LA LETTERATURA E LA DITTATURA DEL MODERNO
Susan Sontag
La letteratura racconta storie. La televisione dà informazioni. La letteratura coinvolge. È una ri-creazione della solidarietà umana. La televisione (con la sua illusione di immediatezza) distanzia, ci imprigiona nella nostra indifferenza. Le cosiddette storie raccontate dalla televisione soddisfanno la nostra fame di aneddoti e ci offrono modalità di comprensione che si elidono a vicenda. (Ciò è rafforzato dalla pratica di punteggiare con la pubblicità le narrazioni televisive). Tali storie affermano implicitamente l'idea che tutte le informazioni siano potenzialmente rilevanti (o “interessanti”), che tutte le storie siano senza fine – o che se si interrompono, ciò non accade perché si siano concluse, ma perché sono state spodestate da una storia più recente, più sensazionale, o più eccentrica. Presentandoci un numero illimitato di storie inconcluse, le narrazioni proposte dai media – il cui consumo ha drammaticamente inciso sul tempo che in passato il pubblico istruito dedicava alla lettura – offrono una lezione di amoralità e distacco antitetica a quella incarnata dal progetto del romanzo.
Nella narrazione di storie praticata dal romanziere c'è sempre una componente etica. Questa componente etica non sta nella contrapposizione di una verità alla falsità della cronaca. Sta nel modello di completezza, di intensità, di illuminazione fornito dalla storia, e dalla sua risoluzione – che è l'opposto del modello di ottusità, di incomprensione, di passivo sgomento, e conseguente ottundimento dei sentimenti, offerto dalla sovrabbondanza di storie inconcluse dai media. La televisione ci offre, in forma estremamente svilita e non vera, una verità che il romanziere è costretto a sopprimere in nome del modello etico di comprensione caratteristico dell'impresa narrativa: vale a dire, la consapevolezza che tratto distintivo del nostro universo è che molte cose accadono nello stesso tempo. (“Il tempo esiste perché le cose non succedano tutte contemporaneamente… lo spazio esiste in modo che non succedano tutte a te”). Raccontare una storia vuol dire: è questa la storia importante. Vuol dire ridurre l'estensione e la simultaneità del tutto a qualcosa di lineare, a un tragitto.
Essere un individuo morale significa prestare, essere obbligato a prestare, un certo tipo d'attenzione. Quando esprimiamo giudizi morali, non stiamo semplicemente affermando che una cosa è migliore di un'altra. Stiamo affermando, in modo ancor più fondamentale, che una cosa è più importante di un'altra. Ordiniamo la vertiginosa estensione e la simultaneità del tutto, a costo di ignorare o voltare le spalle a gran parte di ciò che accade nel mondo. La natura dei giudizi morali dipende della nostra capacità di prestare attenzione: una capacità inevitabilmente limitata, i cui limiti si possono, però, forzare. Ma forse il primo passo verso la saggezza e l'unità sta nel rassegnarsi ad accettare l'idea, la devastante idea, della simultaneità di ogni cosa, e della incapacità della nostra comprensione morale – che è anche quella del romanziere – di assimilarla (…)
I romanzieri, dunque, assolvono un necessario compito etico sulla base di un diritto a un pattuito restringimento del mondo reale – sia in termini di spazio che di tempo. I personaggi di un romanzo agiscono in un tempo che è già completo, in cui tutto ciò che vale la pena di essere salvato è stato preservato – “lavato dalle incrostazioni”, come scrisse Henry James nella prefazione a Le spoglie di Poynton . Tutte le storie reali sono storie del destino di qualcuno. I personaggi romanzeschi hanno destini estremamente leggibili. Il destino della letteratura stessa è qualcos'altro. Intesa come storia, la letteratura è piena di sgraziate incrostazioni, richieste irrilevanti, attività prive di scopo, attenzioni improduttive. Habent sua fata fabulae, recita una frase latina. I racconti, le storie hanno un loro destino. Perché vengono disseminati, trascritti, mal ricordati, tradotti.
Nessuno, ovviamente, potrebbe mal augurarsi che le cose vadano diversamente. La scrittura di narrativa, un'attività necessariamente solitaria, ha una destinazione che è necessariamente pubblica, comunitaria.
