LA MORGUE

– Brano tratto dal romanzo Thérèse Raquin



Émile Zola

 

Perdurava in Laurent una sorda inquietudine. Non era stato possibile constatare ufficialmente il decesso di Camille. Il marito di Thérèse era morto, senz'ombra di dubbio, ma l'omicida avrebbe voluto ritrovarne il cadavere in modo da stendere un atto formale. Il giorno do­po la disgrazia avevano cercato inutilmente il corpodell'annegato; si presumeva che fosse andato a inca­gliarsi in qualche buca, sotto gli argini delle isole. Alcu­ni ferrivecchi perlustrarono attivamente la Senna per riscuotere il premio.

Laurent si prese la briga di passare ogni mattina dalla Morgue mentre andava al lavoro. Si era ripromesso di sbrigarsela da solo. Nonostante il voltastomaco e i brivi­di che a volte lo scuotevano andò regolarmente per più di otto giorni a guardare in faccia tutti gli annegati distesi su lastre di pietra.

Quando entrava, un odore nauseabondo, un odore di carne macerata lo disgustava, e soffi gelidi gli correvano sulla pelle; l'umidità dei muri sembrava impregnargli gli abiti che sentiva più pesanti sulle spalle. Andava difilato alla vetrata che separa gli spettatori dai cadaveri; appic­cicava ai vetri la faccia pallida, guardava. Davanti a lui erano allineate grigie lastre di pietra. E sulla pietra i corpi nudi apparivano come sparse macchie verdi e gialle, bianche e rosse; certuni serbavano nella rigidità della morte le loro carni illibate; altri sembravano infor­mi avanzi di macellazione, sanguinolenti e putrefatti. In fondo, contro il muro, pietosi brandelli di indumenti, gonne e pantaloni, pendevano raggrinziti sull'imbianca­ta nudità della parete. Lì per lì Laurent non vedeva che il grigiore delle pietre e dei muri con le macchie rosse e nere degli indumenti e dei cadaveri. Chioccolava una vena d'acqua corrente.

Poi a poco a poco distingueva i corpi. Allora li passava in rassegna. Non cercava che gli annegati; quando c'erano cadaveri gonfi e illividiti dall'acqua li guardava con avidità nel tentativo di riconoscere Camille. Soven­te la carne di quei volti cadeva a brandelli, le ossa avevano perforato la pelle diventata molle, la faccia era come spappolata e disossata. Laurent esitava; esaminava i corpi, cercava di ritrovare le magrezza della sua vittima. Ma gli annegati sono tutti grassi; vedeva ventri enormi, cosce piene, braccia rotonde e forti. Si confondeva, restava fremente di fronte a quelle carcasse verdastre che sembravano sghignazzare con smorfie orribili.

Un mattino si prese un vero spavento. Stava osser­vando un annegato da qualche minuto, piccolo di statu­ra, atrocemente sfigurato. Le sue carni erano molli e sfatte, e l'acqua corrente che le lavava le portava via pezzo dopo pezzo. Il getto che cadeva sulla faccia scavava un buco a sinistra del naso. E all'improvviso il naso si spianò, le labbra si staccarono scoprendo i denti bian­chi. La testa dell'annegato si spalancò in una risata.

Ogni volta che credeva di riconoscere Camille, Laurent avvertiva una fitta al cuore. Desiderava ardentemente ritrovare il corpo della sua vittima ma sentiva ve­nir meno il coraggio quando immaginava di vederselo davanti. Le visite alla Morgue gli mettevano addosso incubi, brividi che lo lasciavano ansimante. Affrontava di petto la paura, si diceva che era un bambino, voleva essere forte; e ciò nonostante il suo fisico si ribellava, il ribrezzo e lo spavento lo aggredivano nell'intimo appe­na si trovava nell'umidità e nell'odore nauseabondo della sala.

