LA FAMIGLIA È UNA ROTTURA DI PALLE
Rubem Fonseca
Ho una salute di ferro, ma avevo dei mal di testa e feci un salto in farmacia per comprare un’aspirina. Fu così che conobbi Genoveva. Lei mi chiese perché proprio l’aspirina.
“Per il mal di testa”.
“L’aspirina fa male allo stomaco”.
Se lavorava in una farmacia doveva sapere cosa stava dicendo.
“Allora cosa prendo?”
“Tylenol”
“Ho già preso quell’affare e il dolore non mi è passato”. Ci mettemmo a chiacchierare, non c’erano altri clienti nella farmacia. Lei viveva in via di Camerino proprio all’inizio, vicino alla farmacia, che era in via Larga, conosciuta anche come Machado Floriano. Io invece abitavo a Santo Cristo.
Mi piacque subito Genoveva. Il giorni dopo, anche se non avevo mal di testa, tornai alla farmacia.
“E’ già finito il Tylenol?”
“Sono passato solo per dirti ciao”.
“Ciao. Come ti chiami?”
“Valdo”.
“Sembra il nome di un calciatore. Giochi a calcio?”
“Sì. Tra amici. Tutti i brasiliani giocano a calcio”.
“Io mi chiamo Geni”.
Da quel giorno cominciammo a frequentarci. Il problema era che dovevo vederla di nascosto dai miei fratelli e da mia madre. A me piaceva Genoveva , ma lei era brutta, né molto grassa né molto magra, non aveva la pelle sciupata, ma era brutta. Non so come spiegare la bruttezza di Genoveva. Se fosse stata una bella ragazza sarebbe stato più facile.
Ci frequentavamo già da due mesi quando Genoveva mi disse che sua madre voleva conoscermi. I casini tra fidanzati iniziano sempre quando le famiglie si mettono in mezzo.
La vecchia avrebbe trovato un sacco di difetti in me.
Ma non andò così. La vecchia disse: “Genoveva, il tuo fidanzato è molto bello e molto educato”.
“Mamma, gli avevo detto che mi chiamavo Geni. Lei sa benissimo che a me quel nome non piace”.
“Se il giovanotto pensa di sposarti deve conoscere il tuo vero nome”.
“Neanche il mio nome è Valdo. E’ Oduvaldo”.
“Penso che Oduvaldo sia un bel nome”; disse la ragazza.
“Genoveva lo è ancora di più”.
Poi la madre andò a vedere la televisione nella camera dove loro due dormivano. La casa era piccola. rimanemmo da soli sul divano del salotto e io non feci niente. Non feci niente perché Genoveva era vergine e io non la volevo sverginare, quella cosa della madre che parlava di matrimonio mi aveva fatto venire i brividi. Sverginare è una cosa fatta d’impulso, e la donna ci resta sempre pregna. E così ci si deve sposare. Io mi potrei anche sposare con Genoveva se non fosse per la mia famiglia. A casa mia sono tutti belli. Come faccio ad arrivare e dire, oh gente, mi sposo con questa ragazza brutta? Per di più al momento non ho neppure un lavoro, mi mantiene mio fratello che ha un ristorante a Santo Cristo. Lui è sposato con una donna che potrebbe lavorare nel mondo del cinema.
Santo Cristo è un posto perfetto, sono nato e cresciuto lì, non c’è baretto, negozio, officina, casa che io non conosca, per lo meno da fuori. So dove si può mangiare un’ottima sbobba, sicuramente il miglior posto è il ristorante di mio fratello. Santo Cristo è un paradiso, io potrei passare tutta la vita senza uscire da questo quartiere, nemmeno per andare al mare. Come mi è venuto in mente di andare a comprare una medicina per il mal di testa in via Larga se Santo Cristo ha le sue farmacie? È stato il destino. Il destino gioca di questi scherzi. Ha messo Genoveva sulla mia strada.
“Non ti piace il posto in cui vivi?”
“Perché?”
“Non mi porti mai a fare un giro a Santo Cristo”.
“Non mi piace quel quartiere. Preferisco Tijuca. Ho già vissuto in via degli Araùjos”.