Tradizionalmente, tutte le culture sono locali. Una cultura implica barriere (linguistiche, ad esempio), distanza, intraducibilità. Mentre il “moderno” comporta, più di ogni altra cosa, l'abolizione delle barriere e della distanza; l'accesso immediato, l'appiattimento della cultura – e, per la sua inesorabile logica, l'abolizione, o la revoca, della cultura. Ciò che fa al caso del “moderno” è la standardizzazione, l'omogeneizzazione. (Anzi, “il moderno” è omogeneizzazione, standardizzazione. Il luogo per eccellenza del moderno è l'aeroporto; e tutti gli aeroporti sono simili, come tutte le città moderne, da Seul a São Paulo, tendono ad assomigliarsi).
Questa tendenza all'omogeneizzazione non può non incidere sul progetto della letteratura. Il romanzo, che è caratterizzato dalla specificità, può entrare in questo sistema di massima diffusione solo per il tramite della traduzione che, per quanto necessaria, comporta un'intrinseca distorsione di ciò che il romanzo è al livello più profondo, vale a dire non la comunicazione di informazioni, e nemmeno il racconto di storie intriganti, ma la perpetuazione del progetto della letteratura stessa, con il suo invito a sviluppare una forma di interiorità capace di opporsi alle sazietà del moderno.
Tradurre significa trasportare qualcosa al di là di un confine. Ma sempre più di frequente questa società, una società “moderna”, ci insegna che non esistono confini – il che vuol dire, ovviamente, né più né meno, che non ci sono confini per i settori privilegiati della società, oggi geograficamente più mobili di quanto sia mai accaduto nella storia umana. E l'egemonia dei mezzi di comunicazione di massa – televisione, Internet – ci insegna che esiste una sola cultura, e che la cultura che si trova oltre i confini è – o un giorno sarà – sempre la stessa, con gli abitanti del pianeta che si cibano tutti alla stessa mangiatoia di intrattenimento standardizzato e di fantasie di eros e di violenza prodotte negli Stati Uniti, in Giappone, o dove che sia; tutti illuminati dallo stesso flusso infinito do frammenti di informazioni e opinioni non filtrate (anche se, in realtà, spesso censurate).
Che da tali media si possa ricavare un qualche piacere e una qualche illuminazione è innegabile. Ma sono convinta che essi alimentano mentalità e soddisfano appetiti del tutto avversi alla scrittura (produzione) e alla lettura (consumo) della letteratura seria. La cultura transnazionale e cui vengono iniziati tutti colo che fanno parte della società capitalistica dei consumi, nota anche come economia globale, è una cultura che, in realtà, rende irrilevante la letteratura – un mero servizio volto a darci quello che già conosciamo – e può trovare un posto all'interno delle strutture inconcluse che regolano l'acquisizione di informazioni e l'osservazione voyeuristica a distanza.
Ogni romanziere spera di raggiungere il più vasto pubblico possibile, di attraversare tutti i confini possibili. Ma compito del romanziere, a parer mio, è tenere a mente la falsa geografia culturale che si sta instaurando all'inizio del XXI secolo. Da un lato, attraverso la traduzione e l'adattamento nei media, abbiamo la possibilità di una diffusione sempre maggiore delle nostre opere. Lo spazio è, per così dire, sconfitto. Il “qui” e il “là”, ci viene detto, sono in costante contatto tra loro e stanno convergendo con forza. D'altro canto, l'ideologia che sta dietro queste opportunità di diffusione e traduzione senza precedenti – l'ideologia oggi dominante in quella che passa per cultura nelle società moderne – si propone di rendere obsoleto il compito profetico, critico, e finanche sovversivo, del romanziere, quello, cioè, di approfondire, e a volte, se necessario, di combattere il comune modo di comprendere il nostro destino. Lunga vita al compito del romanziere.
(Discorso tratto dalla raccolta di saggi Nello stesso tempo: il romanziere e la riflessione morale, Mondadori, Milano, 2008. Traduzione di David Rieff.)
Susan Sontag (New York 1933-2004) è stata una delle più note e affermate scrittrice contemporanee, attenta osservatrice delle dinamiche culturali e delle realtà politiche della società.
Precedente Successivo
Copertina.
|