Quando non vedeva annegati sull'ultima fila delle la­stre di pietra respirava tranquillo; aveva disgusti meno forti. Diventava allora un curioso come tanti altri, pro­vava uno strano piacere a guardare in faccia la morte violenta, nelle sue pose lugubremente bizzarre e grotte­sche. Era uno spettacolo che lo divertiva, soprattutto quando c'erano donne con il petto nudo bene in vista. Queste nudità brutalmente esposte, macchiate di san­gue, qua e là sforacchiate, lo attiravano e lo trattenevano alla vetrata. Una volta vide una giovane donna di vent'anni, una ragazza del popolo, grossa e forte, che pareva dormisse sulla pietra; il suo corpo fresco e opu­lento biancheggiava con una soavità di tinte di una grande delicatezza; accennava un sorriso, la testa appena reclinata, e offriva il petto in un modo provocante; poteva sembrare una cortigiana in una posa di molle abbandono non fosse stato per una linea nera sul collo che le metteva come un vezzo d'ombra; era una ragazza che si era impiccata per una delusione d'amore. Laurent la osservò a lungo, come accarezzandola con lo sguardo, smarrito in una sorta di trepido desiderio.

Ogni mattina, mentre era all'obitorio, udiva alle sue spalle la confusione del pubblico che entrava e usciva.

La Morgue è uno spettacolo alla portata di tutte le borse, che qualunque passante, povero o ricco, si concede gratuitamente. La porta è aperta, entra chi vuole. Ci sono ammiratori che allungano il cammino pur di non perdersi una di queste rappresentazioni della morte. Quando le lastre di pietra sono spoglie, la gente esce delusa, come defraudata, biascicando proteste. Quando sono ben fornite, quando c'è sfoggio di carne umana, i visitatori accorrono numerosi per procurarsi emozioni a buon mercato – si spaventano, scherzano, applaudono o fischiano come a teatro, e per quel giorno escono soddi­sfatti commentando la buona riuscita della Morgue.

Laurent fece presto a conoscere il pubblico che fre­quentava il posto, un pubblico variopinto e disparato che lì veniva a impietosirsi e a sghignazzare in compa­gnia. Entravano operai diretti al lavoro, con una pa­gnotta e gli attrezzi sotto il braccio; la trovavano buffa la morte. In mezzo a loro qualche mattacchione di tur­no faceva sorridere la platea con qualche battuta sul ghigno di ogni cadavere; i morti carbonizzati li chiamavano "i carbonai"; gli impiccati, gli assassinati, gli anne­gati, i cadaveri sforacchiati o maciullati eccitavano il lo­ro estro beffardo, e con una voce che leggermente si in­crinava balbettavano frasi comiche nel vibrante silenzio della sala. Poi venivano i piccoli rentier, qualche vec­chio magro e ossuto, i bighelloni sfaccendati che guardavano i corpi con occhi idioti ed espressioni di uomini placidi e delicati. Le donne erano numerose; c'erano giovani operaie, rosee in volto, candida la camicia, linde le sottane, che facevano la spola da un capo all'altro della vetrata, sgranavano gli occhi come davanti alla vetrina di un negozio di mode; c'erano anche donne del popolo, che osservavano inebetite con espressioni com­passionevoli, e signore eleganti che passavano indolenti con i loro strascichi di seta.

Un giorno Laurent vide una di queste signore che se ne stava ferma a qualche passo dalla vetrata coprendosi le narici con un fazzoletto di batista. Indossava una de­liziosa sottana di seta grigia e un'ampia mantellina di pizzo nero; una veletta le nascondeva il volto, e le mani guantate sembravano minute e finissime. Un dolce profumo di violetta le aleggiava attorno. Guardava un ca­davere. Su una pietra non troppo distante giaceva il cor­po di un ragazzo robusto, un manovale morto sul colpo cadendo da un'impalcatura; aveva un busto quadrato, muscoli grossi e tozzi, carne bianca e pingue; la morte ne aveva fatto una statua mormorea. La signora lo esa­minava, lo rivoltava per così dire con lo sguardo, lo soppesava, restava assorta nella visione di quell'uomo. Alzò una punta della veletta, guardò ancora, poi uscì.

