IL ROMANZO È MORTO?


Rubem Fonseca

 


Molto prima di pubblicare il mio primo libro sentivo dire che il romanzo, la letteratura erano morti.

Pare che la prima morte sia stata annunciata già nel 1880, ciononostante, come tutti sanno, Emily Dickinson, Cechov, Proust, Joyce, Kafka, Maupassant, Henry James, il nostro Machado, Eça, e poi Mallarmé, le Brontë, Fernando Pessoa (un po' più tardi) fossero attivi all'epoca.

All'inizio del secolo XX, con la produzione, da parte di Henry Ford, della Ford Model T, un'utilitaria costruita in una linea di montaggio, un'automobile a basso costo che in pochi anni ha superato i quindici milioni di vendite, le cassandre affermarono che adesso la letteratura, poesia compresa, aveva proprio i giorni contati. In breve tutti avrebbero avuto l'automobile e l'avrebbero usata per fare gite, compere, amoreggiare invece di rimanere in casa a leggere. O perché non sapessero che cosa gli riservava il futuro o chissà perché, certo è che molti scrittori come Yeats, Benavente, Galsworthy, Selma Lagerlöf, Rilke, Kavafis, Edna St. Vincent Millay continuarono a scrivere e magari avevano una Model T nel garage.

Un nuovo annuncio mortale arrivò subito dopo con l'avvento del cinema, detto la settima arte. Una ricerca dell'epoca rivelò che su cento persone, ottanta frequentavano le sale cinematografiche e due (due!) leggevano libri. Stavolta la letteratura era proprio morta. Non c'era via di scampo. Ma Sinclair Lewis, Thomas Mann, Bunin, Céline, Anna Achmatova, O'Neill, Pirandello e molti altri non lo sapevano. (I due ultimi sono autori di teatro, però il teatro incominciò a morire prima).

Dopo, una nuova morte fu profetizzata con l'arrivo della televisione. Ma William Faulkner, Eliot, Gide, Hesse, Quasimodo, Pasternak, Camus, Hemingway, Beckett, Seferis, Kawabata, Mauriac, Steinbeck e molti altri non smisero di scrivere. Ma perbacco, costoro non leggevano i giornali? Non sapevano che la letteratura era morta?

Infine arrivò il colpo di grazia: il computer e Internet. Era il colpo di spugna. Ma cosa stava succedendo? Chi sono (o erano) questi matti che scrivono poesia e romanzi – Carlos Drummond de Andrade, Czeslaw Milosz, João Cabral, Pablo Neruda, Montale, Heinrich Böll, Saul Bellow, Isaac Bashevis Singer, Octavio Paz, Brodskij, Garcia Márquez (“se dici che il romanzo è morto, non è il romanzo, sei tu che sei morto”), Canetti, Günter Grass, Kenzaburo Oe, Saramago, João Ubaldo, Ferreira Guillar e un'infinità di altri? Che cosa sta davvero succedendo?

Ci sono molti studi interessanti sull'argomento ed estesi, come quello della saggista Leila Perrone-Moisés in Altas Literaturas (Companhia das Letras 1998). Forse sta succedendo questo: la letteratura non è finita, chi sta finendo è il lettore. Potrebbe verificarsi questo paradosso, il lettore finisce ma non lo scrittore? Ossia la narrativa e la poesia continuano a esistere anche se gli scrittori scrivono solo per quattro gatti?

Una recente ricerca sulle abitudini di lettura in ambito universitario è giunta a conclusioni impressionanti: il trentasei per cento degli intervistati non aveva mai, ripeto mai, letto il minimo libro di narrativa. Una minoranza aveva letto uno o due romanzi durante l'anno. Un gran numero aveva letto un solo libro in tutta la vita. Stiamo parlando di universitari.

Non voglio trarre conclusioni sulla base di questa ricerca. Sarebbero troppo deprimenti. Ho letto di recente, in uno studio delle professoresse Isabel Sampaio e Acácia Angeli dos Santos, che le cosiddette difficoltà di lettura e scrittura per la verità sono dovute a carenze cognitive di base, come la capacità di intendere variabili, identificare informazioni lacunose, distinguere fra informazione e supposizione, ragionare per ipotesi ed esercitare la metacognizione. Vivendo in una società in cui la capacità di elaborazione delle informazioni ha smesso di essere solo un'abilità intellettuale per trasformarsi in condizione di sopravvivenza economica, l'individuo, privato degli strumenti della lettura e della scrittura, è soggetto a emarginazione - personale, professionale e sociale.

Lo sapranno gli universitari?

Kafka scriveva per un solo lettore: lui stesso. Ricordo Camões. Era un agitatore di piazza e finì in prigione, o per risse da lui provocate o per aver avuto una storia con l'infanta Maria, sorella del re João III. Per ottenere il perdono del re, si offrì come soldato per servirlo in India. Ci rimase diciassette anni e alla fine tornò in Portogallo a bordo di una nave insieme a una giovane indiana da lui amata e alla quale dedicò il bel sonetto “Anima mia gentile, che partisti”. La nave naufragò e Camões, durante il naufragio, pensò a una cosa sola: salvare il manoscritto delle Lusiadas e delle sue poesie. Lasciò che la donna amata morisse annegata (confesso che ho i miei dubbi) e perse tutti i suoi beni, ma salvò i manoscritti. Perché li leggesse chi? Eravamo nel secolo XVI e pochissimi in Portogallo sapevano leggere. Ma Camões pensò a quel pugno di lettori, era per loro che Camões scriveva, non importava quanti fossero.

I lettori finiranno? Forse. Ma gli scrittori no. La sindrome di Camões continuerà. Lo scrittore resisterà.



(Tratto dal libro O Romance Morreu – crônicas, Compania das Letras, Brasile, 2007. Traduzione dal portoghese di Mirella Abriani.)


Rubem Fonseca

 


        
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