Era una bugia. Io detestavo Tijuca, ma non volevo andare per Santo Cristo ed essere visto con Genoveva. Chi abitava in via degli Araùjos era una mia cugina, Glorinha, stavamo insieme fino a che loro si trasferirono a Barra e io mi inventai che questo aveva complicato il rapporto. Fu un pretesto, lei era bella, gli piacevo, ma a me non piaceva e poi si dice che tra cugini i figli possono nascere handicappati. I miei fratelli, nonostante detestassero nostra zia, che era sorella di mia madre solo da parte di padre, credevano che sarebbe stato un matrimonio perfetto per me. Suo padre, socio di una compagnia di auto-trasporti a Baixada, mi avrebbe potuto trovare un lavoro , visto che io non volevo fare il cameriere nel ristorante di mio fratello. Non ero quel tipo di persona che finge di essere disoccupata perché non trova lavoro, io non lo trovavo davvero, ma non volevo fare il cameriere.
“Tu non mi vuoi presentare la tua famiglia? Non mi parli mai di loro”.
“Un giorno di questi”.
“Io ti ho presentato mia madre. Non ho un padre. Tu hai padre e madre?”
“Sono come te, ho solo la madre. Ma non gli piace ricevere visite”.
“E non hai fratelli?”
Uno non racconta mai una sola bugia. Arrivano sempre a fiumi, come un alluvione. Probabilmente io dicevo almeno una bugia al giorno a Genoveva. Lei mi piaceva, ma non poteva piacermi, a una donna bella può piacere un uomo brutto, ma a nessun uomo può piacere una donna brutta, il mondo va così. Se avessi i soldi per scappare di casa fuggirei con lei. E quell’ingombro della madre, cosa ci si fa con quella? Chi manteneva la vecchia era Genoveva con i pochi spiccioli che guadagnava in farmacia, e pensa che era la responsabile.
Come dice il detto, è più facile trovare un bugiardo che uno zoppo. Uno zoppo è una specie di monco. Un giorno andai a prendere Genoveva in farmacia all’ora di pranzo, andammo a prendere un panino e un succo di canna da zucchero in via dell’ Acre quando sentii una voce:
“Oduvaldo, Oduvaldo”
Riconobbi la voce, finsi di non sentire. Continuai a camminare, ma Genoveva si fermò e guardò indietro.
“C’è una ragazza che ti chiama”.
“Una ragazza? Lascia perdere, andiamo via”.
Ma mia sorella ci aveva già raggiunto.
“Oggi è il compleanno di Clodoaldo. Non ti dimenticare, alle otto. Tu hai sempre la testa fra le nuvole”.
A casa nostra tutti i nomi da uomo finiscono in aldo. E i nomi da donna in alva.
“Non mi presenti la tua amica?”
“E’ la ragazza della farmacia”.
“Io sono sua sorella. Marialva, piacere di conoscerti”
“Piacere mio, Geni. Pensavo che fossi in viaggio”
“In viaggio? Magari.”
“Che ci fai qui in via Larga?” le chiesi irritato.
“Sono venuta a comprare il regalo per Clodoaldo. Sei arrabbiato per qualcosa?”
“Dobbiamo andare, ciao” dissi, tirando via Genoveva.
Il succo di canna quel giorno aveva un gusto cattivo. Genoveva non mangiò il panino. Disse che non aveva fame e poi non disse più niente. Mentre tornavamo alla farmacia, mi domandò:
“Perchè non mi hai presentata come tua ragazza? La ragazza della farmacia? La ragazza della farmacia?”
“Io non voglio, sai com’è, dire così, all’improvviso, questa è la mia ragazza, mia sorella avrebbe detto, mio fratello aveva la ragazza e non ce l’ha presentata. Sai com’è, sarebbe diventata impicciona”.
“Ma lei non era in viaggio? O mi stai prendendo in giro?”
“Ma che dici, Genoveva? Sei arrabbiata?”
“Sono arrabbiata, sì”.
“Un giorno ti presenterò a loro”.
“Perchè non mi porti al compleanno di, di, come si chiama? Di tuo fratello”.
“Clodoaldo. Così, all’improvviso”.
“Come, all’improvviso? Devi trovare il momento per farlo”.
“Non so se il momento giusto è una festa di compleanno noiosa, con dolci e tanti auguri a te”.