Ogni tanto arrivavano bande di ragazzini dai dodici ai quindici anni, che correvano lungo la vetrata non fer­mandosi che davanti ai cadaveri di donne. Piantavano le mani sui vetri e lasciavano scorrere sguardi sfrontati sui seni nudi. Si davano gomitate, facevano apprezzamenti brutali, imparavano il vizio alla scuola della mor­te. È alla Morgue che le giovani canaglie trovano la loro prima amante.

Dopo una settimana Laurent era disgustato. Di notte sognava i cadaveri che aveva visto di giorno. Questa sofferenza, questa nausea che quotidianamente si impo­neva finirono per turbarlo profondamente. Così decise che sarebbe tornato ancora due volte e poi basta. L'in­domani, entrando alla Morgue, ricevette un colpo vio­lento al petto: di fronte a lui, su una pietra, Camille lo guardava, supino, la testa sollevata, gli occhi socchiusi.

L'assassino si accostò lentamente alla vetrata come attirato da una forza, non potendo distogliere gli sguar­di dalla sua vittima. Non soffriva; provava soltanto un gelo interiore e un formicolio a fior di pelle. Si era im­maginato una reazione più violenta. Restò immobile per cinque lunghi minuti, smarrito in una contemplazio­ne inconsapevole, irriflessivamente scolpendo nei reces­si della memoria tutti i tratti raccapriccianti, tutti i colo­ri immondi del quadro che aveva sotto gli occhi.

Camille era ripugnante. Quindici giorni era rimasto nell'acqua. La faccia sembrava ancora consistente e so­lida; i lineamenti si erano conservati, la pelle soltanto aveva preso un colorito giallastro e limaccioso. Il volto, magro, ossuto, appena tumefatto, si stirava in una smor­fia; era leggermente reclinato, i capelli si raggrumavano sulle tempie; le palpebre, socchiuse a spiraglio, scoprivano il globo opaco degli occhi; le labbra, sgangherate e pendenti verso un angolo della bocca, avevano un ghi­gno atroce; la punta della lingua sbucava nerastra fra il bianco dei denti. Serbando un'apparenza umana questo volto, come mummificato e teso, era più impressionante ancora di dolore e di paura. Il corpo sembrava un ammasso di carni decomposte, aveva sofferto orribilmente. Si intuiva che le braccia erano disarticolate; le clavicole foravano la pelle degli omeri. Sul petto verdognolo le costole disegnavano delle strisce nere; il fianco sinistro, lacerato, squarciato, si apriva in mezzo a brandelli di un rosso cupo. Tutto il busto imputridiva. Le gambe, più consistenti, giacevano distese, sparse di macchie im­monde. I piedi pencolavano.

Laurent guardava Camille. Mai prima aveva visto un annegato così spaventoso. Il cadavere aveva oltretutto un aspetto striminzito, un'apparenza magra e misera; si

raggomitolava nel suo putridume; pareva un mucchiet­to di materia. Si poteva intuire che era stato un piccolo travét, sciocco e malaticcio, allevato a tisane dalla ma­dre. Quel misero corpo, cresciuto fra caldi panni, rabbri­vidiva sulla pietra fredda.

Quando Laurent poté infine vincere la prepotente curiosità che lo teneva immobile e come incantato, uscì, prese a camminare con passo sostenuto sul lungosenna. E mentre camminava ripeteva: "Ecco come l'ho ridotto. È ripugnante". Gli sembrava di portarsi addosso un fe­tore pungente, l'odore che doveva sprigionarsi da quel corpo in putrefazione.

Andò a cercare il vecchio Michaud e gli disse che aveva riconosciuto Camille su una lastra di pietra della Morgue. Ci si occupò delle formalità, si seppellì l'anne­gato, si stese un atto di decesso. Ormai tranquillo, Laurent si diede voluttuosamente a dimenticare il delitto e le scene disdicevoli e penose che ad esso erano seguite.

 


(Tratto dal romanzo Thérèse Raquin, BUR, RCS Libri, Milano,1999. Traduzione di Paola Messori.)


Émile Zola

 

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