanza dalla prima edizione nella sua collana dei "Narratori", Feltrinelli ristampa "Grande Sertão" di Guimarães Rosa: un capolavoro riconosciuto della letteratura brasiliana e, seppure neanche un trentennio ci separi dalla sua prima pubblicazione, che è del 1956, un classico ormai della narrativa del nostro secolo.

Il classico è quel testo (prosa, poesia, narrativa, musica, pittura, teatro, non importa) che consente e sopporta tutte le interpretazioni, a tutti i livelli, nel tempo e nello spazio. Un testo che gli anni accrescono di senso, prestandogli a ogni diversa esecuzione sempre nuovi significati. Un testo con cui ogni lettore in ogni luogo e in ogni tempo può istituire un dialogo, ravvisando in esso valori a lui congeniali, sincronici.

Così è, o così ci appare oggi, a quasi tre decenni di distanza il "Grande Sertão: Veredas" di Joao Guimarães Rosa. La traduzione italiana di Edoardo Bizzarri, una traduzione sapiente e impegnata, anche se per noi leggermente datata, legata ad una convenzione letteraria che imponeva di tradurre tutto, a cominciare dai nomi che oggi preferiremmo ritrovare nella loro iconicità e nel loro suono-colore originali, riduce il titolo opacizzandolo. Perché se il grande sertão è l'interno tutto dei Campos Gerais del Brasile centrosettentrionale, dallo stato di Minas su fino al Piauí e al Maranhão, le veredas sono i sentieri, terre verdeggianti e corsi d'acqua in cui, come nelle vene e nelle arterie di un corpo sterminato, pulsa la vita: fino a confluire tutte nel San Francisco che, con il suo corso imponente di oltre 3.000 chilometri da sud a nord, da Minas ad Alagoas, è l'unico vero fiume del sertão ("Rio è soltanto il San Francisco. Il resto piccolo è vereda").

Un universo chiuso, con le sue leggi e le sue opposizioni manichee: Dio e il diavolo, il bene e il male, il lato chiaro e il lato oscuro, l'ordine e il disordine, la guerra e la pace, la legge e i fuorilegge, la siccità e l'abbondanza; ma dove spesso la contingenza e il punto di vista mescolano le tessere così che l'interpretazione ne appare più che stravolta, inaccessibile. "Vivere è molto pericoloso". L'affermazione scandisce come uno slogan tutto il racconto di Riobaldo il quale, più che protagonista della vicenda (se il vero protagonista, eponimo del romanzo è l'universo sertão e la sua legge), si presenta a noi, in termini di straniamento brechtiano, come lo storico, il narratore. La narrazione è diretta a un interlocutore fuori campo, di diversa estrazione sociale: un "dottore" di città di molta scienza e maggiore considerazione, in cui possiamo identificare il diplomatico Guimarães Rosa che, in tempi di ferie, si aggira a cavallo per i meandri del sertão attorno alla sua nativa Codisburgo e interroga, annota, rievoca. Così che, pur nell'onnipresenza dell"'io - Riobaldo è del "noi"- jagunços -fuorilegge della banda di Riobaldo, con alla testa ogni volta i capi carismatici, da Medeiro Vaz a Joca Ramiro, e a Zé Bebelo fino allo stesso Riobaldo-Urut£ Bianco - Tatarana (ogni incarnazione, ogni stadio della vita ha il suo proprio nome), questo racconto, più che monologo, vuol essere dialogo. Un dialogo in cui le battute dell'"'altro", nel silenzio in cui si materiano, vengono solo indicate dalle sospensioni, sottolineature, assensi, chiamate in causa da parte del narratore. Parla questo narratore di sé e della propria vicenda dalla cornice del "dopo", in un regime di alterità e oggettività straniata che conferisce a tutto il romanzo l'aureola attonita e atemporale dell'epopea.

Grandi passioni e grandi conflitti, sofferenze e morti, su cui il tempo, pur storicamente fissato da date frammesse alla narrazione, ha steso la coltre della riflessione e della paradigmaticità. Ed ecco Riobaldo vecchio jagunèo rientrato nella norma e nella rispettabilità pur sempre entro l'universo sertão, Riobaldo sposo felice di un'Otacilia che fin dalle origini ha rispecchiato il lato chiaro, solare, della sua natura di uomo, ricostruire in parole per l'amico dottore le vicissitudini di quel tempo oscuro di lotte, ritagliandole nella memoria come in diapositive di analitico colorismo. Eccolo risvegliare il suo struggente e ambivalente sodalizio con Diadorim, l'enigmatico fanciullo dagli occhi verdi (sempre la malia degli occhi verdi nell'epica e nella lirica ispaniche) cui solo il travolgente explicit darà ragione e collocazione sociale. Eccolo scrutare in ogni piega eventi e connessioni per trovare la legge, la spiegazione, la risposta all'interrogativo di fondo: il diavolo esiste? I1 diavolo per la via in mezzo al vortice". Anche questo è sottotitolo e slogan, motivo dominante e ricorrente della narrazione.