Io e Clodoaldo compiamo gli anni lo stesso mese, ma Genoveva questo non lo sapeva, io non potevo dirle che la mia famiglia avrebbe fatto una festa per me nei prossimi giorni, per il mio compleanno. Non potevo portare la ragazza a casa mia. La famiglia è una rottura di palle.
“Pensi che io sia cretina, non è vero?”
“Ma che dici, Genoveva?”
“Piantala di dire che dici. Dico questo, proprio questo. Non mi accompagnare in farmacia, devo pensare, tu mi stai confondendo”.
Lei uscì correndo, correndo come nei cento metri piani.
Arrivai alle otto in punto alla festa di Clodoaldo, nel suo ristorante, che quella sera era chiuso ai clienti. Tra i regali che ricevette l’unico di poco valore fu lo stemma di Vasco che gli diedi io, ma Clodoaldo era un fanatico “vascoino” e apprezzò molto quello stemmetto, inoltre sapeva che non avevo il becco di un quattrino. Stetti ad osservare la mia famiglia, tutti molto eleganti, tutti belli e benestanti, la moglie di Clodoaldo era bella, quella di Reinaldo, che aveva l’officina meccanica, era bella, perfino mia madre, che era vecchia, era bella, l’unico che era solo bello senza essere realizzato nella vita ero io, ma con la bellezza non si mangia, a meno che tu non sia donna, si dice.
Oltre a mia madre e ai miei fratelli, c'erano alla festa anche i loro amici. Io non ho amici. Vabbè i loro amici sono anche un po' amici miei. Tutti bevvero, cantarono, risero, spensierati, anch'io bevvi, ma non servì a niente, la birra e il vino ebbero lo stesso effetto di una camomilla, mi lasciarono solo la nausea.
"Oduvaldo ha trovato la ragazza" annunciò Marialva ad un certo punto.
Tutti mi presero in giro. Dissero un sacco di cavolate, raccontarono barzellette.
"Vedi, lui non dice mai niente" disse Ronaldo.
"Chi è questa ragazza?" chiese mia madre.
"Lavora in una farmacia" disse Marialva.
"Jaqueline? Quella ragazzina è un angelo".
" Lei non lavora nella farmacia qui, mamma. Credo sia in una delle farmacie di via Larga. Loro due camminavano per via Larga. Si chiama Geni".
Sentii ancora un sacco di battute idiote. Marialva non disse che Geni era brutta. A dire la verità, Marialva era in gamba, era fidanzata con un medico, si sarebbero sposati, lui era alla festa, era pieno di sè, sai come sono questi medici, ma non era una cattiva persona, molto gentile con tutti noi, ma grazie a Dio non avevo bisogno dei suoi servizi,curava le emorroidi.
Oltre ad essere un gran signore, quel figlio di puttana era anche bello. Porca troia, c'è tanta gente brutta in questo cazzo di Brasile, tranne che nella mia famiglia? Che merda.
Il giorno dopo passai dalla farmacia. Genoveva aveva il broncio.
"Desidera qualcosa?"
"Voglio parlare con te".
"Non abbiamo niente di cui parlare. Sono molto impegnata" disse, girando le spalle e nascondendosi in fondo alla farmacia.
Ero nella merda. Non potevo presentare Genoveva alla mia famiglia, sarei morto di vergogna, mi vergognavo anche di me stesso, di essere un coglione, penso fosse perché avevo perso il mio lavoro e non riuscivo a trovarne un altro, avevo lasciato le medie a metà perché mi piaceva solo giocare a biliardo e a calcio con gli amici, mia madre e i miei fratelli avrebbero dovuto riempirmi di botte, invece me le davano tutte vinte.
Rimasi a gironzolare vicino alla farmacia fino all'ora di chiusura. Quando Genoveva uscì, le andai vicino e dissi:
"Voglio chiederti perdono".
Nessuna donna resiste quando un uomo chiede perdono. Lei mi guardò, vide qualcosa nei miei occhi e mi perdonò.
"Sei perdonato" disse, dandomi un bacio sulla guancia.
Chiesi sinceramente perdono, ma quello che dissi subito dopo era mezza verità e mezza bugia.
