QUESTA CRISI È UNA RIPRODUZIONE CINEMATOGRAFICA: MA DI QUALE REALE?


Alain Badiou

 


Nel modo in cui ci viene presentata, la crisi planetaria della finanza somiglia a uno di quei brutti film confezionati con cura da quella fabbrica di format di successo che oggi chiamiamo “cinema”. Non manca nulla, ivi comprese le conseguenze che generano panico: impossibile evitare il venerdì nero, tutto crolla, tutto sta per crollare…

Ma la speranza rimane. In primo piano , sconvolto e concentrato come in un film del genere catastrofico, il piccolo drappello di potenti, i pompieri del fuoco monetario, i vari Sarkozy, Paulson, Merkel, Brown e Trichet, inghiottiscono migliaia di miliardi nel buco centrale. “Salvare le banche!” Questo nobile grido umanista e democratico si eleva da tutti i petti politici e mediatici. Tenuto conto di quello che sono oggi il mondo e le politiche che vi si dispiegano, per gli attori diretti del film, vale a dire i ricchi, per coloro che sono al loro servizio, i loro parassiti, quelli che li invidiano e quelli che li incensano, un happy end, lo credo, lo sento, è inevitabile.

Concentriamoci piuttosto sugli spettatori di questo show, la folla stordita che sente, come un brusio lontano, il miserere delle banche allo sbando, che immagina il lavoro massacrante al quale si dedica nei week-end la piccola squadra gloriosa dei capi di governo , che vede scorrere cifre tanto gigantesche quanto oscure e meccanicamente le paragona alle proprie risorse, che per una parte assai consistente dell'umanità consistono addirittura in una pura e semplice non risorsa che fa da sfondo, amaro e coraggioso al contempo, della sua esistenza. Io dico che il reale sta lì e che noi non vi avremo accesso se non distogliendoci dallo schermo della riproduzione cinematografica, per prendere in considerazione la massa invisibile di coloro per i quali il film del genere catastrofico, compreso l'epilogo all'acqua di rose (Sarkozy abbraccia la Merkel e tutto il mondo piange di gioia), non è mai stato che un teatro d'ombre.

Nelle ultime settimane si è parlato spesso di “economia reale” (la produzione dei beni). Ad essa è stata contrapposta l'economia irreale (la speculazione) origine di tutti i mali, visto che i suoi operatori sono diventati “ irresponsabili ”, “ irrazionali ” e “ predatori ”. Questa distinzione è palesemente assurda. Da cinque secoli il capitalismo finanziario è una delle componenti principali del capitalismo in generale. Coloro che detengono e animano questo sistema non sono, per definizione, “responsabili” che dei profitti, la loro “razionalità” è misurabile in termini di guadagni, e non solo sono predatori, ma hanno il dovere di esserlo.

Nel deposito della produzione capitalista non vi è niente di più “reale” del suo stadio commerciale o del suo comparto speculativo. Il ritorno al reale non potrebbe essere un passaggio dalla cattiva speculazione “irrazionale” alla sana produzione. Il ritorno al reale è il ritorno alla vita, immediata e riflessiva, da parte di tutti coloro che vivono in questo mondo. È da questo punto che si può guardare il capitalismo senza lasciarsi indebolire, compreso il film di genere catastrofico che di questi tempi ci viene imposto. Il reale non è questo film, il reale è la sala.

Cosa si vede a distanza, o da un'altra prospettiva? Si vedono, per così dire, delle cose semplici e note da molto tempo: il capitalismo non è che un banditismo, irrazionale nella sua essenza e devastatore nel suo divenire. Ha fatto sempre scontare alcuni brevi decenni di prosperità, selvaggiamente iniqui, con crisi che hanno visto la scomparsa di quantità astronomiche di valori, con sanguinose spedizioni punitive in tutte quelle aree da esso ritenute strategiche o minacciose e con guerre mondiali grazie alle quali si ristabiliva.