Ma qual è, al di là di questa composita e avventurosa storia di jagunfol, entro l'universo sertão, l'ultimo significato di questa micro-epopea? "Grande Sertão: Veredas" sopporta (o esige) diversi livelli di lettura. Nell'originale lo si può leggere inseguendo l'invenzione verbale che, come un'iridata paletta d'artista (i neologismi, le parole composte, le parole porta-mantello, le sentenze, gli aforismi), inventa, colorandolo di suono, il mondo. Poesia. E così lo si legge dal 1956 in Brasile come un'avventura collettiva un viaggio inebriante nelle parole una continua scoperta poetica, un gioco che scioglie lettori in sorrisi di connivenza, da membri di consorteria setta segreta. Come se dopo Guimarães Rosa non solo la letteratura ma la lingua stessa del Brasile fosse diventata diversa. Come se ci fosse stato con lui, che tutti oggi, più o meno coscientemente, imitano, un passaggio dalla quantità alla qualità una rivoluzione.

Ma anche in traduzione e, in una traduzione sensibile come questa, il classico "Grande Sertão" offre una fitta rete di percorsi. Lo si può leggere come un giallo (e non per caso Guimarães Rosa, a quel tempo medico nel sertão di Minas, aveva esordito quale scrittore di storie poliziesche). Si inseguono allora gli "indizi" la borsa di Diadorim, i suoi bagni notturni, le similitudini che l'apparentano a un giaguaro femmina nella difesa dei piccoli. Indizi che puntellano il racconto fino al tragico finale e al rimorso d'inadeguatezza che nel "dopo" della cornice del racconto pungola la vecchiaia del jagunèo Riobaldo, sollecitandone il lato speculativo e l'inclinazione all'aforisma. È in questa prospettiva del dopo che si può allora leggere e assaporare questa storia non solo nel suo senso, ma anche nel soprasenso, fissato, come ogni testo di questo complesso narrativo, in schemi platonici. Le storie preesistono e Guimarães Rosa le intravvedeva riflesse nella corteccia del mondo, le acchiappava a volo allargando le braccia per via. Quattro citazioni da Plotino aprivano, sempre nel 1956 la prima edizione di "Corpo di ballo" . Fondamentale fra le altre quella che esplicitava: "perché, in tutte le circostanze della vita reale, non è l'anima dentro di noi, ma la sua ombra, l'uomo esterno, che geme, si lamenta e disimpegna tutte le parti di questo teatro di scene multiple che è il mondo". In "Grande sertão" questo sopra-senso è indicato, suggerito, da presagi, sussulti d'anima, prefigurazioni. Come nell'episodio di Diadorim bambino che rapisce in canoa il non ancora sbocciato Riobaldo. O nell'episodio, centrale, del patto col diavolo: un diavolo che non si presenta all'appuntamento confermando la sua non esistenza, ma che pur agisce nell'interno dell'individuo e del mondo, fatto realtà dal timore dalla malvagità, dal desiderio di sopraffazione dell'uomo ("Battei i piedi, spaventandomi allora per il fatto che non accadeva goccia di nulla, e l'ora invano passava. Allora lui non voleva esistere? Esistesse. Venisse! Arrivasse, per sciogliere quella congiuntura... E fu così. Fu. Lui non esiste e non apparve n‚ rispose - che è un falso immaginato. Ma io feci conto che lui mi avesse inteso... Come se avesse accolto tutte le mie parole; e chiuso la questione. E io ricevetti in cambio una disponibilità, un piacere di afferrare, e di lì una tranquillità-di colpo. Pensai a un fiume che entrasse nella casa di mio padre. Vidi le ali. Misurai l'impulso del mio potere, in quell'attimo. Poteva essere di più?"). Il soprasenso si salda qui al senso e alla storia, compatta e tesa nella sua vicenda di vita e di morte. Ed ecco che "Grande sertão" si può anche leggere come un romanzo "realista", come tranche de vie rusticana: di un sertão brasiliano di jagunços e vaccari, in cui assai labile è il confine tra la legge e il fuorilegge.

In questo universo-nomade i personaggi s'incontrano e si scontrano come cavalieri nella foresta arturiana: ciascuno seguendo un proprio percorso avventuroso e catartico, ciascuno incarnando in sé un ideale, un modello umano. E il lettore, coinvolto emotivamente nello scontro fra le due bande rivali, mentre insegue il ritmo incalzante della narrazione sente in lontananza echi di romances cavallereschi, riconosce la donzella guerriera, il traditore (Gano-Ermogene), l'eroe solare (Orlando-Riobaldo) e l'eroe lunare (Olivieri-Reinaldo-Diadorim). Presentando la prima edizione del romanzo, lo stesso Guimarães Rosa parlava di libro magico e consolatorio. E non fa meraviglia che oggi, quando i lettori sembrano aver ritrovato il gusto dell'intreccio e della storia chiusa, ad indizi concatenati, mentre continuano a subire il fascino di un realismo magico e atemporale di nuova tradizione latino-americana, "Grande sertão" ritrovi, dopo trent'anni, una sua imprevista attualità e saturi valenze che allora forse non si erano ancora così apertamente rivelate.



(Pubblicata sulla rivista L'Indice, del 1985, n°5.)




Luciana Stegagno Picchio
, recentemente scomparsa, è stata per molti decenni la massima autorità em Litteratura Brasiliana in Italia.


 


        
 Precedente    Successivo          Copertina