"Non ti ho presentato alla mia famiglia perché sono tutti un po' snob, solo per questo". Loro erano davvero un po' snob, perfino mia madre, che si chiamava Ednalva, era un po' snob, ma il motivo non era solo questo, era come la mia famiglia avrebbe reagito quando avesse visto la bruttezza di Genoveva.
"E qual è il problema se sono snob? Qual è il problema?"
Riuscii a driblare l'argomento e ci separammo a pace fatta, ma Genoveva sembrava preoccupata per qualcosa.
Il giorno dopo l'anniversario di Clodoaldo, non so cosa mi prese e chiamai Marialva per parlare in privato. Le dissi che ero innamorato di Genoveva. Se vuoi aprire il tuo cuore, aprilo a una donna. Se lei è tua sorella, è chiaro. Con le mamme è più complicato, le mamme vanno bene per certe cose, per altre sono migliori le sorelle.
"Quella ragazza di via Larga?" domandò Marialva.
"Quella".
"Molto innamorato?"
"Pazzamente innamorato. Non posso vivere senza di lei. Lo so che è brutta, ma non posso vivere senza di lei".
"C'è gente più brutta di quella ragazza".
Poi, Marialva non disse più niente. Si morse il labbro di sotto, solo questo.
Continuai a girare per la strada, passai dalla sala del biliardo, decisi che non avrei mai più giocato a biliardo, ne' a calcio con gli amici, so che avrei sofferto per questo, ma la mia vita era già uno schifo.
Per di più, giovedì era il giorno del mio compleanno; la mia famiglia faceva sempre una festa per me ed io non ci avrei portato Genoveva. Se veniva a saperlo, ero fregato, Genoveva si era infastidita solo perché non l'avevo invitata al compleanno di Clodoaldo. Ero in un vicolo cieco.
Rimasi due giorni senza vedere Genoveva. Il giorno del mio compleanno, pieno di rimorso, feci un salto alla farmacia. Pensai che mi avrebbe fatto una partaccia, ma mi accolse con un sorriso.
Lo trovai strano, ma non si sa mai cosa può passare per la testa a una donna.
"Sono passato di qui solo per dirti che ti amo".
"Nient’altro?"
"No, solo questo. Ci vediamo domani?"
"Va bene, ci vediamo domani" disse lei, sempre ridendo. Sembrava completamente fuori di testa.
La festa del mio compleanno fu a casa di mia madre. Io abitavo a casa di mia madre, succede agli ultimi nati, soprattutto se disoccupati, come me. Erano tutti lì, i miei fratelli, le mogli dei miei fratelli, il dottore di Marialva, tutti quei cretini. La festa era appena cominciata quando mia madre disse:
"Marialva, vai a prendere il regalo di Oduvaldo".
Mia sorella sparì per un po'.
Il campanello della porta suonò, e tutti cominciarono a cantare, tanti auguri a te. Quella canzoncina mi faceva schifo.
Allora mia madre aprì la porta e comparve Marialva, trascinando Genoveva per la mano.
"Genoveva...?" dissi, sorpreso.
"Non ci sono così tante farmacie in via Larga, è stato facile trovare la ragazza" disse Marialva.
Mi venne da piangere, penso fosse perché ero disoccupato, e un uomo disoccupato è fragile. A dire la verità, mi vennero le lacrime agli occhi quando abbracciai Genoveva. Poi abbracciai i miei parenti e tutti coprirono Genoveva di baci. Mia madre portò un dolce dalla cucina, pieno di candeline accese.
Ora sono sposato con Genoveva. Lei piace molto alla mia famiglia, dicono che è dolce, disponibile e si prende cura di me. Lavoro come cameriere nel ristorante di Clodoaldo. Non è così male, essere cameriere, e mio fratello mi ha offerto di entrare in società. Lavoro sodo, entro e non so quando esco.
Ma chi l’ha detto che la famiglia è una rottura di palle?
(Racconto tratto dalla raccolta Pequenas Criaturas, Editora Companhia das Letras, São Paulo, Brasil, 2002. Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi allievi del 2° anno di Lingue dell’Università di Pisa Claudia Corti,Elena Borgogni, Sara Del Chicca, Letizia Ioli, Elena Moncini, Rebecca Moretti, Rebecca Narducci, Martina Orsi, Giada Poggianti, Isabella Razzuoli, Lucio Sanciu.)
Rubem Fonseca
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