Lasciamo al film-crisi, così rivisto, la sua forza didattica. Possiamo ancora osare, dinanzi alla vita delle persone che lo guardano, vantarci di un sistema che rimette l'organizzazione della vita collettiva alle pulsioni più basse, la cupidigia, la rivalità, l'egoismo macchinale? Fare l'elogio di una “democrazia” i cui vertici sono così impunemente al servizio dell'appropriazione finanziaria privata, che riuscirebbero a sorprendere lo stesso Marx il quale però, già centosessant'anni fa, definiva i governi “comitati d'affari del capitale”? Affermare che è impossibile coprire il buco della Previdenza Sociale, ma che bisogna coprire, senza contare i miliardi, il buco delle banche?

La sola cosa che si possa desiderare in siffatto contesto è che questo potere didattico si ritrovi negli insegnamenti che la gente, e non i banchieri, i governi che sono al loro servizio e i giornali che sono al servizio dei governi, ha tratto da tutto questo scenario buio. Vedo questo ritorno al reale articolato in due livelli. Il primo è chiaramente politico. Come ci ha mostrato il film, il feticcio “democratico” altro non è che un premuroso sostegno delle banche. Il suo vero nome, il suo nome tecnico, lo propongo da tempo, è: capital-parlamentarismo. Conviene dunque, in linea con i vari esperimenti avviati da vent'anni, organizzare una politica di natura differente.

Senza dubbio essa è, e sarà a lungo, molto distante dal potere di Stato, ma poco importa. Nasce nel reale, fondandosi sull'alleanza pratica delle persone più immediatamente disponibili ad inventarla: i nuovi proletari, venuti dall'Africa o da altre parti, e gli intellettuali eredi delle battaglie politiche degli ultimi decenni. Si espanderà in funzione di ciò che saprà fare, punto per punto. Non avrà alcun tipo di rapporto organico con i partiti esistenti e con i sistemi, elettorale e istituzionale, che li fanno vivere. Inventerà la nuova disciplina di quelli che non hanno niente, la loro capacità politica, la nuova idea di ciò che sarebbe la loro vittoria.

Il secondo livello è ideologico. Bisogna rovesciare l'antico verdetto secondo il quale noi saremmo “alla fine delle ideologie”. Oggi si vede molto chiaramente che questa presunta fine non ha altri riscontri nella realtà se non nella parola d'ordine “salviamo le banche”. Non c'è niente di più importante del ritrovare la passione delle idee e dell'opporre al mondo così com'è una ipotesi generale, la certezza anticipata di tutt'altro corso delle cose. Alla rappresentazione cinematografica negativa del capitalismo, noi opponiamo il reale delle genti, dell'esistenza di tutti nel movimento onesto delle idee. La ragione di un'emancipazione dell'umanità non ha perso nulla della sua forza. Il termine “comunismo”, che per molto tempo ha designato questa forza, è stato certamente degradato e prostituito.

Oggi però la sua scomparsa non è che al servizio dei difensori dell'ordine, degli attori febbricitanti del film di genere catastrofico. Noi lo faremo rinascere, nella sua nuova chiarezza. Che è anche la sua antica virtù, quando Marx diceva del comunismo che “rompeva nel modo più radicale con le idee tradizionali” e che faceva subentrare “un'associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti”.

Rottura totale con il capital-parlamentarismo, politica inventata nel reale popolare, sovranità delle idee: la chiave sta in questo, lasciarsi alle spalle il film della crisi e dedicarsi alla fusione di pensiero vivo e azione organizzata.


(Tratto da Le Monde, 17 ottobre 2008. Traduzione di Gabriella Concetta Basile.)




Alain Badiou
(Rabat, 1937) è un filosofo, commediografo e scrittore francese. In filosofia è stato allievo di Louis Althusser, e in politica è stato attivo sulla scia del maoismo. Ha a lungo insegnato all'università di Paris VIII Saint-Denis Vincennes, ed è attualmente professore all'École Normale Supérieure (ENS) di Parigi.

 


        
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