MUSKA
Bernardino Zapponi
L'Africa centrale più selvaggia e torrida; immensi alberi, una vegetazione incombente, e gridi, strilli d'uccelli, ruggiti lontani; un'aria umida che contagia di sudore la pelle; l'ambiente ideale, certo, per una serie di belle fotografie di moda stravagante, da vendere alle pubblicazioni più famose. La piccola troupe s'era attendata in una radura della foresta, agli ordini del grande fotografo basso e barbuto, che di giorno percorreva come un cacciatore la zona in cerca di sfondi mai visti, di prospettive insolite, di colori accesi o teneri che meglio facessero risaltare gli ornamenti e i vestiti e soprattutto i capelli, la carnagione, l'esilità incorporea della sua modella celebre, Muska.
Sudando affannati, e confortandosi con il whisky, fotografo e tecnici organizzavano le pose, in un clima un po' febbricitante, di sogno. Muska, quando non era di scena, restava chiusa nella sua tenda, rannicchiati i lunghi arti sopra il lettino, a dormire o pensare, immobile come un fascio di stecchì. Quando venivano a chiamarla, sviluppava le gambe lentamente, sgranchiva le braccia, e appariva alta e secca nel sole, coi grandi occhiali rotondi. Le mettevano addosso corte vesti a ombrello, stivali dritti come canne; tintinnavano gli orecchini di rame, i bracciali cascanti a catena, le collane di palle d'argento; vibravano nello scirocco i diademi a raggiera, le antenne di nylon che spuntavano dalle spalle, dalle punte degli occhiali.
«Bene così. E così. E così».
Muska disponeva le braccia ad angolo retto, le gambe una dritta una ottusa, la testa rigida dilato, o china, o alzata, con gli occhiali puntati a convergere su un punto inutile del fogliame. La facevano anche sdraiare, come un insieme di canne gettate sulla riva, presso il grande fiume: un solo gomito a punta che sosteneva e mostrava il corsetto di luminoso metallo.
La notte, difesi da grandi fuochi, gli uomini si raccoglievano, mangiavano le provviste, parlavano ridendo, ma l'aria popolata di presenze lontane, delle quali arrivavano urla o tonfi o calpestii (una vita insopprimibile, continua, tenace) portava un'ansia, dava un che di pauroso. Muska pareva non soffrirne, perché fin dal tramonto si rifugiava nella tenda, dove anche consumava la sua piccola cena di latte e verdura.
«Qui la natura è forte», diceva il fotografo. «La natura vince: in continuazione sboccia, trasforma, rinasce.»
E in realtà, si poteva seguirne l'avvicendarsi a vista d'occhio. Sembrava di udire le radici insinuarsi nel terreno, di vedere allargarsi i fiori; pareva di sentire crepitare le larve degli insetti.
Dopo qualche giorno di quella sosta opprimente, il fotografo si accorse che la fotomodella soffriva, ma come sempre in silenzio.
«Muska» le bisbigliò carezzandole la testa nell'oscurità della tenda, «che cos'hai? Soffri il caldo? Vuoi che partiamo?»
Muska faceva di no lentamente. Ma disse con una voce sottile:
«È la natura... La natura è forte...»
«Hai la febbre? Ti faccio fare un'iniezione?»
Muska si torceva pian piano, e strinse la mano del fotografo con una presa convulsa.
«No» sussurrò alla fine, «Lasciami dormire».
Ma il giorno dopo, comparve fuori della tenda all'improvviso, coi suoi grandi occhiali, e i raggi e le antenne e gli assurdi vestiti come elitre, squame, ali, e s'incamminò senza ragione nella foresta, a passi faticosi, lenti; sembrava ubbidire a un misterioso richiamo. Gli uomini non ebbero il coraggio di costringerla a fare fotografie; restarono a bere e chiacchierare, sebbene il fotografo sentisse la necessità di andarle dietro, fermarla: ma non ne fece nulla.
Disse soltanto:
«Domani partiamo.»
E aggiunse:
«Qui è pericoloso per Muska. »
Sebbene non avessero afferrato il senso di queste parole, gli altri guardarono con particolare attenzione Muska che sempre più rattrappita e sofferente rientrava e si andava a chiudere nel suo rifugio senza dire parola.
Il caldo divenne tremendo. Cascavano dagli alberi frutti che istantaneamente cominciavano a marcire. Fiori nascevano e morivano nel giro di poche ore. Sciami d'insetti si alzavano di colpo volando via dalle cortecce; le uova scoppiavano nei nidi. Muska si era chiusa nella tenda, e non voleva uscire: e il fotografo tentava di placare la curiosità degli altri:
«Sta male. L'ho vista adesso; non parla, si contorce. Non vuole aiuto. È in crisi. Deve superare questo momento.»
«Partiamo subito.»
«Domani; o dopodomani. Quando Muska sarà guarita.»
Davanti alla tenda, in attesa, gli uomini consumavano le provviste senza più parlare né ridere. Il fotografo, seduto in disparte, guardava le foglie immense, e gli uccelli che volavano calmi, e il brulichio degli insetti.
Scese una notte pesante, non però silenziosa, ché da ogni parte giungevano forti gridi, singhiozzi, risate: erano le voci di mille bestie, ridestate dal buio. Tra le fronde s'indovinava una vita fremente e avida, e quelle voci sembravano chiamare, invocare, gemere di desiderio; erano come rivolte a qualcuno: a chi? Uno a uno gli uomini della troupe si assopirono, in una sorta di dormiveglia inquieto. Anche il fotografo chiuse gli occhi, ma non poté dormire. Sia pure nel lieve sonno, ciascuno restava vigile...
Poi la tenda di Muska si schiuse appena; con leggerezza, col rumore di un frullio. E sbucò fuori una maestosa farfalla, sgargiante, ricca di antenne e lunghe zampe, e ali meravigliose. Ancora indecisa, svolazzò un poco, poi si alzò, e battendo le ali potenti di mille colori si perse nella foresta.
Con un grido unanime, tutti si precipitarono dentro la tenda. Ma il prevedibile era successo. Della modella Muska non restava, sulla branda, che il bozzolo; la sua forma corporea irrigidita, spaccata; definitivamente vuota.
(Racconto tratto dalla raccolta Trasformazioni, Il melangolo editrice, Genova, 1990.)
Bernardino Zapponi è nato nel 1927 a Roma. La sua attività più conosciuta è quella di sceneggiatore per il cinema. Per Federico Fellini ha scritto: Tre passi nel delirio, I clown, Satyricon, Roma, Casanova (nomination all’Oscar per la sceneggiatura) e La città delle donne. Ha lavorato per molti altri registi, tra i quali Soldati, Dino Risi, Monicelli, Scola, Argento, Bolognini e Comencini. Ha fondato e diretto una curiosa rivista, “Il delatore”, e ha pubblicato vari libri, tra cui Gobal (Longanesi, 1967).
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