UN COPRILETTO UMIDO



Branca Maria de Paula

 



La casa era di mio nonno. Tutto era di mio nonno. La jeep sobbalzava per la strada stretta, si vedevano solo scarpate e vegetazione bassa. Al sussulto di buche e cunette, sbattevamo fra valigie, sacchi e casse di vettovaglie fino a che, là in basso nel campo, vedevamo il tetto della fattoria aprirsi come un om­brello. Dietro c'era il frutteto: mela rosa, avocado, carambo­la, mango, jaca – ogni tipo di frutta. Un piccolo fiumiciattolo scorreva fra le montagne, affondava sotto gli alberi, scorreva all'ombra per un po' e riappariva zampillando acqua fresca davanti alla porta della cucina. Di fronte alla casa, il patio e la stalla.

Quando arrivavamo ai piedi della collina, uno di noi saltava giù dalla jeep per aprire il cancello. Niente di più bello che calpestare quel terreno. Terra battuta e pulita. Vicino al granaio,

gonfi sacchi di granturco al sole, cavalli pronti al galoppo - tutto sano e vero.

Allora arrivavamo alla meta: una casa lunga e larga, diste­sa su quel terreno. Noi come piccole formiche guardavamo in alto. La facciata era ruvida e bianca. Porte e finestre erano ri­maste spalancate come in attesa di un visitatore. Salivamo la sudicia scala di legno con il cuore in gola. I gradini scricchio­lavano pacatamente. Attraversavamo poi il terrazzo, scavalca­vamo il lungo banco e, arrivati dall'altra parte, ci sporgevamo dal parapetto. Da lassù potevamo vedere il porcile, il pollaio e il frutteto. Anche il gabinetto si trovava da quelle parti. Dove­vamo camminare un bel po' per svuotare i nostri pitali. Meno male che, per la maggior pane dell'anno, le notti erano fresche e secche. E il cielo pieno di stelle. Poi arrivava dicembre, gen­naio e allora sì che l'acqua ci castigava. Tutte le mattine cari­cavamo gli orinali pieni e li svuotavamo ai piedi della palma, che generosamente ci ringraziava: mai in vita mia vidi tanta abbondanza.

Quando mio nonno mori, vendettero la casa. Ero un ragaz­zino a quell'epoca. Cominciai a mangiarmi le unghie, vagando silenzioso da una parte all'altra. Fui derubato di un pezzo di me stesso. Mi hanno tradito, pensai. E cominciai ad architettare la mia vendetta: crescere velocemente, guadagnare molti soldi, diventare ricco, riprendermi quello che era mio. Ciò che era mio e che nessuno poteva togliermi. Quel desiderio insistente mi martellava senza tregua, non mi lasciava riposare. Nei mo­menti peggiori, era ciò che mi faceva andare avanti. Da solo mi battei per proseguire il mio cammino: l'arrivo nella grande città, la facoltà, l'ufficio. Il mio obiettivo era vincere, e solo vincere, non ho mai preso in considerazione la possibilità di non farcela, non ho mai perso la fiducia. E intanto mettevo da parte il mio gruzzolo.

Tornai. Comprai tutto quello che mi mancava: il mio passato, la mia storia, la terra che mi aveva visto nascere, lo sterco che mi aveva fatto crescere. Comprai di nuovo il profumo della notte.

La casa era lì, come sempre – proprio come nei miei ricordi.

La feci ripulire e dipingere, ma non modificai la struttura. Aggiunsi solo un bagno da una parte. Purtroppo, la vita in città mi aveva tolto il piacere di farmi il bagno nel catino, la tranquillità di cagare guardando i maiali che si rigiravano nei loro escre­menti. Che peccato! Radici di merda: nessuno riesce a liberarse­ne, e allo stesso tempo nessuno sopporta le ferite di un passato fatto di cose semplici.

Una volta facevo parte della terra e non ne dubitavo. Restare a guardare le galline intorno alla vecchia Catarina era una cosa naturale, necessaria. Catarina setacciava il riso, separando le cose come solo le persone semplici sanno fare, senza problemi: questo è buono, quello è cattivo; questo è buono e lo usiamo, quello è cattivo e lo buttiamo via. Bei tempi. Oggi non faccio più parte di nulla. Non separo più un cazzo di niente.

Come dicevo, comprai la terra che bevve il mio primo sperma. Ritornai ai primi drammi sotto il ruvido copriletto. Pioveva e mi ammalavo, ma era solo una scusa per starmene a letto. Il lenzuolo era sempre inumidito dai miei umori. Dopo pranzo, mentre le vecchiette si riposavano, io fottevo la gallina preferita da mia madre. Docile che era una bellezza. Il pollaio puzzava di foraggio, cacca e uova marce. Nei cesti, attaccati in alto, i nidi erano pieni. Io salivo nel pollaio e restavo a vigilare sui pulcini che nascevano. Era una sensazione sempre nuova.

Un giorno, per una scemenza, mi picchiarono con un ramo di melo cotogno. Furioso me ne andai in cortile e mi sfogai con una gallina. Lo feci quattro o cinque volte, non so. Ero sfinito, grondavo di sudore. E la gallina gocciolava sangue. Poi le stac­cai tutte le penne, lasciandole in mezzo alla vegetazione. Non so chi se ne accorse. Quel che è certo è che il giorno seguente se la presero tutti in culo, e fino a oggi nessuno ha scoperto il colpevole. Era una gallina con le penne rossiccie, tonda e un po' rompiscatole, poverina. Dopo passai al capretto, alla cavalla, a tutti gli animali possibili. Ho dei bei ricordi della mia infanzia.

Nella fattoria vidi mio padre nudo per la prima volta. La porta era accostata quando attraversai il corridoio. Mi misi a spiarlo. Lui dormiva. Senza togliergli gli occhi da dosso, tratte­nendo il respiro, mi infilai dentro la stanza. Mio padre russava a pancia in su: il suo sesso era un magnifico monte. Così ma­gnifico che mi fermai, sbalordito. Le sue dimensioni mi anni­chilivano, e mi pervase una violenta emozione. Come poteva esistere un essere così bello e poderoso? Mio padre era un dio. Sarei mai diventato come lui? A quel pensiero il mio corpo tremò, febbrile. Il suo respiro era regolare, la pancia saliva e scendeva lentamente. Aveva un profilo patriarcale. La barba dura conficcata in viso. Il naso grande e dritto. La fronte alta. I capelli brizzolati e fini. Rimasi incollato alla parete, inchiodato al pavimento. Appena sentii un rumore, saltai come un grillo. Chiusi la porta, fuggii velocemente e andai a infilare la testa sotto la fontana. Rimasi a girare nel cortile per molto tempo. Mi sentivo un verme. Non sarei mai stato come lui, mai. Ero un nano e il mio pisello un cosetto senza senso. Non avrei mai potuto avere una donna. Avevo paura del buio, della pioggia. Le donne mi tiravano le orecchie e mi abbassavano i pantaloni solo per punirmi. Ero un marmocchio che dormiva con la testa coperta. Avevo tra le cosce un uccellino spelato che non serviva a nulla. Solo per qualche tiepida pisciatina. Triste, no?

Così scoprii l'uomo. Poi, a tredici anni circa, andai a studiare in un paesino vicino alla fattoria. E lì mi innamorai per la prima volta. Il suo nome era Tina. Non ho idea di quanti anni avesse, ma era più grande, molto più grande di me. Girava raccogliendo cose da terra, un recipiente schifoso sotto braccio. Era brutta e sporca, con le gambe ricoperte da cicatrici. Ma io sapevo che si concedeva a tutti. Anche ai ragazzini. Tina era la prima femmi­na che consideravo veramente. La prima che potevo desiderare e avere. La potevo toccare senza che la mia mano cadesse all'improvviso putrefatta, senza che un fulmine mi colpisse.

Cominciai a seguirla. Tina viveva in un casolare vicino al fiu­me. Si alzava presto e usciva per chiedere l'elemosina per strada.

Io dietro di lei. Mi masturbai spesso vedendola scopare con altri ragazzini. Mai con me. Mai e poi mai con me.

La desideravo in un modo che ancora oggi non mi spiego. Una cosa disperata, viscerale. Mi ammalai, mi colpi una febbre stra­na. Ma lei non si concesse. La dava a tutti meno che a me. Un giorno mi nascosi in mezzo alla boscaglia, pronto a prenderla in qualsiasi modo. Scorticai tutto l'albero per quanto l'aspettai.

Tina passò di ritorno, a pomeriggio inoltrato. Le saltai davan­ti, farfugliai la richiesta. Lei disse no. Io strinsi le spalle. Gridò: «Cresci e ripresentati, signor mingherlino!».

Allora ribattei: perché con me no, signora puzzolente! La presi per la gonna, ma Tina si liberò e corse via. Io dietro. Seguimmo il corso del fiume. Sembrava che il mondo stesse per prendere fuoco, il sole brillava rosso nel giorno ormai finito. Io sudavo freddo e la imploravo. Imploravo, ma niente. Non mi sentiva. La sabbia rallentava i miei passi. Pur con difficoltà, corremmo un bel pezzo, senza fermarci. Fino a che ci stancammo e co­minciammo a correre più lentamente. Allora tirai fuori l'uccello – ero stanco di rincorrerla e lei non mi filava – cominciai a farmi una sega dietro di lei, inciampando sulle radici e piangendo. Me ne venni per strada e lei non si fermò. Non mi considerò neppure.

Poi tornai alla fattoria. Al mio copriletto umido. Ma non volli più fottermi animali.

Fu allora che mio nonno morì e vendemmo la fattoria. Me ne andai a vivere in città.

Non pensai mai più che vivere fosse una cosa naturale. Oggi, quando voglio scopare, mando l'autista a prendermi una puttana.


(Tratto dalla raccolta di racconti Fondo infinito, Vertigo editori, Roma, 2007. Traduzione dal portoghese di Mariagrazia Russo.)






Branca Maria de Paula
, scrittrice e fotografa, è nata ad Aimorés. La sua carriera letteraria è iniziata quando, nel 1978, ha vinto il prestigioso concorso di racconti erotici della rivista “Status”. Ha pubblicato ormai quattordici titoli in Brasile, tra romanzi e raccolte di racconti.

 


     
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